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Zona Rossa, l’Ebola vista da vicino

Tempo di lettura: 11 mins

Ebola è oramai scomparsa dai nostri schermi, dai nostri giornali. Come altre grandi emergenze epidemiche è arrivata come un pugno nelle nostre case e ha invaso i media scatenando ansia nella popolazione, panico, incredibili timori.
Con la stessa velocità però è scomparsa, vaporizzata: Ebola? E chi è? Alla fine non è altro che un problema lontano, africano, che, grazie a Dio, non è capace di arrivare a casa nostra.

E i 27mila casi di questi ultimi 12 mesi con oltre 11mila morti? E allora serve una testimonianza, una cosa vera, vissuta da chi c’è stato, ha creduto di poter sconfiggere l’Ebola e ci ha rischiato la vita.
Roberto Satolli non se l’è sentita di scrivere su Ebola dalla sua redazione milanese, ha accettato l’invito del suo vecchio amico Gino Strada e si è tuffato nel peggiore sito epidemico: il centro Ebola di Lakka in Sierra Leone gestito da Emergency (Scienza in rete aveva raccontato parte della sua esperienza in Africa in una serie di interviste)
Ma non solo come giornalista cronista, ma anche come medico, portando con sé un intelligente protocollo per una terapia innovativa che potesse affrontare utilmente il virus.
Al ritorno, dopo la necessaria perigliosa quarantena, ha messo penna su carta e ne è uscito Zona Rossa edito da Feltrinelli nella serie bianca.

Con Gino Strada ha condiviso questo compito e ha ricevuto il contributo di Fabrizio Pulvirenti, medico infettivologo, volontario nel centro di Lacca di Emergency e colpito dal virus, ma sopravvissuto.
Migliaia di volontari medici, infermieri, logisti hanno contribuito a fermare la più tremenda epidemia infettiva del nostro secolo, pagando un altissimo contributo di vite umane: 874 si sono beccati l’Ebola e 509 ne sono morti.

Il libro si beve: la cronaca è avvincente e tiene il lettore su un filo d’ansia, quasi stesse vivendo in prima persona le tremende procedure descritte: vite che scorrono in un quadro ad alta velocità dove morte e disperazione convivono con sforzi eroici per contrastare il male: attività temporizzate rigorosamente in condizioni climatiche proibitive su persone coperte di tute e maschere che permettono solo poche ore di lavoro, ma che non ammettono il pur minimo errore; eppure questi grandi sforzi non sono compensati da altrettanti successi: il morbo procede inesorabile gravido di frustrazione per che cerca di contrastarlo.

Ma il libro non si limita alla cronaca che tiene il respiro, affronta con lucidità i limiti e gli errori che persone e istituzioni hanno compiuto. Tocca il carico di conflitti locali e internazionali che Ebola ha innescato, in un quadro di desolante inefficacia, purtroppo già visto in molte altre emergenze sanitarie internazionali di grande portata.
In assenza di un forte unico coordinamento locale, l’emergenza di conflitti tra le organizzazioni umanitarie giunte sul campo è stata inevitabile, ma la peggior è efficacemente descritta nel libro: un approccio di distanza dal paziente a protezione dell’operatore: il paziente va visto, ma non toccato: di qui l’accusa agli operatori di Emergency che “mettono inutili tubi” ai pazienti esponendo inutilmente gli operatori; infatti nel centro Emergency di Lakka, diversamente da altri centri di trattamento di Ebola, il paziente veniva considerato come una persona da curare con la migliore possibile terapia disponibile, compreso le procedure di reidratazione e ricostituzione salina, che, provatamente riducono la letalità della malattia.
Non riesco a dimenticare la stessa accusa che ricevemmo nell’ospedale di Lacor, Uganda, nella epidemia di Ebola del 2000, quando la morte di Ebola di 13 operatori sanitari fu considerata conseguenza della errata strategia di prendersi cura di ammalati gravi  fisicamente e non limitarsi all’osservazione a distanza praticata in un vicino ospedale governativo.

Zona Rossa tocca la triste vicenda del trattamento compassionevole dei colpiti da Ebola: un tentativo generoso e scientificamente razionale di impiego di un farmaco cardiaco con un protocollo controllato viene impedito dalla burocrazia scientifica internazionale con procedura non priva di conflitti di interesse con i produttori di farmaci.
Bella la storia di Fabrizio Pulvirenti, infettivologo siciliano impegnato con Emergency nella cura dei colpiti a Lakka, che si infetta col virus nonostante la rigorosa osservanza delle norme di sicurezza: un percorso al fulmicotone per salvare la vita di un generoso; una storia a lieto fine grazie a una appropriata risposta della struttura di Emergency e dell’ospedale Spallanzani di Roma.

Il libro affronta senza pudore l’inefficienza delle organizzazioni internazionali, in particolare, l’OMS, tarda a riconoscere l’emergenza e quindi ad agire di conseguenza: insieme ai governi locali minimizza e prende tempo prima di usare l’apposito strumento dell’IHR (International Health Regulations) ritardando la massiccia mobilitazione internazionale indispensabile per fermare l’epidemia.
Un colposo ritardo solo recentemente riconosciuto dal comitato appositamente istituito (Ebola Interim Assessment Panel) che ha dichiarato che: “significant and unjustifiable delays occurred in the declaration of a Public Health Emergency of International Concern (PHEIC) by WHO”.

Insomma un libro che bisogna leggere: un must per qualsiasi operatore sanitario, ma anche, una volta tanto, un libro verità positivo: non solo facile critica dalla finestra, ma cronaca di vita vissuta ad alta tensione descritta con professionale freddezza, ma non priva di documentata critica foriera di sostanziali modifiche.
Uno strumento di divulgazione scientifica di grande potenziale impatto per i giovani, ma anche un’arma efficace per contrastare l’allontanamento dalla verità scientifica che ormai costituisce una grave epidemia della nostra società.
Contrastare l’Ebola l’inesorabile continua emergenza di rischi epidemici internazionale, non può essere solo affare degli specialisti o delle squadre di emergenza: la prevenzione più efficace di questi rischi è senza dubbio un adeguato sistematico approccio all’emergenza dell’intera società: un cambio culturale profondo che ci educhi alla convivenza con questi rischi, alla condivisione continua delle migliori evidenze scientifiche, al contrasto ai miti e alle falsità che coronano le epidemie. I virus e i batteri non riconoscono confini: la prevenzione non è affare di alcuni disperati luoghi del pianeta cui offrire solidarietà, bensì è una necessita globale, di ognuno di noi, di ciascuna famiglia di ogni paese.

Perciò è benvenuto “Zona Rossa” uno strumento utile, una presenza funzionale nella biblioteca di ogni famiglia.

 

Zona Rossa
Recensione di Pietro Greco, pubblicata su Left il 27 giugno 2015

I contagi non sono scomparsi del tutto. Nella settimana finita il 14 giugno l’Organizzazione Mondiale di Sanità ne ha registrati 24 nuovi. E nella settimana precedente, 27. Ma da febbraio l’epidemia di Ebola, che per quasi un anno ha colpito l’Africa occidentale facendo ammalare almeno 27.000 persone e uccidendone oltre 11.000, sembra rientrata ed è considerata ormai sotto controllo. Buona notizia. Anzi, ottima.
Ma non bisogna abbassare la guardia. Non possiamo dimenticare l’epidemia di Ebola. Perché «non abbiamo capito come è cominciata, non abbiamo capito cosa avremmo dovuto fare per fermarla», e dunque non possiamo abbandonare il continente nero «e lasciare che tutto continui come prima, fino alla prossima epidemia», ammoniscono Gin Strada, Roberto Satolli e Fabrizio Pulvirenti in un libro, Zona rossa, appena uscito per l’editore Feltrinelli, che è sì  una storia – la storia, drammatica, vissuta in prima persona da tre medici italiani partiti alla volta della Sierra Leone per combattere il virus e curare i malati in condizioni difficilissime –, ma è anche un saggio. Un saggio di etica della medicina.
La Sierra Leone è, con la Liberia e la Guinea, il paese più colpito da questa prima, autentica epidemia di una patologia, poco contagiosa ma altamente letale, conosciuta sì da quarant’anni, ma che finora era esplosa in altre regioni dell’Africa in focolai relativamente piccoli e rapidamente isolati.
Gino Strada è il fondatore di Emergency, l’associazione «indipendente e neutrale, nata nel 1994 per offrire cure medico-chirurgiche gratuite e di elevata qualità alle vittime delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà» che in Sierra Leone ha realizzato un presidio contro Ebola. Roberto Satolli, compagno di scuola di Gino Strada, è un giornalista medico, tra i più bravi in Italia, e medico a sua volta. Fabrizio Pulvirenti è il medico di Emergency che ha lavorato in Sierra Leone, è stato contagiato dal virus di Ebola, è tornato in Italia, è stato curato presso l’Ospedale Spallanzani di Roma ed è guarito, dimostrando che la malattia è sì terribile, ma non è affatto invincibile.
Il libro narra l’esperienza che i tre italiani hanno vissuto in prima persona per alcuni mesi sia presso il centro allestito da Emergency a ridosso della spiaggia di Lakka, alle porte di Freetown, la capitale della Sierra Leone, sia nel nuovo Centro di Goderich, il primo per il trattamento di Ebola che in tutta l’Africa occidentale è stato dotato di un reparto di terapia intensiva. È dunque una storia. E sebbene non sia “la storia” dell’epidemia, ci aiuta a capire perché la parabola di Ebola «deve essere ricordata, pena la condanna a essere rivissuta».
La storia raccontata da Gino Strada, Roberto Satolli e Fabrizio Pulvirenti che ci aiuta a non perdere la memoria si dipana come in un diario. Un diario che può essere letto nei suoi diversi livelli. Il piano della tragedia che si presenta, per così dire, allo stato puro, senza mediazioni, come quella di decine e decine di bambini che muoiono in maniera straziante: vittime innocenti del virus, ma non solo del virus. Il piano dell’amore che i tre medici e tanti loro colleghi sublimano e insieme distillano, cercando il contatto umano che nella “zona rossa”, quella dove sono gli ammalati di Ebola, si consuma in una situazione irreale, tra pazienti intoccabili che subiscono sofferenze indicibili e sono curati da medici bardati come astronauti e con ben pochi strumenti a disposizione. Eppure quel contatto umano non è solo necessario: è possibile.
Ma il libro è importante anche e forse soprattutto perché l’esperienza dei tre autori si intreccia con l’evoluzione di un’infezione unica nel suo genere che pone problemi di interesse generale: è infatti «la prima volta che la medicina contemporanea guarda finalmente in faccia una malattia tuttora sconosciuta, e prova a curarla e a fare ricerca in corso di epidemia, una cosa mai tentata prima». È in questa condizione originale che la medicina; chi, come gli autori, la pratica e noi tutti siamo costretti a interrogarci. Ed è per questo motivo che Zona Rossa, da diario carico di tragedia e intriso di umanità, si trasforma in un lucido saggio di etica medica.
Una prima domanda nasce da un dato di fatto. In Africa occidentale, per la prima volta  a misurarsi con Ebola, una malattia di fatto sconosciuta, non sono stati chiamati gli epidemiologi ex post, a epidemia consumata, ma i medici clinici, a epidemia in corso. Cosa accade a chi è contagiato dal virus; come curare gli ammalati, come fronteggiare l’epidemia? Una situazione inedita, per la medicina contemporanea. In questa condizione inedita abbiamo imparato molto. Per esempio che Ebola non è una malattia emorragica: non si muore per la perdita di sangue, se non in rare occasioni. Ma non abbiamo imparato tutto. E neppure abbastanza. A tutt’oggi non sappiamo perché di Ebola si muore. Quelle domande inedite, dunque, sono ancora aperte, almeno in parte. Ecco, dunque, uno dei motivi per non abbandonare l’Africa a se stessa: occorre continuare la ricerca. Occorre cercare di saperne di più. Di conoscere meglio la malattia, per meglio affrontarla.
C’è una subordinata a questa domanda. Come comportarsi in simili situazioni? È lecito sperimentare, per esempio, dei farmaci la cui efficacia non è provata? Ed è giusto seguire le prassi tipiche della sperimentazione scientifica: per esempio con trial randomizzati, in cui c’è un gruppo di ammalati cui viene somministrato il farmaco e un gruppo di altri ammalati cui viene somministrato un placebo? Non sono domande astratte. Strada e Satolli hanno chiesto di sperimentare un farmaco, l’amiodarone, che sembrava avere buone possibilità e che certamente non è tossico, perché usato da decenni nella cura di altre malattie che colpiscono gli anziani. Ma questa richiesta ha suscitato molte critiche, forse non tutte disinteressate, da una parte rilevante della comunità scientifica internazionale. Critiche che hanno rischiato di minare la notevole credibilità che ha Emergency presso la popolazione della Sierra Leone. Eppure critiche analoghe non sono state  sollevate quando farmaci sperimentali sono stati proposti nei paesi occidentali per la cura di pazienti occidentali contagiati dal virus di Ebola.
La questione rimanda alla domanda principale posta da Zona Rossa, che a sua volta nasce da un dato di fatto. In Africa il virus di Ebola ha ucciso il 70% e più delle persone non trattate, ma anche una percentuale altissima delle persone curate in ospedale. Mentre l’80% degli ammalati occidentali curati in America o in Europa si sono salvati. Perché? Io allo Spallanzani di Roma sono curato da decine tra medici e pazienti, dice a un certo punto Fabrizio Pulvirenti. Mentre la condizione dei pazienti in Sierra Leone, dove mi sono ammalato, è ben diversa: un medico, quando c’è, per decine di pazienti. In Occidente chi si è ammalato di Ebola ha avuto accesso in Italia come in Spagna o negli Stati Uniti a farmaci, a tecnologie e persino a etiche della medicina (per esempio, con l’uso di farmaci sperimentali) ben diversi rispetto a quelle dei pazienti in Africa. Non è una condizione sostenibile. Non è una condizione accettabile.
Di più. L’Occidente si è mobilitato non quando ha avuto notizia del pericolo per gli africani. Ma quando ha percepito un pericolo, vero o presunto, per sé. Quando ha pensato che il virus di Ebola potesse uscire dall’Africa e diffondersi e uccidere anche nel resto del mondo. Quasi che i morti in Africa avessero meno peso dei morti fuori dall’Africa. Questa iniziale indifferenza o sottovalutazione del pericolo ha avuto effetti tangibili. Molti degli 11.000 morti uccisi da Ebola – denunciano Gino Strada, Roberto satolli e Fabrizio Pulvirenti – si sarebbero potuti salvare se il sistema sanitario mondiale avesse reagito più prontamente.
Di qui la necessaria conseguenza. Dopo Ebola nulla può (deve) essere come prima. Occorre lavorare per rimuovere la cause prossime e remote che hanno portato a questa inaccettabile “disuguaglianza di salute”. Le cause remote sono quelle storiche che hanno portato i paesi occidentali a fare scempio dell’Africa, non a caso definito il “continente dimenticato”. Ma per rimuovere le cause prossime occorre che i medici – e il sistema sanitario internazionale – formulino un nuovo giuramento di Ippocrate. Riconoscendo il diritto primario di tutti i cittadini del mondo a ricevere le migliori cure disponibili.


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