Come forse avrete letto, la mia attività di scienziato è stata duramente attaccata in un articolo ("Per il dopo-Expo la bufala dell'elisir di lunga vita") pubblicato domenica 8 maggio 2016 da un quotidiano. Non credo che replicherò sulla stampa nazionale. Sento la necessità, però, di condividere la mia amarezza con la comunità dei miei colleghi. L’unico modo che conosco è quello di raccontarvi brevemente la scienza sulla quale sono stato attaccato. Lo devo ai miei collaboratori e a me stesso. E’ davvero amaro vedere che pezzi di una storia siano selezionati e poi riassemblati al fine di sostenere un’opinione. Non vi nascondo, però, che non è l’accusa di essere uno scienziato disonesto quello che mi brucia di più. Ho la percezione che ristabilire la verità, se pur dovuto, non sia la cosa più importante. Mi brucia piuttosto la marginalità e la fragilità della scienza e dei suoi metodi nel dibattito politico che si è sviluppato sulla ricerca in questi ultimi mesi.
Una lunga storia
Nel 1999 abbiamo pubblicato che i topi privi di entrambe le copie del gene p66 (p66-/-) vivono più a lungo (~30%) e abbiamo ipotizzato che ciò fosse la conseguenza di un rallentamento del processo d’invecchiamento e delle malattie associate all’invecchiamento. Nell’articolo del Fatto Quotidiano si legge che “Pelicci per oltre un decennio tace sulle critiche dirette e indirette che vengono rivolte alla sua teoria” e che solo nel 2012 “fa marcia indietro”, comunicando “in un altro articolo, pubblicato su Aging Cell, di aver verificato che se il P66 viene tolto a ratti che vivono non in laboratorio, ma in ambiente selvatico, il risultato è opposto: vivono non di più, ma di meno”.
Negli anni successivi alla pubblicazione su Nature abbiamo continuato a lavorare su questo progetto, verificato le ipotesi che avevamo avanzato e chiarito la funzione di p66. Abbiamo pubblicato i risultati ottenuti in numerosi articoli. In sintesi:
1. Per prima cosa abbiamo inviato i topi p66-/- a oltre 20 laboratori (compresi laboratori non italiani) che a loro volta li hanno distribuiti a molti altri, in modo che la comunità scientifica internazionale potesse verificare ed espandere i nostri risultati. A oggi sono stati pubblicati circa 500 lavori scientifici su p66 (di cui solo 60 in collaborazione con il nostro gruppo). Nessuno di questi lavori (a mia conoscenza) avanza “critiche dirette o indirette” ai contenuti della pubblicazione iniziale. Complessivamente, questi lavori hanno dimostrato in maniera inequivocabile l’ipotesi iniziale che p66 favorisce il processo d’invecchiamento e aumenta l’incidenza/gravità delle malattie associate all’invecchiamento (diabete, malattie cardiovascolari o neurodegenerative).
2. Contemporaneamente abbiamo studiato il meccanismo di funzionamento di p66, dimostrando che p66 è attivato da vari stress ambientali, cibo o specifici fattori come insulina, genera a sua volta stress ossidativo e induce apoptosi (funziona ossidando il citocromo c ridotto durante la respirazione e producendo perossido d’idrogeno; Oncogene. 2002; J Biol Chem. 2004; Cell. 2005; Science 2007).
3. Sulla base dei dati emergenti di un legame tra p66 e stress/dieta, abbiamo studiato l’Influenza dell’ambiente (presenza di patogeni, diverso apporto calorico e temperatura), del contesto genetico (129 o BL6) e di vari stati patologici sull’effetto di p66 sulla longevità.
Il significato evolutivo del gene p66
L’esperimento iniziale era stato eseguito con topi 129 (outbred) mantenuti in uno stabulario non barrierato (in presenza di germi) e alimentati ad libitum. Le nuove condizioni che abbiamo valutato sono state:
a. Condizioni che massimizzano la durata della vita dei topi (topi inbred BL6; stabulazione germ-free; 5% e 40% di restrizione calorica). L’esperimento è stato eseguito in parallelo a Milano (IEO) e UC Davis (USA). In queste condizioni non abbiamo osservato un effetto significativo di p66 sulla durata di vita (fatta eccezione per un aumento sul settantesimo percentile). I risultati sono stati pubblicati con UC Davis nel 2014 (J Gerontol).
b. Condizioni di stabulazione in ambiente naturale: 60-100 topi BL6 mantenuti in uno stabulario all’aperto (Bubonizi, Russia), in condizioni di competizione per il cibo ed esposizione a condizioni climatiche naturali. In queste condizioni i topi p66-/- hanno mostrato una netta diminuzione della sopravvivenza (Aging Cell, 2012). Sulla base di quest’osservazione, abbiamo proposto che i topi p66-/- sono incapaci di adattare il metabolismo e favorire lo sviluppo del tessuto adiposo in condizioni di bassa temperatura e scarsità di cibo.
c. Condizioni di durata breve della vita causata da patologie definite. La mutazione p66-/- prolunga la vita di topi p53-/- (+25%; Curr Pharm Des. 2013), di topi progerici p44Tg (>200%; Aging Cell, 2013), di topi obesi (Proc Natl Acad Sci U S A, 2010) e corregge l’infertilità di topi progerici Telomerasi-/- (Aging Cell, 2016).
In sintesi, abbiamo dimostrato che p66 è un gene indispensabile in condizioni “selvatiche” di scarsa disponibilità di cibo e basse temperature (che è probabilmente il meccanismo per cui si è selezionato durante l’evoluzione), che non ha effetti in condizioni artificiali di massimizzazione della longevità (contesti genetici longevi e condizioni di mantenimento germ-free con apporto calorico ottimizzato), e che ha effetti deleteri sulla durata della vita quando attivata da stimoli ambientali eccessivi o patologici (mutanti iperfagici, topi sottoposti a diete obesogeniche o ipercolesterolemiche, malattie associate all’invecchiamento).
Il puzzle dell'invecchiamento
Sempre nell’articolo in questione si legge che Pelicci non ha “mai preso sul serio … diversi segnali, negli anni precedenti, che avevano messo in dubbio la scoperta" dello scienziato. I segnali ignorati sarebbero stati tre:
Arlan Richardson, 2003 (Exp Gerontol. 2003. 38:1353-64.) e JP de Magalhaes, 2005 (Genetics. 2005. 169: 265–274). In entrambi i lavori, gli autori discutono i dati pubblicati per i tre mutanti di longevità noti (p66-/-; la delezione eterozigote del recettore di IGF1 e la delezione omozigote del recettore dell’insulina nel tessuto adiposo). In de Magalhaes et al. i dati disponibili sono ri-analizzati con un metodo statistico alternativo (la “equazione di Gompez”), che conferma l’effetto delle tre mutazioni sull’invecchiamento (compresa p66-/-). Entrambi gli autori: i) commentano la possibilità che le condizioni di stabulazione possano aumentare la mortalità dei topi, e che quindi l’aumentata longevità dei topi p66-/- possa essere dovuta a resistenza a stress ambientali; ii) raccomandano, per tutti tre i mutanti, la ripetizione degli esperimenti di longevità con un numero maggiore di topi (minimo 30-40 per gruppo), usando ceppi longevi (BL6) e in condizioni di stabulazione ottimizzate per longevità (germ free).
L’esperimento che abbiamo pubblicato su Nature (1999) era stato eseguito su 37 topi di ceppo 129 (outbred) mantenuti in uno stabulario non barrierato (in presenza di germi) e alimentati senza limiti. Come detto sopra, abbiamo ripetuto l’esperimento con un ceppo longevo (BL6), in uno stabulario senza germi, in condizioni di alimentazione ottimizzate per longevità, e utilizzando un totale di 596 topi (397 in IEO e 199 a UC Davis). Abbiamo pertanto seguito tutti i suggerimenti di Richardson e de Magalhaes, com’era del resto logico procedere.
Stefano Salvioli e Claudio Franceschi, in un convegno del 2004. Scrive il Fatto Quotidiano: “I due studiosi avevano raccontato che gli umani arrivati alla soglia dei cento anni, al contrario di quanto prevedeva Pelicci, avevano più P66 e non meno di quelli a cui sopravvivevano”.
L’espressione di p66 aumenta in condizioni di stress sia in vitro sia in vivo, in topi e nell’uomo, e si comporta come un marcatore precoce di rischio di malattia (J Clin Endocrinol Metab. 2005; Trends Cardiovasc Med. 2013). Moltissimi studi suggeriscono infatti che p66 è al centro di un circolo vizioso che è sensibile e contribuisce alla perdita di cellule e di funzionalità dei tessuti durante l’invecchiamento. E’ onestamente difficile predire se l’aumento di espressione di p66 nei centenari sia indicativo di una risposta all’età avanzata o la conseguenza di uno stato genetico pre-esistente.
In conclusione, credo che a distanza di un decennio l’ipotesi che p66 sia un gene dell’invecchiamento sia stata sostenuta e ulteriormente chiarita da numerosissime pubblicazioni del mio gruppo e di moltissimi altri, e che il progetto scientifico sia stato condotto come qualsiasi altro, procedendo con la reiterazione d’ipotesi di lavoro e conseguenti approcci sperimentali.
L'interesse sociale di questa ricerca e i fraintendimenti mediatici
Vorrei infine fare un commento sulla percezione mediatica delle nostre pubblicazioni su p66: “Pelicci è lo scienziato che da anni promette l'elisir di lunga vita”, “Pelicci spiega in interviste bombastiche che spegnendo il P66 nell'uomo si potrebbe prolungare la vita fino a 120 anni” etc.
La pubblicazione su p66, prima che in Italia, fu ripresa con grande enfasi dal New York Times e dai maggiori quotidiani di tutto il mondo, sulla base di un comunicato stampa rilasciato da Nature. Sono convinto che sia nostro dovere, come scienziati, comunicare alla società i risultati delle nostre ricerche e, con essi, le implicazioni sociali rilevanti.
Da parte mia l’ho fatto ogni qualvolta ho ritenuto che le nostre scoperte fossero d’interesse generale, mediante comunicati stampa. Questo è stato anche il caso del lavoro su Aging Cell nel quale abbiamo dimostrato che i topi p66-/- hanno una vita più corta se mantenuti in ambienti ostili. Credo, infatti, che questa scoperta sia di grosso interesse sociale, in quanto consente di discutere il significato della nicchia ecologica nella quale si è collocata la società occidentale, una nicchia caratterizzata da un ambiente che stimola vie genetiche potenzialmente dannose (geni dell'invecchiamento) e che contribuiscono allo sviluppo di malattie degenerative.