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Giove, il viaggiatore

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Non è certo una novità l'idea che Giove abbia esercitato un ruolo chiave nell'evoluzione del Sistema solare. Per esempio, è dal 1886 che gli astronomi, grazie all'intuizione di Daniel Kirkwood, sono a conoscenza di come la presenza del pianeta gigante - grazie al meccanismo delle risonanze dinamiche - abbia scolpito la distribuzione delle orbite dei corpi che popolano la Fascia principale degli asteroidi. E' altresì noto che, una volta appurato che l'idea del “pianeta distrutto” proposta da Heinrich Olbers non poteva reggere, si imputò a Giove e alla sua invadenza gravitazionale il fatto che gli asteroidi non avessero potuto raggrupparsi in un unico oggetto. Da una quindicina d'anni, però, si è scoperto come il ruolo di questo gigantesco pianeta - la sua massa è 318 volte quella della Terra - sia stato molto più invasivo di quanto si pensasse.

Nel 2001, infatti, si cominciò a speculare sulla possibilità che Giove e gli altri pianeti giganti non avessero sempre orbitato intorno al Sole nell'attuale posizione. In quell'anno Frederic Masset e Mark Snellgrove (Queen Mary & Westfield College) pubblicarono su MNRAS l'analisi dinamica di un sistema planetario in formazione nel quale due pianeti giganti delle dimensioni di Giove e Saturno erano immersi in un disco protoplanetario di gas e polvere ed erano legati tra loro da un meccanismo di risonanza di moto medio (nello studio, cioè, si ipotizzava una situazione in cui, mentre il più interno compiva tre orbite, il più esterno ne completava due). L'interazione dei pianeti con i materiali del disco avrebbe dovuto sfociare in un graduale restringimento delle loro orbite, portandoli a orbitare molto più vicino alla loro stella. Le simulazioni, però, indicavano che ad un certo punto, grazie all'azione della risonanza, quella fuga verso l'interno non solo si arrestava, ma invertiva la sua marcia, riportando i pianeti all'incirca alle loro orbite iniziali.

Una decina d'anni più tardi, Kevin Walsh (Université de Nice) e i suoi collaboratori pubblicavano su Nature il risultato di complesse simulazioni con le quali analizzavano le conseguenze della duplice migrazione (andata e ritorno) di Giove nelle prime fasi della formazione del Sistema solare. Questo scenario, prendendo a prestito l'immagine delle virate (tack, in inglese) compiute dalle barche nelle regate, viene solitamente indicato come The Grand Tack model. Una Grande virata, appunto, in grado di portare un notevole scompiglio nel nostro sistema planetario ancora in formazione. Tra le importanti conseguenze che emergono dalle simulazioni del team di Walsh vi è una ridotta massa del pianeta Marte e una decisa azione dinamica sulla popolazione asteroidale, in grado di giustificare le significative differenze di composizione che si osservano all'interno della Fascia principale.

Ultimamente, però, questo già significativo influsso di Giove (e di Saturno!) sull'evoluzione del Sistema solare si è trasformato in qualcosa di gran lunga più ingombrante, devastante e cruciale. Konstantin Batygin (California Institute of Technology) e Gregory Laughlin (University of California Observatories) hanno infatti pensato di rileggere la situazione del nostro sistema planetario alla luce delle scoperte sempre più numerose di sistemi planetari extrasolari. Il loro studio - dal titolo davvero significativo di Jupiter’s decisive role in the inner Solar System’s early evolution - è stato pubblicato su PNAS lo scorso 7 aprile.

Un aspetto che ha da sempre lasciato perplessi gli astronomi è che, nonostante l'elevato numero di sistemi planetari conosciuti, il Sistema solare presenta caratteristiche che lo rendono finora unico. A tal proposito, i due autori sottolineano come le statistiche dei sistemi extrasolari suggeriscono come il “modello standard” sia caratterizzato dalla presenza di pianeti con periodi orbitali inferiori a 100 giorni e masse sostanzialmente superiori a quella della Terra. Generalmente, cioè, siamo in presenza di orbite più strette di quella percorsa da Mercurio nel Sistema solare e su tali orbite troviamo quelle che gli astronomi chiamano super-Terre, pianeti di massa intermedia tra quella del nostro pianeta e quella di Nettuno. Non lasciamoci ingannare dal nome che evoca il nostro pianeta: benché è certamente possibile che alcuni possano avere un nucleo con densità simile a quella dei pianeti interni del Sistema solare e persino grandi quantità d'acqua sulla loro superficie, solitamente si tratta di corpi celesti prevalentemente gassosi - ricchi soprattutto di idrogeno ed elio - dunque davvero poco somiglianti alla Terra. Nel loro studio, Batygin e Laughlin presentano i risultati di simulazioni numeriche che confermano come la migrazione di Giove riesca a spiegare sia la massa dei pianeti terrestri del Sistema solare (una massa inspiegabilmente molto bassa, vista la quantità di materiale a disposizione), sia l'assenza di pianeti più all'interno dell'orbita di Mercurio.

Ricostruiamo brevemente le tappe delle movimentate fasi iniziali della formazione del nostro sistema planetario secondo questo nuovo scenario. Giove, come suggerito anche dal modello della Grande virata, inizia la sua formazione (un processo abbastanza rapido) più o meno dove orbita oggi, cioè a poco più di 5 Unità Astronomiche dal Sole (Unità Astronomica = distanza media Terra-Sole) e, per effetto delle interazioni con il disco di materiale protoplanetario, restringe la sua orbita avvicinandosi gradualmente al Sole. Più all'esterno di Giove si era formato anche Saturno, mentre nella regione più interna si erano quasi completamente formati altri pianeti. Non si trattava, però dei pianeti che osserviamo oggi - Terra compresa - ma di pianeti più grandi, destinati a diventare quelle super-Terre che osserviamo nei sistemi extrasolari.

Nella sua migrazione, dunque, Giove restringe la sua orbita spingendosi fino a circa 1,5 UA dal Sole, dopo di che, grazie all'azione della risonanza con Saturno, inverte la sua pericolosa marcia e allarga l'orbita fino alla posizione attuale. Questo vagabondare del pianeta gigante, però, innesca un processo catastrofico: Giove trascina con sé in quella migrazione i planetesimi di dimensioni comprese tra 10 e 100 km, li cattura con il meccanismo delle risonanze e pompa in modo esagerato le loro orbite. Risultato: uno sciame impazzito di oggetti in orbite caotiche che cozzano l'uno contro l'altro e generano nella regione più interna un disco di gas e detriti. A causa dell'interazione con questi oggetti, con i frammenti e con il disco, le super-Terre (o quanto ne era rimasto) finiscono inesorabilmente col precipitare sul Sole. Una volta che Giove, compiuto quello scempio, raggiunge la posizione nella quale ancora oggi risiede, nella regione più interna inizia una nuova formazione planetaria che, a differenza della prima, può ora contare sulla disponibilità di molto meno materiale. E' questa seconda generazione che sfocia nella costruzione degli attuali pianeti terrestri (Mercurio, Venere, Terra e Marte).

Giocando con le parole, Laughlin ha sottolineato come il lavoro pubblicato su PNAS sia legato al modello della Grande virata: «Ci sono molte evidenze a sostegno della migrazione di Giove, prima verso l'interno e poi verso l'esterno. Il nostro lavoro considera le conseguenze di questa migrazione. Sembra proprio, però, che il Grand Tack di Giove sia stato in realtà un Grand Attack all'originale Sistema solare interno.»

Nel loro studio i due ricercatori non si limitano solamente a proporre uno scenario attendibile per la costruzione di un sistema planetario come il nostro, ma suggeriscono anche alcune previsioni sulle possibili configurazioni planetarie nei sistemi extrasolari. Una di queste previsioni è che l'esistenza di pianeti come il nostro, con una crosta solida e atmosfera caratterizzata da valori modesti di pressione, potrebbe essere una rarità. La loro esistenza, infatti, dipenderebbe da una stringente e favorevole catena di eventi, primi fra tutti la formazione di pianeti giganti come Giove e Saturno, la cui esistenza ha giocato un ruolo fondamentale nel Sistema solare.

Un'altra previsione è che i sistemi planetari che vedono la presenza di pianeti giganti con periodi orbitali superiori a un centinaio di giorni difficilmente ospiteranno pianeti su orbite più interne. Viceversa, se noi osserviamo un sistema planetario extrasolare con un nutrito gruppo di super-Terre, ben difficilmente potremo osservare un pianeta della stazza di Giove orbitante più all'esterno. L'attuale catalogo di sistemi extrasolari non ci permette ancora di verificare l'attendibilità statistica di queste previsioni; grazie al crescente numero di scoperte, però, questa verifica appare sempre più a portata di mano.

Come acutamente ha fatto notare Phil Plait, «è vero che si tratta solamente di una ipotesi, ma sembra proprio che possa funzionare e - più ancora - che la si possa verificare. L'aspetto più piacevole di questa vicenda, però, è che studiando altri sistemi solari siamo in grado di approfondire la conoscenza del nostro.»


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