fbpx I sentieri della ricerca? Organizzati e casuali... | Scienza in rete

I sentieri della ricerca? Organizzati e casuali...

Primary tabs

Tempo di lettura: 7 mins

Non molto tempo fa un collega mi chiedeva quali fossero, a mio avviso, le scoperte più importanti dell’ultimo anno o due; in astrofisica naturalmente.
La mia prima reazione è stata di dire che il lasso di tempo da considerare – uno o due anni – era troppo breve per poter valutare scoperte (al plurale!) importanti, sia perché di scoperte veramente tali non se ne fanno così frequentemente, sia perché a volte sono necessari alcuni anni solo per capirne appieno l’importanza e le implicazioni. È vero, continuiamo a leggere di nuove stelle e galassie trovate in qualche angolo remoto del cosmo, di nuovi strumenti e osservazioni che ci mostrano manifestazioni sconosciute o proprietà inaspettate di qualche oggetto celeste ma queste non credo fossero l’oggetto della domanda del mio collega.
Gli ho proposto di elencare insieme le scoperte importanti degli ultimi dieci o vent’anni e valutarne l’impatto. Anziché fare l’elenco, per non parlare poi di stabilire una graduatoria, ci siamo ritrovati invece a discutere dei percorsi che nel passato hanno portato alle varie “scoperte”, al loro ruolo nel condizionare le scelte di ricerca successive, alle condizioni ambientali che le favorivano, al modo di procedere – organizzato o casuale – del processo cognitivo. Ne è uscito un quadro vario e abbastanza complesso.

Le “scoperte” sono il sale della ricerca scientifica e sono momenti chiave nella progressione della conoscenza. A volte sono l’inizio di un percorso, altre volte lo concludono o ne determinano un cambiamento anche radicale; possono essere il frutto di lunghe e caparbie ricerche, così come possono essere gradevoli sorprese, eventi del tutto inaspettati. In alcuni casi la consapevolezza dell’importanza della scoperta è immediata, in altri può essere necessario molto tempo prima che tutte le sue implicazioni siano apprezzate.
Tra le scoperte rilevanti avvenute per caso, dette anche “serendipite” (v. “le Stelle” n. 111, pp. 14-15), possiamo annoverare l’emissione radio dal centro della Galassia, la radiazione cosmica di fondo (CMB), i Gamma Ray Burst (GRB) trovati dai militari americani e tenuti segreti per diversi anni. Tra quelle risultanti da anni di caparbie ricerche troviamo la conferma sperimentale dell’esistenza del neutrino, poi del bosone di Higgs, la risoluzione del fondo cosmico di radiazione X come sovrapposizione di sorgenti discrete, il tasso di espansione dell’universo.
Anche la scoperta di cosa sia la materia oscura, quando avverrà, sarà probabilmente il risultato di lunghe e caparbie ricerche. Ma potrebbe anche avvenire per caso. In ogni modo sarà un sollievo.

La storia della scoperta di Sagittarius A

Karl Jansky era un  fisico che, all’inizio degli anni ’30 del secolo scorso, lavorava ai laboratori della Bell Telephone, in New Jersey. Gli era stato assegnato il compito di studiare l’origine di fastidiosi disturbi che interferivano con le radiotrasmissioni che andavano sempre più a affermandosi come nuovo sistema di comunicazione.
Jansky costruì un sistema di ricevitori a dipoli orientabili e per mesi si mise “in ascolto” studiando l’intensità e la direzione di provenienza dei “rumori” radio. Oltre a sentire i disturbi prodotti dai fulmini associati a temporali vicini e lontani registrò un segnale periodico che si ripeteva ogni 23h e 56m, sincrono dunque con il giorno siderale, non con quello solare. Questo permise di associarne l’origine al sistema delle stelle  fisse e successivamente a capire che aveva origine nel centro della nostra galassia. Jansky aveva scoperto Sagittarius A, la prima radiosorgente celeste. Quale impatto ebbe questa scoperta? Quali conseguenze? Diede origine e impulso ad una “nuova” astronomia – la radioastronomia – che a sua volta portò a molte altre scoperte, dalle quasar alle pulsar, alle radiogalassie che emettono jet relativistici di particelle e, più recentemente ai lampi radio veloci (v. “le Stelle” n. 141, pp. 8-9).
Anche la scoperta della radiazione cosmica di fondo (CMB) avvenne per caso (e sempre in New Jersey!), in maniera molto simile. Arno Penzias e Robert Wilson, come Jansky, cercavano di eliminare ogni possibile interferenza dal loro ricevitore, estremamente sensibile e dedicato alla ricezione di segnali radio che venivano riflessi da satelliti sperimentali per le telecomunicazioni. Non riuscivano però ad aver ragione di un segnale residuo, costante nel tempo e uguale in tutte le direzioni, che disturbava i loro esperimenti. Anche loro, dopo ripetute osservazioni, capirono che l’origine del segnale era astronomica, addirittura extragalattica. Avevano scoperto la radiazione cosmica di fondo, proveniente direttamente dal Big Bang.
Anche in questo caso la scoperta (fortuita, ma prevista da alcuni fisici tra cui Gamow, Dicke, Alpher e Herman) aprì un filone estremamente proficuo di cosmologia osservativa e contribuì al definitivo superamento del modello dello Stato Stazionario a favore di quello del Big Bang. Una scoperta che valeva un cambio di paradigma!
Per più di quarant’anni la CMB è stata studiata con sempre maggior precisione (con i satelliti COBE, WMAP, Planck, e numerosi esperimenti su pallone o da terra) rivelandosi una fonte unica e insostituibile di informazioni fondamentali sulla nascita dell’universo.

Cosa favorisce il successo di una ricerca? Organizzazione o fantasia?

La scoperta del neutrino e del bosone di Higgs sono invece il risultato di ricerche mirate, condotte per decenni con apparecchiature estremamente costose e sempre più complesse. Sono stati necessari un reattore nucleare nel primo caso e il più potente acceleratore di particelle sino a ora costruito nel secondo. E se per LHC la scoperta del bosone di Higgs rappresenta la conclusione di una lunga ricerca, il suo recente upgrade permetterà di raggiunge energie di collisione inesplorate, probabilmente foriere di nuove scoperte e dunque di un nuovo inizio. Anche per scoprire l’origine del fondo di radiazione X (CXB) ci sono voluti decenni e molta determinazione. La convinzione di Riccardo Giacconi che il CXB fosse dovuto alla sovraimpressione di una moltitudine di sorgenti discrete estremamente deboli ha giocato un ruolo determinante per lo sviluppo dell’astronomia X. In particolare ha orientato verso lo sviluppo di telescopi X e rivelatori di sempre maggior risoluzione angolare, che fossero quindi in grado di rivelare l’esistenza e determinare le proprietà  delle sorgenti discrete responsabili del fondo di uso. Le splendide immagini che il telescopio Chandra continuamente ci fornisce sono un risultato di questo sviluppo.
Qualche anno prima della messa in orbita del Telescopio Spaziale Hubble (HST), su suggerimento dell’allora direttore dello Space Telescope Science Institute, furono formati quattro gruppi di lavoro per valutare l’opportunità di riservare una consistente frazione del tempo di osservazione del telescopio per progetti particolarmente importanti, da completare nei primi anni di vita dell’osservatorio, nel caso HST cessasse di funzionare anticipatamente: i cosiddetti Key Projects. Facevo parte di uno dei quattro gruppi di lavoro, quello presieduto da John Bahcall che era fortemente favorevole all’idea dei Key Projects, convinto dell’importanza di “organizzare” la ricerca scientica per ottimizzarne le probabilità di successo. Ma non tutti la pensavano come lui. Un convinto oppositore dell’“organizzazione” della ricerca era, ad esempio, Donald Osterbrock – altro grande astronomo – che riteneva invece che (troppa) organizzazione tarpasse le ali alla fantasia e facilitasse solamente la ricerca “ortodossa” di grandi gruppi consociati, a discapito di quella individuale e potenzialmente più innovativa. Come è meglio che proceda la ricerca? Cosa ne favorisce il successo (di cui le scoperte importanti sono uno degli indicatori)?

Con la saggezza di chi mette in due cesti separati le uova da portare al mercato, vien da dire che è bene mantenere e garantire entrambi gli approcci. Se ne perseguissimo uno solo, rinunceremmo alle potenzialità e alle opportunità o erte dall’altro. Senza la Big Science, inevitabilmente organizzata, non sarebbero possibili le grandi, costose e complesse strumentazioni indispensabili per spingere oltre, con sforzi coordinati e congiunti, gli estremi della conoscenza. Ricerca spaziale, acceleratori di particelle, supercalcolo, mega-telescopi dal radio ai raggi gamma trascendono le possibilità dei singoli o dei piccoli gruppi di ricerca.
Tuttavia, la Big Science penalizza la cosiddetta “high risk – high yield research”, la ricerca cioè ad alto rischio (di non trovare nulla) ma ad alto ritorno (se trova qualcosa) e più in generale quanto esula dai  filoni canonici. Chi investe molto, solitamente vuole ragionevoli “garanzie” di successo e ciò vale anche per la ricerca. Fortunatamente vi sono però ancora molti spazi per contributi individuali (soprattutto teorici, ma non solo) ed è importante che la grande strumentazione sia accessibile, su base competitiva, pure ai piccoli gruppi di ricerca. Anche per favorire quelle scoperte casuali, serendipite, che nate da un contesto fortuito spesso determinano le successive scelte di ricerca e indirizzano lo sviluppo futuro della Big Science. La scienza si ottimizza con la diversità: di approccio, metodo, strumentazione, e garantendo la libertà di inseguire le proprie curiosità.

Tratto da Le Stelle n° 146


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Tumore della prostata e sovradiagnosi: serve cautela nello screening con PSA

prelievo di sangue in un uomo

I programmi di screening spontanei per i tumori della prostata, a partire dalla misurazione del PSA, portano benefici limitati in termini di riduzione della mortalità a livello di popolazione, ma causano la sovradiagnosi in un numero elevato di uomini. Questo significa che a molti uomini verrà diagnosticato e curato un tumore che non avrebbe in realtà mai dato sintomi né problemi. Un nuovo studio lo conferma.

I risultati di un nuovo studio suggeriscono che i programmi di screening spontanei per i tumori della prostata, a partire dalla misurazione del PSA, portano benefici limitati in termini di riduzione della mortalità a livello di popolazione, ma causano la sovradiagnosi in un numero elevato di uomini. Questo significa che a molti uomini verrà diagnosticato e curato (con tutte le conseguenze delle cure) un tumore che non avrebbe in realtà mai dato sintomi né problemi.