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Acqua, esopianeti, ET. Guardare per vedere...

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Le evidenze che il nostro Sistema solare contenga grandi quantità di acqua anche allo stato liquido, vanno continuamente aumentando e consolidandosi. Eppure fino a non molto tempo fa credevamo che solo la Terra disponesse di oceani. Mercurio e Venere li sapevano troppo caldi e le immagini che, prima i telescopi e poi le sonde inviate intorno e su Marte ci avevano fornito, mostravano chiari segni di fenomeni di erosione imputabili sì allo scorrere di grandi quantità di acqua, ma di cui da tempo non c’era più traccia.
Oltre Marte tutto diventava così freddo da escludere la permanenza dell’acqua allo stato liquido. Niente Oceani dunque nel Sistema solare.
Le sorprese sono arrivate quando lo studio delle lune di Giove e Saturno, i giganti gassosi del nostro sistema planetario, si è fatto più dettagliato grazie alle osservazioni condotte con il Telescopio Spaziale Hubble (HST) e soprattutto grazie alle esplorazioni “in situ” a opera delle sonde Galileo (Giove) e Cassini ( prima Giove e poi Saturno).
Dopo Europa ed Encelado si sospetta ora che anche Ganimede, sotto a uno spesso strato di ghiaccio superficiale, disponga di un enorme oceano di acqua allo stato liquido, scaldato dallo stress gravitazionale indotto dalla sua rivoluzione intorno a Giove.
L’evidenza è indiretta e basata sullo studio delle oscillazioni delle sue aurore, di minor ampiezza di quanto aspettato, spiegabili con la presenza di uno strato conduttore (come lo è l’acqua salata, mentre non è lo è il ghiaccio) sotto la crosta ghiacciata del pianeta.
Se confermati, questi risultati ci indicano che bisogna saper “guardare” per scoprire quello che ci circonda. Ciò che apparentemente non c’è, spesso si rivela solo quando acquisiamo gli strumenti giusti per poterlo vedere. E’ una storia che si è ripetuta molte volte.
Con la parallasse trigonometrica delle stelle, ad esempio. Una delle implicazioni del sistema eliocentrico è la possibilità di vedere il moto apparente di stelle relativamente vicine rispetto a quelle più lontane per diverse posizioni della Terra nella sua rivoluzione intorno al Sole.
Ne era consapevole Aristarco di Samo, che il sistema eliocentrico lo aveva contemplato già due secoli prima di Cristo. Ma non riuscì a vedere lo spostamento parallattico in nessuna stella: non aveva lo strumento giusto.
L’occhio nudo, con una risoluzione di circa un minuto d’arco o poco meglio, non può certo apprezzare spostamenti angolari di una frazione di secondo d’arco, tipici delle stelle a noi più vicine! L’incapacità di vedere questi spostamenti apparenti (che fu usata a lungo per confutare il sistema eliocentrico copernicano) perdurò sino al XIX secolo quando lo sviluppo tecnologico dei telescopi permise di vedere cambiamenti di posizione angolare così piccoli.
Anche la ricerca dei pianeti extrasolari, o esopianeti, è stata condizionata dall’utilizzo di strumenti adatti. Dapprima, semplicemente, proprio non si riusciva a vederli: troppo piccoli, troppo lontani, troppo vicini a una sorgente – la loro stella – troppo luminosa al confronto.
Poi, lo sviluppo di spettrometri sempre più stabiliti e raffinati ha permesso di misurare le piccole perturbazioni che i pianeti più massicci inducono nel moto della loro stella e si sono scoperti pianeti giganti, delle dimensioni di Giove o ancora più grandi.
Inizialmente mancavano quelli piccoli come la Terra. Non perché non esistessero, piuttosto perché le perturbazioni che questi producono erano ancora troppo piccole per la sensibilità degli strumenti.
Se si va a pescare con una rete a maglie larghe si pescheranno solamente pesci grandi. Non perché quelli piccoli non esistono, bensì perché sfuggono.
Appena si restringono le maglie anche questi vengono catturati. E’ successo così anche con gli esopianeti. Il lancio di piccoli telescopi fotometrici orbitali ha poi permesso, eliminando il “rumore” dovuto alla presenza dell’atmosfera e permettendo osservazioni continue per lunghi periodi di tempo, di scoprire numerosi pianeti extrasolari  grazie al loro transito di fronte alla stella intorno orbitano. Oggi gli esopianeti noti sono migliaia. Ne troviamo in abbondanza perché abbiamo la strumentazione giusta per riuscire a “vederli”. Così come per vedere e riconoscere con certezza le immagini ad arco delle galassie deformate dalle lenti gravitazionali abbiamo dovuto attendere la superba risoluzione angolare di HST e per vedere il bosone di Higgs è stato necessario raggiungere energie che solo il Large Handron Collider (LHC) ha messo a nostra disposizione.
Abbiamo dunque imparato che l’assenza di evidenza non è evidenza di assenza.
Quali sono, tra le ricerche considerate più importanti, quelle che, pur durando da decenni, non ci hanno permesso di “vedere” quel che cerchiamo? Mi vengono in mente: onde gravitazionali, materia ed energia oscura e segnali intelligenti extraterrestri. Perché non troviamo quel che cerchiamo? Perché non esiste o perché non sappiamo ancora vederlo?

Nel caso delle onde gravitazionali, il consenso sulla loro esistenza è estremamente ampio e ve ne è già evidenza, anche se indiretta (la migliore è data dalla velocità di decadimento orbitale della pulsar binaria PSR B1913+16 scoperta da Hulse e Taylor nel 1974).
L'assenza di segnali diretti è imputabile alla limitata sensibilità dei rilevatori utilizzati sino ad ora.
Gli osservatori a terra LIGO e VIRGO, recentemente potenziati, scommettono di registrare segnali entro la fine di questa decade e l'ESA, convinta della possibilità di rivelare le onde gravitazionali, ha da tempo investito molte risorse nello studio un interferometro laser spaziale, (recentemente ribattezzato NGO per New Gravitational wave Observatory).
Il perdurante insuccesso riguardo alla rivelazione della materia oscura è affare più complesso, non sapendo esattamente cosa si debba cercare. Gli ambiti d'indagine sono molteplici: al CERN di Ginevra con LHC, dopo l'aumento a 14 TeV dell'energia massima raggiungibile; sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS) con l'Alpha Magnetic Spectrometer, che dal 2011 accumula dati sui raggi cosmici; con osservazioni astronomiche con metodologie innovative per rivelare eventuali aloni luminosi di bassa brillanza superficiale intorno a galassie note per la presenza di grandi quantità di materia oscura o studiando la dinamica delle loro collisioni.
Forse servirà un colpo di fortuna per capirne di più, per imparare come "vedere" la materia oscura e ancor più l'energia oscura. Sempre che non finisca come con l'etere luminifero o con il flogisto la cui inesistenza fu dimostrata, rispettivamente, da Michelson e Morley e da Lavoisier

A volte può anche succedere che qualcosa che si pensa che esista, ma che non si trova, proprio non esista. Quello su cui non sappiamo veramente nulla sono le eventuali civiltà galattiche in grado di comunicare e di cui si cercano segnali. Per certi versi è questa la ricerca più frustrante e anche quella circondata da maggior scetticismo sulle possibilità di successo. Sino ad ora le ricerche sistematiche di segnali "intelligenti" sono state condotte soprattutto nella banda radio, perché era più semplice. E se fossimo vittime del cosiddetto streetlight effect? Del bias osservativo, cioè, che ci porta a cercare dove è più facile, cosi come faceva l'ubriaco della storiella, che pur avendo perso le chiavi nel parco le cercava sotto un lampione perché il parco era al buio mentre sotto al lampione c'era luce e ci si vedeva...
La ricerca di intelligenze extraterrestri (SETI) continua da ormai mezzo secolo, e ancora nulla. Più recentemente è stata iniziata una ricerca di segnali pulsati nel visibile (OSETI) osservando alcune migliaia di stelle vicine, incluse alcune che i dati ottenuti con il telescopio Kepler mostravano avere sistemi planetari.
Con il progredire della tecnologia legata alle telecomunicazioni, elettronica e laser, è ora possibile migliorare la ricerca estendendola al vicino infrarosso (NIRO-SETI). Si tratta della ricerca di brevi impulsi laser, della durata di un nanosecondo o anche meno, emessi nel vicino infrarosso e catturati da piccoli telescopi opportunamente attrezzati, come il Nickel Telescope, da un metro di diametro, del Lick Observatory in California. Un vantaggio di questa ricerca è la possibilità, usando contemporaneamente tre rivelatori, di abbattere a circa uno all'anno il numero dei falsi allarmi dovuti all'emissione della stella madre e di non doversi preoccupare di interferenze terrestri, contrariamente a quanto succede nella banda radio.
Il principale svantaggio è che l'emissione di luce laser pulsata è altamente direzionale, dunque la potremmo vedere solo se inviata — intenzionalmente o meno — nella nostra direzione. In ogni caso, la cosa più importante nella ricerca di segnali "intelligenti" è la più ampia diversificazione dei metodi.
Non avendo la più pallida idea di come possono essersi sviluppate le ipotetiche civiltà di cui vorremmo raccogliere le comunicazioni, è essenziale cercarle nei modi più vari possibili, senza farsi troppo condizionare dal nostro antropocentrismo o scoraggiare dai silenzi. Ben vengano dunque modi che utilizzano bande diverse dello spetto elettromagnetico e metodologie di ricerca nuove e differenti da quanto fatto sinora.

Tratto da Le Stelle n° 143


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