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"La zona grigia" della genetica nelle malattie metaboliche

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Biochimica e genetica sono essenziali per confermare la diagnosi delle Malattie metaboliche, dette anche Errori Congeniti del Metabolismo (ECM). Si tratta di malattie rare che in media colpiscono un bambino su 5000 nati vivi, ma ogni bambino può costituire un caso che si somma a pochi altri in tutto il mondo.
Fra queste, solo per citarne alcune, ricordiamo la Gangliosidosi GM1, la Sialidosi e la Galattosialidosi, la Malattia di Fabry, la Sindrome di Morquio, la Sindrome di Barth, le Metilmalonico acidurie, i deficit di CPS1, NAGS e OTC. Nomi astrusi ai più, ma ben noti a chi ne soffre, che trovano nel Meyer un centro di riferimento. Come molte altre malattie rare, anche queste sono spesso “orfane” di cure risolutive.
La ricerca medica le studia da anni con mezzi sempre più sofisticati, per fornire le conoscenze finalizzate a sviluppare terapie sempre più efficaci, ma anche il loro riconoscimento diagnostico e la previsione del loro decorso nel singolo individuo rappresentano un vero e proprio rompicapo e al contempo una sfida.

Luci e ombre delle “omiche”

L’avvento di nuove tecnologie definite con il suffisso “omica” che riguardano geni e cromosomi (genomica), gli RNA (trascrittomica) oppure proteine ed enzimi (proteomica) o i metaboliti (metabolomica) hanno aperto nuove frontiere nella diagnosi delle malattie metaboliche. Queste nuove tecniche, infatti, sono in grado di fornire un quadro molto più dettagliato di ogni singolo errore del metabolismo, rappresentando un avanzamento scientifico straordinario.
Tuttavia, succede che più si scruta nel dettaglio dei meccanismi del nostro organismo, più complicata diventa l’interpretazione dei risultati ottenuti, soprattutto per capire le conseguenze cliniche dell’“errore” metabolico.
Il Meyer è all’avanguardia in queste nuove tecniche: il Laboratorio di biologia molecolare e cellulare, che opera nell’ambito dei Laboratori di Diagnostica delle malattie del sistema nervoso e del metabolismo, si occupa infatti di diagnostica e ricerca a livello biochimico, genetico-molecolare e cellulare proprio delle malattie metaboliche. In particolare una delle nostre sfide, da oltre 20 anni, è quella di chiarire il ruolo rispetto alla malattia delle alterazioni geniche identificate nel DNA dei pazienti affetti da ECM, con l’obiettivo di ridurre il più possibile “la zona grigia” del risultato genetico molecolare e biochimico.

Attenti alla “zona grigia”

Ma cosa si intende per “zona grigia”? Per capirlo bisogna fare un passo indietro. Le proteine che regolano le funzioni del nostro organismo sono formate da sequenze di amminoacidi. sono scritte nei nostri geni, i quali si trovano nel DNA e costituiscono il genoma. Il DNA attraverso il processo di trascrizione invia un suo messaggero copia di se stesso, il cosiddetto “RNA messaggero”, che viene letto e tradotto nelle proteine necessarie all’organismo. Il “codice genetico” contenuto nel DNA ha per costituenti elementari i nucleotidi, che contengono le quattro basi azotate adenina (A), guanina (G), citosina (C) e timina (T). A partire dai nucleotidi - o per meglio dire da “triplette” di essi - e attraverso il meccanismo di trascrizione e traduzione ricordato prima, vengono assemblati gli aminoacidi che compongono le proteine nelle loro specifiche sequenze.
Il nostro assetto genetico non è statico, ma può essere soggetto a variazioni chiamate polimorfismi che quando non alterano la funzione delle proteine o il nostro metabolismo non costituiscono un problema per la nostra salute. Anzi, spesso sono il motore del nostro continuo adattamento evolutivo, e quindi positive per la straordinaria varietà e sopravvivenza della nostra specie.
Quando però in un paziente con una sospetta malattia metabolica viene identificata nel gene candidato un’alterazione nucleotidica o variante che si presenta al di sotto dell’ 1% nella popolazione, questa potrebbe essere potenzialmente considerata come “mutazione” responsabile del difetto metabolico che determina la malattia.
E’ a queste mutazioni che i genetisti di tutto il mondo danno la caccia, perché rilevanti per la nostra salute, setacciando gruppi di geni candidati o l’intero genoma delle persone e andando a riconoscerle fra le molte varianti nucleotidiche “benigne”.
Solitamente le mutazioni vengono riportate in articoli scientifici e in database internazionali di mutazioni, come il Human Gene Mutation Database (HGMD), al quale fanno riferimento i laboratori di analisi genetico-molecolari di tutto il mondo. Esiste quindi una rete internazionale di esperti che descrive le mutazioni e che rappresenta una garanzia importante. In alcuni casi però le alterazioni identificate sono state riportate come causa di malattia senza una dettagliata descrizione clinica del paziente e senza verifiche approfondite. Questo è avvenuto soprattutto in passato quando i mezzi di indagine, inclusi i programmi di bioinformatica (fondamentali per simulare la risposta dell’organismo al variare dell’informazione genetica), erano meno evoluti e ha provocato o può provocare ancora un effetto domino di errori di interpretazione, con l’effetto di scambiare semplici variazioni per mutazioni e fare diagnosi errata di malattia con conseguenze sia nella consulenza familiare che nel trattamento terapeutico.

Gli equivoci delle vecchie e nuove tecnologie

Non bisogna pertanto meravigliarsi se nel corso degli anni, grazie all’avanzare delle scoperte tecnologiche e degli studi di approfondimento genetico, sia funzionali che di popolazioni, è stato dimostrato che alcune varianti precedentemente descritte come mutazioni non siano in realtà riconducibili a malattia e debbano dunque essere riclassificate come varianti “polimorfiche” (ovvero benigne). I portatori di queste varianti potrebbero avere dunque una malattia diversa da quella diagnosticata fino a quel momento e di conseguenza la terapia dovrebbe essere sospesa o modificata. E’ chiaro che questa può essere una situazione molto pesante, ma può diventare di più semplice gestione in presenza di un confronto fra clinici, biochimici e genetisti, dal quale possano scaturire referti univoci e chiari, sia per i medici coinvolti, sia per le famiglie.
Nell’era attuale del sequenziamento a tappeto del genoma, che amplifica in modo esponenziale la produzione di dati molecolari a volte difficili da interpretare, la difficoltà di attribuzione dell’effetto patogenetico delle varianti identificate rappresenta un fenomeno in crescendo, con una prevedibile espansione, purtroppo, della cosiddetta “zona grigia”.
In questi casi la sfida da raccogliere è ambiziosa e costituisce uno dei filoni più interessanti della nuova medicina. Per comprendere se una nuova mutazione causi la malattia a livello molecolare è necessario integrare le tecnologie emergenti della genetica applicata alla diagnostica con studi cellulari e funzionali (per esempio con la cosiddetta quantizzazione di RNA e DNA) e con una forte collaborazione multidisciplinare che coinvolga medici e pazienti (o i loro genitori se i pazienti in questione sono bambini).

Quantizzazione del DNA e RNA

Per la quantizzazione di DNA e RNA si adoperano metodiche e strumenti che valutino la quantità complessiva di parti di DNA genomico o di RNA, il quale, come menzionato precedentemente, costituisce il passaggio intermedio che collega uno specifico tratto di DNA codificante alla corrispondente proteina. Particolari mutazioni che provocano la malattia, possono infatti causare delezioni (perdita) o duplicazioni (ripetizione) di parti del DNA o sbilanciamento di specifici RNA a favore di trascritti patologici.
Per molti ECM non esiste una cura efficace e quindi la comprensione dei difetti molecolari delle singole patologie ha sempre mirato a creare una base di conoscenza utile per trovare farmaci più o meno risolutivi. Sono pochi i laboratori in Italia e nel mondo che studiano le malattie metaboliche.
Il nostro laboratorio è centro di riferimento nazionale per molte di queste malattie che vengono passate al setaccio attraverso una caratterizzazione funzionale in vitro delle varianti genetiche identificate. Sono inoltre in corso studi in vitro per la valutazione del potenziale farmacologico di nuove molecole ad azione stabilizzante (chaperoni) o di ripristino di errori di splicing (exon skipping).
La definizione chiara delle varianti geniche, della loro correlazione a un difetto biochimico, della loro conseguenza clinica e dei possibili nuovi farmaci che ne potranno seguire rappresenta l’obiettivo principale del nostro lavoro.

Articolo pubblicato anche sul canale Meyer Scienza


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