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Linda Laura e le altre

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È un fatto insolito che il demansionamento professionale di una ricercatrice italiana mantenga, a diverse settimane di distanza dall’accaduto, un certo clamore nazionale e un inarrestabile tam tam mediatico che coinvolge esponenti politici, giornalisti, opinionisti e sindacati. Forse perché nel caso di Linda Laura Sabbadini non si parla di una “lavoratrice” qualunque. Ma di una delle “Cento eccellenze italiane”, profilo di punta dell’Istituto nazionale pubblico di statistica (Istat): tra i meriti, le è riconosciuto il suo ruolo di pioniera internazionale nello studio delle Ricerche sociali di genere, quelle che hanno portato alla luce – tanto per intenderci - la triste prassi delle “dimissioni in bianco” e hanno fornito i primi numeri sulla disparità di retribuzione a pari livello contrattuale tra donne e uomini.

La ricercatrice Sabbadini è stata fino al primo aprile 2016 la direttrice del Dipartimento per le Statistiche sociali (che comprende le ricerche di genere) e ambientali, che ora non esiste più perché assorbito in altri Dipartimenti. La decisione, ha motivato l'ente, è stata frutto di una riorganizzazione dell’Istituto a seguito di una modernizzazione della produzione di dati. La domanda sorge spontanea. È solamente l’ennesima donna (per quanto cervello prestigioso) cui è negato il diritto di fare carriera, oppure è la conferma che gli studi di genere non sono ritenuti prioritari nel nostro Paese? In ogni caso, a uscirne sconfitte, sono le donne.

L'uguaglianza di genere in Europa

È certamente un fatto che le Pari opportunità restano un traguardo ancora da raggiungere. In Horizon 2020, l’attuale programma Quadro europeo per la ricerca e l’innovazione, l’Uguaglianza di genere è uno dei sei principi guida degli obiettivi della Ricerca e innovazione Responsabile (RRI): “la corsa all’innovazione deve tenere conto del contributo e delle condizioni delle persone nelle loro diversità. La presenza delle donne ai ruoli di responsabilità nel campo della ricerca è ancora lontana dal pari accesso. Questo gap può essere colmato con conseguenze positive e portando a importanti risultati anche sul fronte della competitività”.

Lo studio più recente sul tema della presenza femminile nel campo dell’Innovazione e della ricerca prodotto dalla Comunità europea, il “She figures 2015”conferma che siamo ancora sotto la soglia della pari rappresentanza. “La media percentuale varia dal 45% all’11%. Paesi come la Serbia, o la Macedonia, spiccano per percentuali oltre il 50% ma in cifre assolute significa che ci sono indicativamente 10 donne in posizioni di responsabilità. Pochissime. Svezia, Lussemburgo, Olanda vantano, invece, dati interessanti. E da noi? Lo “Stivale” sta stretto alle donne col camice. In Italia, infatti, ci attestiamo su un 37-38% di presenza femminile.

La ricerca europea analizza anche l’utilizzo da parte delle Organizzazioni di ricerca (PMO) europee di Piani di uguaglianza di genere, disposizioni che possono variare molto e che comprendono politiche per favorire l’ingresso e la promozione di professionalità femminili, sostenere la conciliazione famiglia-lavoro e supportare lo sviluppo di leadership femminili. Strumenti di cui le società possono liberamente disporre, ma che poi sono effettivamente utilizzati solo da un 36% delle istituzioni nell’Area di Ricerca europea (REA).

Sempre Horizon 2020 getta le basi per un nuovo modello. Altro principio guida nella RRI è l’Educazione scientifica: abbattere gli stereotipi delle materie “femminili” rispetto alle scienze dure meglio apprese da studenti maschi. Ancora, reimpostare il linguaggio scientifico e le immagini che lo spiegano. Se dobbiamo chiamare i nostri antenati “Homo e Homini”, potremmo almeno sperare di trovare illustrata così la storia dell’Umanità. 

 

La politica all'avanguardia nella rappresentanza femminile

Fin qui, però, si parla di donne che lavorano nel campo della ricerca e dello sviluppo, settori scientifici e tecnologici che è (cattiva) consuetudine ritenere ad appannaggio maschile. Questo divario comunque non si colma se consideriamo altre professioni. In Italia soprattutto. Anche l’ultimo rapporto Bes dell’Istat (alle quali ha lavorato proprio la ricercatrice Sabbadini) proprio questo sottolinea: “Il divario di genere nella partecipazione al mercato del lavoro, pur continuando a ridursi a seguito della maggiore caduta dell’occupazione nei comparti a prevalenza maschile, resta tra i più alti d’Europa (69,7% di uomini occupati contro il 50,3% di donne) e, per colmarlo, dovrebbero lavorare almeno 3 milioni e mezzo di donne in più di quante attualmente occupate. Anche la qualità del lavoro è peggiore per le donne, più spesso occupate nel terziario e in professioni a bassa specializzazione”.

In controtendenza, paradossalemente, la politica. “L’elemento più dinamico nel quadro politico istituzionale è la crescente presenza femminile nei luoghi decisionali politici ed economici – è riferito nel rapporto Bes 2015 -. Dopo le elezioni europee, il divario di genere diminuisce sensibilmente e l’Italia per la prima volta raggiunge una rappresentanza femminile al Parlamento europeo più elevata della media Ue (40% contro 37%).


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