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Auschwitz Report

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Durante un viaggio autunnale a New York, in cerca di una pausa di tepore, sono entrata nella libreria Strand, dove si può curiosare in giro, dandosi le arie da intellettuale di caratura internazionale, pur senza alcuna intenzione di comprare. Invece, inaspettatamente, l’occhio mi è caduto su un libretto smilzo e l’ho subito portato alla cassa: il sintetico titolo anglosassone era ”Auschwitz Report”.

Si trattava del “Rapporto sulla organizzazione igienico-sanitaria del campo di concentramento per Ebrei di Monowitz (Auschwitz-Alta Slesia)” stilato da Primo Levi e Leonardo De Benedetti, che invano avevo cercato a Milano su suggerimento di Benedetto Terracini, padre nobile dell’epidemiologia italiana e nipote di De Benedetti, per completare una ricerca sulla relazione tra medicina e nazismo. (qui il testo integrale accompagnato da un'utile analisi filologica)

Primo Levi, come si sa, era stato arrestato come partigiano nel suo brevissimo periodo da combattente di Giustizia e Libertà e portato prima a Fossoli e poi ad Auschwitz, nello stesso treno con Nardo De Benedetti e altre 650 persone.

Dei componenti di quel convoglio tornarono in 24 e tra questi non c’era la moglie di De Benedetti, selezionata per le docce con lo Zyklon B al momento stesso dell’arrivo al campo, insieme al gruppo più folto di persone. De Benedetti e Levi, invece, furono selezionati con altri novantatré uomini per il lavoro pesante e, perciò, trasferiti a Buna-Monowitz, dove furono rasati, lavati e tenuti tutta la notte nudi nel locale docce e poi marchiati, rispettivamente, con i numeri 174489 e 174517. Il campo era un satellite di Auschwitz-Birkenau, costruito in collaborazione con l’industria chimica IG Farben, in cui lavorarono 12.000 deportati, per la maggior parte israeliti. In realtà, il ciclo produttivo della fabbrica non iniziò mai, per i continui atti di sabotaggio degli operai civili polacchi e per i frequenti raid aerei.

La conoscenza del tedesco, una preparazione professionale utile agli aguzzini (almeno per quanto riguarda il chimico Levi, perché De Benedetti non fu mai impiegato come medico), la fortuna (Levi era ammalato di scarlattina quando i tedeschi evacuarono il campo lasciandosi dietro solo i malati) tennero in vita i due torinesi fino al 27 gennaio 1945, quando il campo di Auschwitz venne liberato dall’esercito sovietico.

I due sopravvissuti rimasero quattro mesi nel campo di transito di Katowice, dove il comando sovietico, cui premeva inchiodare i nazisti ai loro crimini di guerra, li incaricò di redigere un memoriale sulle condizioni di vita e di morte ad Auschwitz: De Benedetti, che era medico, descrisse le principali patologie di cui si ammalavano i prigionieri e il funzionamento dell’infermeria, mentre Levi, al suo esordio come scrittore, descrisse il viaggio in treno, l’arrivo, le condizioni di lavoro e il funzionamento delle camere a gas. Nel 1946, De Benedetti rimise mano allo scritto e lo pubblicò con il titolo italiano con cui ora è noto, su Minerva Medica.

Emerge dal rapporto l’ossessione dei tedeschi per l’apparenza e l’incongruità dei loro comportamenti, anche in merito all’igiene: durante i quattro giorni del viaggio erano stati distribuiti pane, marmellata e formaggio, ma mai acqua; i vialetti tra le baracche erano tenuti puliti e i giacigli dovevano essere in ordine; quelli visibili dall’ingresso (e destinati ai kapo) avevano coperte pulite e persino di bell’aspetto, ma in ciascun letto (infestato da cimini) dovevano dormire due prigionieri; le periodiche disinfezioni erano precedute dall’ammassamento dei sani insieme ai malati contagiosi e così via. In seguito alle ispezioni serali per scovare i pidocchi, al fine di evitare epidemie di tifo, venivano disinfettati gli indumenti in cui erano stati trovati e chi li indossava restava nudo tutta la notte; quest’unica misura profilattica, comunque, lasciava via libera a ogni tipo di malattia infettiva (virale esantematica, batterica e parassitaria), facilitata dall’uso comune di posate e tazze, per insufficienza di quelle distribuite, dall’estrema sottoalimentazione e dalla prolungata esposizione al freddo.

L’epidemiologia delle malattie, come annota De Benedetti, non era precisabile, in quanto molti affetti da patologie gravi o infettive erano immediatamente avviati alle camere a gas di Birkenau.

Primo Levi da giovane.


Primo Levi (a sinistra) e Leonardo De Benedetti (a destra) da giovani.

Per converso, l’operazione di sterminio ebbe aspetti organizzati e “scientifici”: i nazisti avevano programmi di eugenetica iniziati già negli anni trenta che giunsero all’apoteosi con medici quali Josef Mengele ed Eduard Wirths che operavano ad Auschwitz. Il “Rapporto” è un pezzo fondamentale del mosaico conoscitivo della condotta medica nei campi di sterminio, ma racconta anche le molte “banalità del male” che costellavano i giorni dei prigionieri: la giornata lavorativa cominciava con l’adunata dei deportati che dovevano restare fermi in piedi per un tempo variabile da una a tre ore, mentre una banda suonava motivi allegri. Cominciava poi la marcia veloce (quasi una corsa) dei deportati verso la fabbrica, distante circa sei chilometri; al ritorno, succedeva l’inverso, qualunque fosse il tempo atmosferico.

La dotazione invernale di indumenti era costituita da una giacca, un paio di calzoni, un cappello, un corto indumento di lana da indossare sopra la giacca, un paio di mutande, un paio di calze e zoccoli di legno che, distribuiti di misura casuale, erano ben presto causa di ulcere ai piedi. Era vietato indossare una divisa spaiata, per cui non era possibile lavarne una parte e il cambio avveniva con una frequenza da mensile a bimestrale; gli indumenti forniti al posto di quelli sporchi non erano stati lavati, ma solo disinfettati. Le rappezzature erano a cura degli internati, ma non erano disponibili né ago, né filo. Le sostituzioni erano concesse con estrema difficoltà e non potevano mai riguardare le calze; era vietato possedere fazzoletti o avanzi di tessuto di qualsiasi tipo.

In aprile, mese in cui i nazisti decretavano arrivata l’estate, questo vestiario veniva sostituito da uno simile, in cotone; i prigionieri dovettero affrontare l’inverno 1944-45 con la dotazione estiva, perché gli indumenti di lana in precedenza disponibili erano ormai tutti logorati e inutilizzabili.

Firma di Primo Levi, con numero.

Come afferma Robert Gordon anche nel suo contributo al libro “Voci dal mondo per Primo Levi-In memoria per la memoria” (Firenze University Press 2007), condividendo il pensiero di Elias Canetti, la lettura del “Rapporto” è necessaria per quanto è essenziale: del campo di sterminio viene colta l’esperienza ridotta a un nucleo di fisiologia e patologia, una memoria della sofferenza inferta all’essere umano denudato dai tratti individuali (“…considerate se questo è un uomo”), più potente di qualsiasi elaborazione letteraria. Al tempo stesso, il Rapporto contiene già i germi dell’ironica e profonda prosa di Primo Levi.

Infine, il libro è la testimonianza della possibilità di uno spazio per l’anima anche in condizioni di sussistenza così precarie: l’amicizia fra Primo e i compagni che poi saranno “sommersi” lo ha aiutato a essere tra i “salvati”; Primo e Nardo, conosciutisi a Fossoli, sono stati amici per tutta la loro vita, supportandosi a vicenda quando la depressione li travolgeva. Purtroppo, quando il male oscuro finì per spingerlo giù nel vuoto, Primo era solo, perché Nardo era già morto.

Il Rapporto è stato ristampato nel 1997 da Einaudi in coda alle Opere di Primo Levi curate da Marco Belpoliti e, nel 2013, come libro a sé in tiratura limitata (400 copie) destinate ai sostenitori del Centro internazionale di studi Primo Levi. 

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