Il 22 gennaio 1947 lo scienziato più famoso del mondo, Albert Einstein, scrive la lettera con cui delinea i fondamenti della “responsabilità sociale della scienza” e, in particolare, i nuovi rapporti tra scienziati e società in quella che John Ziman definirà l’era post-accademica della scienza1.
L’occasione è data da un lavoro di ricerca e da un’innovazione tecnologica considerata non propriamente responsabile: l’arma atomica. A considerarla tale, a un anno e mezzo dalle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki, non era solo una parte considerevole dell’opinione pubblica mondiale, ma anche un gruppo vasto e organizzato di scienziati americani e, più in generale, occidentali che si riconoscevano nella rivista The Bulletin of the Atomic Scientists. Molti di questi scienziati avevano lavorato al Manhattan Project e, dunque, la bomba atomica l’avevano progettata e costruita. Anche se la gran parte aveva aderito al progetto con un chiaro obiettivo: utilizzarla come deterrente nel caso la Germania di Adolf Hitler l’avesse a sua volta messa a punto. Quando, alla fine dell’estate 1945, ogni operazione di guerra finì e fu chiaro che non c’era alcun altro paese, oltre gli Stati Uniti, a possedere l’arma nucleare, questi scienziati percepirono di avere una qualche “responsabilità sociale” e di doversi battere per obiettivi che non erano strettamente scientifici. Anzi, erano soprattutto politici.
La bomba e la coscienza degli scienziati
Gli obiettivi erano, in buona sostanza, due: impedire che la ricerca nucleare e le conseguenti innovazioni tecnologiche fossero completamente militarizzate; impedire la proliferazione nucleare e ricacciare lo spirito di Hiroshima e Nagasaki nella bottiglia dalla quale era uscito.
La tattica per raggiungere questi risultati politici fu dettata da una nuova consapevolezza. Nel secondo conflitto mondiale la scienza aveva dimostrato (con la messa a punto del radar; con la stessa bomba atomica, ma anche con la messa a punto di farmaci come la penicillina o di nuovi materiali polimerici) di assolvere a un ruolo decisivo non solo nei conflitti armati ma anche nello sviluppo della società.
Espressione di questa nuova e forte consapevolezza fu la pubblicazione, già nel luglio 1945, del rapporto "Science, the Endless Frontier"2 con cui il consigliere scientifico di Franklin D. Roosevelt, Vannevar Bush, inaugura, di fatto, non solo la moderna politica della scienza, ma la moderna politica economica (per un’economia fondata sulla conoscenza). Una certa hybris portò gli scienziati ad immaginare di avere una forza e, dunque, un potere negoziale pari a quello dei politici. E, dunque, di poter imporre la loro visione “responsabile” della gestione della tecnologia atomica. Ma ben presto si accorsero di quanto illusoria fosse questa convinzione. Dinamiche interne alla politica americana, ma soprattutto lo scoppio della cosiddetta “guerra fredda” tra i due alleati già divenuti nemici (Usa e Urss, Est e Ovest), portarono alla sconfitta delle istanze degli Atomic Scientists.
La lettera di Einstein
Ed è a questo punto che interviene Albert Einstein, insieme a quella formidabile mente politica che era il fisico ungherese Leo Szilard, con una mossa del cavallo. Ingaggiare il grande pubblico nella partita. Creare un’alleanza tra cittadini comuni e scienziati responsabili, per raggiungere la forza critica necessaria per fare pressione sulla politica. Nasce così, sul finire del 1946, l’Emergency Committee of the Atomic Scientists: un piccolo comitato, di cui Albert Einstein è il presidente che ridisegna i rapporti tra scienza e società. Sulla base di quattro concetti espressi nella breve lettera firmata il 22 gennaio dal grande fisico e che costituiscono, a tutt’oggi, la base teorica per quella Responsible Research and Innovation (RRI) che l’Unione Europea ha fatto propria con la Dichiarazione di Roma del 21 novembre 20143
- non c’è possibilità di controllare le tecnologie pericolose se non attraverso la vigile comprensione e la partecipazione attiva dei cittadini di tutto il mondo;
- è necessaria più di una stretta alleanza, c’è bisogno di una sincera amicizia (la differenza non è da poco) tra scienziati responsabili e cittadini comuni;
- sono i cittadini tutti e non ristrette élite a dover compiere le scelte sulle ricerche e le innovazioni desiderabili e a mettere al bando quelle indesiderabili;
- gli scienziati hanno una sola e speciale responsabilità, cui, dice Einstein, non possono sottrarsi: fornire ai cittadini la comprensione dei fatti. Dovere inderogabile degli scienziati è quello di indicare ai cittadini non esperti dove la scarpa fa male, perché sono loro, gli scienziati esperti, che prima di ogni altro si accorgono cosa non va (e cosa va) in una nuova calzatura
Comunitari, universali, disinteressati, originali, scettici, sistematici
Pochi anni prima della lettera con cui Einstein delineava i principi cardine della “responsabilità sociale degli scienziati”, nel 1942, il sociologo americano Robert K. Merton definiva la griglia valoriale fatta propria dalla comunità scientifica fin dalla “rivoluzione del ‘600” 4.
I valori fondanti della comunità degli scienziati sono, in buona sostanza, cinque: comunitarismo, universalismo, disinteresse, originalità, scetticismo sistematico.
Il comunitarismo è quel valore per il quale la conoscenza scientifica prodotta è pubblica e trasparente. Tutto deve essere comunicato a tutti.
L’universalismo è quel valore secondo il quale tutti possono partecipare alla produzione di conoscenza scientifica: senza distinzione, di sesso, di età, di appartenenza a particolari gruppi religiosi e/o culturali e/o etnici.
Il disinteresse è quel valore per il quale lo scienziato non deve trarre beneficio personale della produzione di nuova conoscenza scientifica. L’unico beneficio che può trarre è l’accresciuto prestigio.
L’originalità è intrinseca all’attività dello scienziato, che consiste nella produzione di nuova conoscenza: se non si è originali non si produce nuova conoscenza e dunque non si fa scienza. Lo scetticismo sistematico significa che nessuna affermazione va presa sulla parola – per quanto autorevole sia colui che la pronuncia – ma tutto va verificato.
I valori “interni alla comunità scientifica” indicati da Merton e racchiusi nella acronimo CUDOS e i valori che secondo Albert Einstein regolano i rapporti tra “scienza e società” costituiscono, a ben vedere, un’ottima base su cui fondare la Ricerca e l’Innovazione Responsabili. Che, secondo la Dichiarazione di Roma, prevedono cinque elementi tematici: public engagement, open access, gender, ethics, science education.
Impegno, apertura, genere, etica, educazione
Il public engagement non è altro che la partecipazione attiva e informata dei cittadini, in particolare degli stakeholders (persone che hanno un interesse specifico), alle scelte che coinvolgono la scienza e l’innovazione tecnologica. Come dice Einstein, sono i cittadini (secondo la diverse articolazione della vita democratica) i decisori di ultima istanza. Gli uomini di scienza devono indicare “dove la scarpa fa male”, informare in maniera completa e trasparente il cittadino/decisore.
L’open access altro non è che la continuazione rigorosa dello spirito con cui la comunità scientifica del Seicento ha proposta la “nuova scienza”: quello, per dirla con Paolo Rossi”, che ha portato ad “abbattere il paradigma della segretezza” 6 e a “comunicare tutto a tutti”7.
Oggi l’accesso aperto alla scienza è considerato un valore importante non solo per la comunità scientifica, ma per l’intera società8. Se i cittadini per ben decidere devono essere ben informati, allora hanno il diritto di accedere a tutta la conoscenza scientifica. E gli scienziati hanno il dovere – la responsabilità sociale – di rendere praticamente accessibile quella conoscenza. Un’interpretazione estesa dell’open access porta, di per sé, a inglobare un altro elemento indicato dall’Unione Europea per una ricerca e un’innovazione responsabili: la science education. Una buona ed estesa educazione scientifica, che a sua volta comporta un maggior numero di giovani, femmine e maschi, che scelgono come propria attività la ricerca scientifica e/o lo sviluppo tecnologico.
La tematica del gender ha sia una valenza interna alla comunità scientifica (la scienza deve scoprire “l’altra metà del cielo” e rendere effettivamente libero, nel rispetto del valore mertoniano dell’universalismo, l’accesso delle donne al lavoro di ricerca) sia una valenza sociale: la scienza deve essere a accessibile e vantaggiosa per tutti, a prescindere dal sesso.
Il tema etico riguarda il comportamento stesso degli scienziati. E sarebbe ben definito dai cinque valori mertoniani, se oggi lo scienziato non avesse una nuova responsabilità, quella sociale. E, dunque, occorre quell’integrazione cui abbiamo già fatto riferimento. L’integrazione tra i valori che settant’anni fa o giù di lì hanno indicato Robert K. Merton e Albert Einstein.
EMERGENCY COMMITTEE of ATOMIC SCIENTISTS
INCORPORATED
Room 28, 90 Nassau Street
Princeton, New Jersey
January 22, 1947
Trustees
Albert Einstein, Chairman
Harold C. Urey, Vice-Chairman
Hans A. Bethe
T.R. Hogness
Philip M. Morse
Linus Pauling
Leo Szilard
V.F. Weisskopf
Dear Friend:
I write to you for help at the suggestion of a friend. Through the release of atomic energy, our generation has brought into the world the most revolutionary force since prehistoric man's discovery of fire. This basic power of the universe cannot be fitted into the outmoded concept of narrow nationalisms. For there is no secret and there is no defense; there is no possibility of control except through the aroused understanding and insistence of the peoples of the world. We scientists recognize our inescapable responsibility to carry to our fellow citizens an understanding of the simple facts of atomic energy and its implications for society. In this lies our only security and our only hope -- we believe that an informed citizenry will act for life and not death. We need $1,000,000 for this great educational task. Sustained by faith in man's ability to control his destiny through the exercise of reason, we have pledged all our strength and our knowledge to this work. I do not hesitate to call upon you to help.
Faithfully yours,
A. Einstein
Le nuove frontiere (e ostacoli) della responsabilità
Come dimostra bene la lettera di Albert Einstein, la scienza si pone il problema della responsabilità con la scoperta della bomba atomica. Da allora, il cammino della responsabilità in campo scientifico ha fatto ulteriori passi. E’ stato naturale che la ricerca scientifica sempre più si ponesse la questione delle conseguenze sociali, etiche ed ambientali degli sviluppi scientifici e tecnologici di fronte a temi come il cambiamento climatico, gli organismi geneticamente modificati, la sperimentazione animale9, il recente editing genetico delle cellule germinali, e altro ancora.
Non a caso una serie di progetti finanziati dal Settimo Programma Quadro della Commissione Europea ha posto questo come tema centrale, al motto di “Non più casi come gli OGM”. Con ciò intendendo che quando si aprono simili divaricazioni fra i legittimi orientamenti della comunità scientifica e i “sentimenti” dell’opinione pubblica a rimetterci sono un po’ tutti: i ricercatori che si vedono negati (a volte con veri diktat politici) la libertà stessa di ricercare, e il pubblico che talvolta si autoesclude da possibili progressi che la ricerca potrebbe generare se fosse messa in grado di lavorare con agio e finanziamenti adeguati.
La spirale può essere maligna, come insegna il caso OGM: una cattiva comunicazione alimenta i peggiori sospetti, aumenta il livello di outrage pubblico, la chiusura si riverbera sui decisori che spaventati chiudono i (già esigui) rubinetti del finanziamento pubblico alla ricerca; così la ricerca viene sempre di più presa in carico dai capitali privati, che si muovono con logiche di profitto; questo aumenta l’outrage, e così via, fino al disseccarsi della ricerca pubblica.
La soluzione che molti commentatori hanno individuato è: educhiamo il pubblico, lavoriamo sulla public understanding of science, divulghiamo di più. Tutti propositi commendevoli, ma insufficienti. Da qui l’idea di ampliare la responsabilità da un mero impegno dei ricercatori a una responsabilità condivisa fra i diversi portatori d’interesse: ricercatori, politici, industri, società civile: un dialogo collettivo, che precede e accompagna l’attività scientifica (e non la segue raccontandone i risultati), che ambisce anche a orientarne alle finalità verso risultati socialmente utili e sostenibili, che pone la massima trasparenza in tutto il processo. E’ il nuovo mantra che la Commissione Europea pone alla base di Horizon 2020, il nuovo programma quadro comunitario di finanziamento della ricerca, che con 70 miliardi di euro in sette anni (2014-2020) detterà le linee di sviluppo della ricerca europea.
Una nuova definizione di ricerca e innovazione responsabile
Nasce così l’RRI - Responsible Research and Innovation - che nel 2013 viene così sinteticamente definita da René Von Schomberg (qui il suo interessante blog):
a transparent, interactive process by which societal actors and innovators become mutually responsive to each other with a view to the ethical acceptability, sustainability, and societal desirability of the innovation process and its marketable products in order to allow a proper embedding of scientific and technological advances in our society
Bisogna un po’ abituarsi al linguaggio di Bruxelles, che all’inizio può dare la spiacevole impressione di voler dire tutto e niente. Ma al di là di certe pesantezze, risulta abbastanza chiaro che piega sta prendendo la nuova definizione di responsabilità scientifica. Diremmo che il nocciolo sta nel tentativo - tutt’altro che facile - di condividere le linee di sviluppo e le finalità della ricerca con i soggetti attivi della società. Non solo condividere. Anche, dove possibile, costruire insieme strategie e programmi di ricerca.
Cosa non facile per due motivi: discutere insieme di scienza implica la condivisione di alcune regole democratiche e alcune competenze di base sul metodo scientifico. Ma in una società scientificamente analfabeta, e per certi versi impregnata di valori opposti a quelli scientifici, come fare? La storia di questi anni, almeno in Italia, degli scontri sulla sperimentazione animale, dell’oscurantismo anche politico contro gli OGM, che ha portato alla distruzione dei campi sperimentali e al sostanziale blocco della ricerca10, mostra come il dialogo pubblico sulle finalità della scienza può facilmente degenerare in un confronto fra sordi, in urla da stadio, in scritte “Assassini” sulle case dei ricercatori. Ecco cosa può diventare la “partecipazione”. C’è modo di evitarlo senza tornare ad anacronistiche visioni di autonomia della scienza?
Dall’educazione alla scienza aperta
Per questo è importante avere linee guida e strumenti operativi per costruire questa collaborazione, in modo da passare da una democrazia diretta e confusionaria, a una democrazia scientifica rappresentativa e competente. Qualcuno ci sta già provando. E' il caso del progetto RRI Tools. Finanziato dal settimo programma Quadro, il progetto, coordinato dalla Fondazione "La Caixa" (fra i partner italiani, la Fondazione Cariplo e la Fondazione Bassetti) ha l'obiettivo di mettere a punto strumenti pratici che supportino tutti gli attori (pubblico, ricercatori, educatori, politi e mondo dell'industria e innovazione) diversamente impegnati nella produzione di conoscenza nella condivisione della responsabilità della ricerca e delle innovazione prodotte secondo lo spirito RRI.
Il progetto, diviso in vari gruppi, sta ora creando piccole comunità di pratica sui temi della RRI, che man mano dovrebbero allargarsi ad ambiti più vasti. E’ importante infatti che i ricercatori imparino a comunicare loro ricerche anche al di fuori della loro comunità; che il metodo scientifico venga assorbito dalla scuola e dalla società nel suo insieme; che l’attività scientifica si renda più disponibile al pubblico attraverso l’open access, mettendo a disposizione i dati ben prima della pubblicazione su riviste scientifiche, come già oggi molti ricercatori fanno sui loro blog (non senza qualche problema se poi si vuole pubblicare su riviste peer reviewed). E che si possano anche sperimentare forme di “open science”, in cui gruppi di cittadini motivati e preparati possano entrare da “autori” nel processo scientifico. Come? In campo ambientale, ad esempio, con il monitoraggio diffuso della qualità dell’aria; in campo medico con la possibilità che gruppi di pazienti e associazioni di malati possano contribuire a disegnare i trial, e così via.
Da sempre la ricerca è stata definita come un’attività collettiva, comunitaria appunto, ma forse fino a qualche tempo fa non si prevedeva che la collaborazione potesse riguardare anche i non scienziati.
Note
1. John Ziman, An introduction to science studies. The philosophical and social aspects of science and technology, Cambridge University Press, 1984 [Ed. italiana: "Il lavoro dello scienziato", Laterza, 1987]
2. Vannevar Bush, Science, the Endless Frontier, 1945 (si veda anche l’edizione italiana: "Manifesto per la rinascita di una nazione. Scienza, la frontiera infinita", Bollati Boringhieri, 2013).
3. http://ec.europa.eu/research/swafs/pdf/rome_declaration_RRI_final_21_November.pdf
4. Robert K. Merton, The Normative Structure of Science, in: The Sociology of Science: Theoretical and Empirical Investigations, University of Chicago Press, 1973
5. Paolo Rossi, La nascita della scienza in Europa, Laterza, 1997
6. Pietro Greco, L’idea pericolosa di Galileo, UTET, 2009
7. Per questo in Italia è nata l’AISA (Associazione italiana per la promozione della scienza aperta), che il 18 giugno 2015 terrà la sua prima assemblea dei soci
8. Dossier sulla sperimentazione animale
9. "OGM in Italia, continua la caccia alle streghe", di Michele Bellone, Michela Perrone, Elena Baldi e Valentina Tudisca. Scienza in rete, 24/6/2013