fbpx La crescita dell’interdisciplinarità | Scienza in rete

La crescita dell’interdisciplinarità

Tempo di lettura: 3 mins

Norbert Wiener l’aveva posta alla base di una nuova scienza – o meglio, di un nuovo approccio allo studio della complessità del mondo – che aveva chiamato cibernetica. Molti oggi la evocano come l’ingrediente necessario per comprendere e avviare a soluzione i grandi problemi del pianeta a carattere scientifico: come i cambiamenti climatici o l’erosione della biodiversità. Ma lei, l’interdisciplinarità, è più sfuggente di un’anguilla. Sei sicuro di averla afferrata ed è già scappata via.
Non è semplice da definire. Ed è ancor più difficile da realizzare. Di cibernetica, ormai, pochi parlano. Non perché sia morta. Ma perché si è necessariamente evoluta e divisa in una serie di discipline diverse (l’intelligenza artificiale, la robotica, lo studio dei sistemi complessi) tradendo in parte la sua vocazione interdisciplinare.
D’altra parte lei, l’anguilla chiamata interdisciplinarità, nuota contro la corrente. Quella della scienza è una storia di progressiva specializzazione.
Le discipline più che a unirsi tendono a dividersi al loro interno, a differenziarsi, proprio perché le conoscenze aumentano e dominarle tutte è impresa ardua. Ecco perché, come diceva qualcuno, gli scienziati tendono sempre più “a sapere quasi tutto di quasi niente”. Al contrario, gli umanisti (e, tra loro, noi giornalisti) sono (siamo) accusati di “sapere quasi niente di quasi tutto”. Insomma, nella scienza moderna la specializzazione è una necessità. E chi parla senza possederla, questa specializzazione, è accusato, spesso giustamente, di parlare senza cognizione.
Questo processo di separazione – questa sorte di Torre di Babele delle discipline, ciascuna con i suoi paradigmi e i suoi linguaggi – sembrava inarrestabile. L’anguilla destinata a essere trascinata via da una corrente fortissima e incontrastabile.
E, invece, come dimostra Nature in un recente speciale, l’anguilla è più viva che mai. Anzi, da almeno trent’anni a questa parte, è in forte crescita. Una crescita che è possibile quantificare.
Gli articoli di scienziati che fanno riferimento a lavori di gruppi appartenenti ad altri ambiti disciplinari tra negli anni ’80 avevano raggiunto un minimo, sono nettamente aumentati. E non solo nell’ambito delle scienze sociali (da poco più del 30% a quasi il 50%), ma anche nel campo delle scienze naturali e dell’ingegneria, dove i riferimenti interdisciplinari sono passati da poco più del 20% a più del 35%. Un autentico boom.

 Figura 1

Una scelta difficile, ma pagante. Perché la validità degli studi interdisciplinari impiega più tempo a essere riconosciuta (gli articoli interdisciplinari vengono citati  poco nel breve periodo). E questo non è un ostacolo da poco in un tempo in cui impera non solo il “publish or perish”, ma anche l’”o sei citato o sei morto”.
E tuttavia (Figura 2) nel medio lungo termine gli studi interdisciplinari guadagnano valore e i citazioni. Insomma si mostrano per quello che sono. Generatori di nuova conoscenza. Generatori, aggiungiamo noi, imprescindibili di nuova conoscenza. Perché l’inesplorato si trova, in genere, non all’interno di un’area di studi, ma proprio ai suoi confini.

Figura 2 

Naturalmente ci sono ambiti con una maggiore vocazione interdisciplinare e altri in cui questa vocazione è necessariamente minima (Figura 3). Per un fisico della particelle o per un chimico inorganico è difficile navigare tra discipline altre. Mentre per chi si occupa di studi sociali della medicina o di  geriatria, l’interdisciplinarità è una necessità imprescindibile. Tuttavia l’analisi statistica proposta da Nature ci dice che anche in settori più insospettabile – come la biologia generale o la scienza dei materiali – l’interdisciplinarità è piuttosto frequentata.

Figura 3

C’è una differenza, infine, tra i paesi. Che forse è storica, ma forse anche culturale. In India, in Cina, nei paesi emergenti l’interdisciplinarità è più frequentata che in paesi di antica tradizione scientifica, come la Gran Bretagna e la Germania.
Per ragioni diverse l’Italia e gli Stati Uniti sono nel mezzo tra i due estremi. E queste ragioni, probabilmente, sono ancora una volta sia storiche, sia culturali.

Figura 4


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

La COP29 delude. Ma quanti soldi servono per fermare il cambiamento climatico?

Il presidente della COP 29 di Baku, Mukhtar Babayev, chiude i lavori con applausi più di sollievo che di entusiasmo. Per fortuna è finita. Il tradizionale tour de force che come d'abitudine è terminato in ritardo, disegna un compromesso che scontenta molti. Promette 300 miliardi di dollari all'anno per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare la transizione, rimandando al 2035 la "promessa" di 1.300 miliardi annui richiesti. Passi avanti si sono fatti sull'articolo 6 dell'Accordo di Parigi, che regola il mercato del carbonio, e sul tema della trasparenza. Quella di Baku si conferma come la COP della finanza. Che ha comunque un ruolo importante da giocare, come spiega un report di cui parla questo articolo.

La COP 29 di Baku si è chiusa un giorno in ritardo con un testo variamente criticato, soprattutto dai paesi in via di sviluppo che hanno poca responsabilità ma molti danni derivanti dai cambiamenti climatici in corso. I 300 miliardi di dollari all'anno invece dei 1.300 miliardi considerati necessari per affrontare la transizione sono stati commentati così da Tina Stege, inviata delle Isole Marshall per il clima: «Ce ne andiamo con una piccola parte dei finanziamenti di cui i paesi vulnerabili al clima hanno urgentemente bisogno. Non è neanche lontanamente sufficiente.