Ormai quello dell’acqua su Marte non è più l’annuncio epocale di un tempo. Se volessimo ripercorrere le numerose tappe di questa scoperta, dovremmo elencare i contributi delle numerose sonde e dei rover che, nel corso di quattro decenni, hanno studiato l’arida superficie del Pianeta rosso. Per chi fosse particolarmente interessato a questa emozionante saga, si suggerisce come punto di partenza questa pagina di Wikipedia. Insomma, le immagini di un giovane Marte ricoperto da oceani d’acqua non sono affatto il parto della fantasia di estrosi disegnatori. Le ultime stime (si veda lo studio pubblicato lo scorso marzo da Geronimo Villanueva e collaboratori su Science) indicano che 4,3 miliardi di anni fa Marte possedeva acqua in quantità sufficiente a ricoprirne l’intera superficie con uno strato profondo 140 metri.
Gli annunci più interessanti, però, non sono quelli
riguardanti quelle epoche remote, ma quelli che suggeriscono come anche ai
nostri giorni sul Pianeta rosso possa scorrere acqua liquida. Già nel 2011 il
team di Alfred McEwen (Università dell’Arizona) aveva individuato alcune
caratteristiche superficiali di Marte - battezzate recurring slope lineae (RSL) - riconducendole alle tracce lasciate
dallo scorrere di acqua salata. La natura stagionale di queste striature portò
i ricercatori a concludere che si potessero ricondurre allo scioglimento di
ghiacci superficiali, dunque a fenomeni attivi ai nostri giorni. Lo studio
venne pubblicato su Nature e ben
presto l’idea trovò l’approvazione di altri planetologi - si veda, per esempio,
l’analisi di Vincent Chevrier ed Edgard Rivera-Valentin pubblicata su Geophysical Research Letters nel
novembre 2012.
Probabilmente, la prova definitiva che è corretta l’idea
della presenza temporanea di acqua liquida sulla superficie di Marte è quella
fornita dall’analisi spettrale raccolta grazie al CRISM (Compact Reconnaissance Imaging Spectrometer
for Mars), lo spettrometro di cui è dotato il Mars Reconnaissance Orbiter (MRO). L’analisi, relativa a quattro
differenti siti caratterizzati dalla presenza di RSL, è stata condotta da Lujendra
Ojha (Georgia Institute of Technology) e collaboratori ed è stata pubblicata a
fine settembre su Nature Geoscience.
Poiché i dati spettrali indicano per i depositi salini che caratterizzano le
RSL una forte presenza di perclorati, una tipologia di sali che vengono
facilmente dissolti in acqua, secondo i ricercatori tale presenza sarebbe il
segno incontrovertibile che oggi sulla superficie di Marte è attivo un processo
in grado di fare scorrere acqua liquida ricca di questi sali.
Sul Pianeta rosso, insomma, sarebbe attivo anche ai nostri
giorni una sorta di ciclo stagionale le cui caratteristiche non sono però
ancora del tutto chiare, come pure la provenienza dell’acqua necessaria. Molto significativo,
a tale proposito, quanto dice Giacomo Filippo Carrozzo (INAF-IAPS) in un
intervento pubblicato da Media INAF: «La fonte forse è nascosta nel
sottosuolo. L’acqua liquida può formarsi in seguito allo scioglimento del
ghiaccio presente proprio qui. Le simulazioni, tuttavia, mostrano che, alle
latitudini osservate, la presenza di ghiaccio sotto-superficiale è altamente
improbabile. Un’altra ipotesi vede la fuoriuscita improvvisa di acqua liquida
proveniente da ipotetiche falde acquifere poste in profondità. Anch’esse, però,
sono difficili da spiegare visto che, dalle immagini, la fonte di questi rivoli
risulta troppo in alto rispetto a dove ci si aspetta di trovare le falde. Al
momento nessuna di queste ipotesi è, da sola, in grado di spiegare quale
processo ci sia dietro alla formazione di questi rivoli d’acqua. Probabilmente
il meccanismo è ancora da scoprire.»
L'aria di Marte secondo MAVEN
Uno dei grossi interrogativi che assillano i planetologi
resta comunque quello di come sia stato possibile per Marte un cambiamento
climatico così radicale. E quale possa essere stato il processo chiave che ha
portato il pianeta da una situazione climatica iniziale caratterizzata da un
ambiente caldo, umido e probabilmente in grado di sostenere la vita, alla
situazione attuale che ci mostra un Marte freddo, arido e assolutamente
inospitale.
Proprio per trovare il bandolo della matassa, la NASA il 18
novembre 2013 lanciò la sonda MAVEN (Mars
Atmosphere and Volatile EvolutioN), con l’obiettivo primario di esplorare
nel modo più dettagliato possibile l’attuale atmosfera di Marte. Un compito che
la sonda sta ormai regolarmente svolgendo dal settembre dello scorso anno e che
comincia a dare i primi importanti frutti. Nelle scorse settimane, infatti,
sulla rivista Science (nello speciale
MAVEN goes to Mars) sono stati
pubblicati i primi risultati ottenuti dai dati raccolti da MAVEN. E non sono
mancate importanti scoperte.
I dati della sonda hanno anzitutto permesso di determinare
il ritmo con il quale l’attuale atmosfera di Marte si disperde nello spazio per
effetto del vento solare, mettendo in luce che tale erosione aumenta in modo
significativo in occasione delle tempeste solari. Nello studio pubblicato su Science, Bruce Jakosky (MAVEN
principal investigator) e collaboratori hanno analizzato i dati dell’atmosfera
marziana raccolti dalla sonda anche in occasione dell’episodio di espulsione di
massa coronale (Interplanetary Coronal
Mass Ejection - ICME) verificatosi lo scorso marzo. Le misure di MAVEN
indicano che il vento solare - il flusso incessante di particelle cariche, per
la massima parte protoni ed elettroni, soffiato nello spazio dalla nostra
stella - strappa e disperde i gas dell’atmosfera di Marte a un ritmo di circa
100 grammi al secondo. Apparentemente una perdita esigua, ma incredibilmente
importante se il fenomeno viene considerato sul lungo periodo. Poiché i dati di
marzo indicano che tale erosione diventa ancora più significativa durante le
tempeste solari (il picco è di un fattore da 10 a 20 volte più intenso), la
conclusione cui giungono Jakosky e collaboratori è che nel lontano passato, con
un Sole molto più attivo di quanto non lo sia oggi, la perdita debba essere
stata estremamente pesante, governando in modo deciso l’evoluzione
dell’atmosfera marziana.
I dati di MAVEN stanno contribuendo anche a ricostruire una
più dettagliata composizione dell’atmosfera di Marte. Sempre nel medesimo
numero di Science, il team di Stephen
Bougher (University of Michigan) mette in risalto i risultati ottenuti soprattutto
nella seconda delle Deep Dip campaigns
che hanno portato MAVEN fin dentro gli strati superiori dell’atmosfera di Marte,
a soli 130 chilometri dalla sua superficie. I dati raccolti indicano una
composizione costante di anidride carbonica, argo, biossido di azoto, ma anche
quantità di ossigeno più elevate rispetto alle stime suggerite da precedenti
studi.
Un terzo studio, frutto dell’analisi dei dati raccolti dallo
spettrografo ultravioletto di MAVEN (Imaging
Ultraviolet Spectrograph) riporta la scoperta di una diffusa aurora
innescata da una tempesta solare. Il fenomeno, studiato da Nick Schneider
(University of Colorado) e collaboratori, si è verificato nell’emisfero nord
del pianeta e si è esteso negli strati più bassi dell’atmosfera marziana. I
dati di MAVEN hanno indicato che si è trattato di un fenomeno geograficamente
molto esteso e non circoscritto come in precedenti occasioni e che si è spinto
fino a una quota di circa 60 chilometri, molto più in profondità di quanto
finora si sia osservato per altri pianeti. Vista la mancanza di un
significativo campo magnetico e l’assenza del conseguente scudo protettivo, lo
studio delle aurore su Marte può offrire importanti indicazioni sui processi
innescati nell’atmosfera del Pianeta rosso dal vento solare, processi che
contribuiscono attivamente alla dispersione nello spazio degli elementi che la
compongono.
Sta insomma gradatamente emergendo che la componente superiore dell’atmosfera di Marte possa probabilmente essere il maggior responsabile dell’evoluzione climatica del pianeta. Dai dati raccolti da MAVEN relativi a come il vento solare e la radiazione ultravioletta siano in grado di strappare i gas dagli strati superiori dell’atmosfera del pianeta emerge l’indicazione che la perdita si verifica in tre differenti regioni del Pianeta rosso: 1. lungo la "coda", cioè nella regione in cui il vento solare ha già oltrepassato Marte; 2. al di sopra dei poli marziani, in una sorta di "pennacchio polare"; 3. da una nube estesa di gas che avvolge interamente Marte. Ebbene, i dati indicherebbero che quasi il 75% degli ioni in fuga provengono dalla regione della coda, circa il 25% dai pennacchi polari mentre sarebbe praticamente ininfluente il contributo della nube estesa.
A proposito dell’azione della radiazione ultravioletta
sull’atmosfera marziana, è doveroso segnalare lo studio di Renyu Hu (Jet
Propulsion Laboratory) e collaboratori recentemente pubblicato su Nature Communications.
Secondo i ricercatori potrebbe venire dallo studio del
carbonio il suggerimento più affidabile per riuscire a ricostruire la complessa
storia dell’atmosfera marziana, una storia che ha gradatamente portato il
Pianeta rosso da una situazione di tepore e umidità fino al quel gelido e
polveroso deserto che ci hanno svelato le sonde. L’attuale atmosfera, composta
soprattutto di anidride carbonica, è troppo sottile per impedire all’eventuale
acqua superficiale di andarsene in gran quantità nello spazio per evaporazione
o sublimazione. Secondo alcuni planetologi, però, non è sempre stato così e un
tempo l’atmosfera era più densa, probabilmente più densa della stessa atmosfera
terrestre. Inevitabile allora chiedersi dove sia finito tutto quel carbonio.
Domanda cruciale, alla quale il recente studio sembra
finalmente suggerire una convincente risposta. Due processi in grado di
abbattere il contenuto di carbonio sono noti da tempo: il primo è quello del
“sequestro” del carbonio per opera delle rocce carbonatiche, mentre il secondo
è il cosiddetto sputtering, la
dispersione operata dal vento solare. Lo studio di Renyu Hu affianca a questi
meccanismi l’importante azione della radiazione ultravioletta e il processo di fotolisi
che induce. In pratica, i fotoni UV solari riescono a spezzare le molecole di
anidride carbonica nell’alta atmosfera di Marte riuscendo a liberare gli atomi
di carbonio che, se dotati di sufficiente energia, riescono a sfuggire nello
spazio interplanetario. Il processo si manifesta in modo differente per i
differenti isotopi del carbonio, privilegiando la fuga del più leggero C-12 rispetto
al più pesante C-13. Tenendo conto del possibile irraggiamento UV
dell’atmosfera di Marte, Hu e collaboratori concludono che l’attuale abbondanza
degli isotopi di carbonio rilevata dagli strumenti del rover Curiosity è
compatibile con l’impoverimento indotto dall’azione congiunta della fotolisi e
degli altri processi già noti.
Davvero sintetiche e chiare le parole con cui Bethany Ehlmann (Jet Propulsion Laboratory), coautrice dello studio, sottolinea la portata del lavoro: «Possiamo descrivere per Marte uno scenario evolutivo che renda conto dell’apparente disponibilità di carbonio senza dover ipotizzare che manchino all’appello riserve o altri processi.»