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La ricerca italiana salvata dall’Europa

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L’Italia deve correggere il decreto che fa male ai pazienti e agli animali, non solo alla ricerca

L’Italia ha due mesi di tempo per fare marcia indietro e correggere il decreto legislativo 26/2014 sulla sperimentazione animale, nei punti in cui questo introduce ulteriori limiti alla Direttiva europea del 2010. In caso contrario, scatteranno nei confronti del nostro Paese pesanti sanzioni economiche, fino a 150.000 euro al giorno.  

La procedura di infrazione europea, che ha preso il via il 28 aprile scorso, era largamente annunciata, e in un certo senso inevitabile: i singoli Stati infatti avrebbero anche potuto ratificare una normativa più severa di quella comunitaria, ma solo se questa fosse stata già in vigore prima della pubblicazione della direttiva stessa. «Non è questo il caso dell’Italia, dove le clausole contestate sono frutto di un possibile compromesso tra le pressioni dei movimenti che si oppongono alla sperimentazione in vivo e le richieste degli scienziati. Questi si trovavano davanti a una prospettiva paradossale: mentre doveva recepire una direttiva europea, il loro Paese di fatto li tagliava fuori dalla competizione scientifica internazionale e, più concretamente, impediva loro di richiedere o utilizzare i fondi ricevuti da quella stessa Commissione che aveva dato il via al processo» spiega Emanuele Cozzi, immunologo clinico dell’Azienda Ospedaliera di Padova. Il ricercatore, dopo aver vinto un importante grant europeo, rischiava di trovarsi in questa situazione, e di dover quindi restituire all’Europa i fondi ottenuti per studiare la possibilità di trattare alcune malattie neurodegenerative, come la malattia di Huntington, con trapianti di cellule tra specie diverse. Questo procedimento, che rientra nell’ambito della sperimentazione nel settore dello “xenotrapianto”, era infatti proibito in ogni sua forma nella prima stesura della legge italiana.

Cosa si intende per “xenotrapianto”?

Procedure di questo tipo sono all’ordine del giorno per creare modelli animali su cui studiare numerose malattie e trovare il modo per curarle. In particolare, gli xenotrapianti rappresentano uno degli strumenti fondamentali per capire il comportamento dei tumori umani e cercare di combatterli. «Per esempio, si inoculano cellule del tumore umano che si vuole studiare in animali nei quali viene analizzata la risposta a diversi approcci terapeutici. Con lo stesso metodo si può anche sperare di trovare il trattamento più efficace per il tumore di un singolo paziente, nell’ottica di una terapia il più possibile personalizzata».

Se il decreto italiano fosse stato approvato così come era stato scritto in un primo momento, vietando in generale tutti gli xenotrapianti, gran parte della ricerca preclinica avanzata nel settore dell’oncologia, ma anche dell’immunologia, della trapiantologia, dell’infettivologia, delle staminali e della medicina rigenerativa, sarebbe stata bloccata. I nostri scienziati, in molti settori all’avanguardia nel mondo, per proseguire le proprie ricerche avrebbero dovuto trovare lavoro all’estero. «Oltre alla “fuga di cervelli” che questo avrebbe comportato, non dimentichiamo l’impatto che sarebbe stato provocato in termini di posti di lavoro. Inoltre c’è l’indotto, anche economico, che dipende dal mondo della ricerca accademica così come da quello delle aziende farmaceutiche, che avrebbero dovuto trasferire altrove i loro laboratori di ricerca» commenta Cozzi, che ha avuto l’opportunità di spiegare queste possibili conseguenze della norma nel corso di un’udienza al Senato. Dopo quello, e altri interventi di scienziati preoccupati, al decreto è stata aggiunta una postilla, che definisce come “xenotrapianti” i trapianti “di organi” tra specie diverse, consentendo quindi di fatto il trapianto di sole cellule o tessuti. Sebbene questa definizione non corrisponda a quella solitamente accettata a livello internazionale, l’escamotage ha permesso di evitare le pesanti conseguenze della prima stesura.

Dalla ricerca alla cura il passo può esser breve

Meno chiaro è l’impatto che avrebbe avuto il decreto, nella sua formulazione iniziale, sulla vita di migliaia di pazienti in attesa di un intervento al cuore per la sostituzione di una valvola cardiaca. La norma infatti fa esplicito riferimento agli xenotrapianti solo in termini di ricerca, ma non è difficile pensare che, nel momento in cui fosse passato il messaggio della non liceità dei trapianti di tessuti tra specie diverse, si sarebbe cominciato a discutere anche della forma di xenotrapianto che da anni è entrata nella pratica clinica, quella cioè che prevede l’uso di valvole cardiache provenienti da bovini o suini. Le valvole meccaniche, infatti, di produzione industriale, espongono il paziente al rischio di trombosi, e per questo il loro impianto richiede una terapia anticoagulante che a sua volta comporta diversi disagi e controindicazioni, che escludono alcune categorie di pazienti (per esempio le donne giovani in età fertile) da questa opzione terapeutica. In alternativa, da circa una ventina di anni, si sono diffuse quindi valvole biologiche di origine suina o bovina, che hanno una minor durata nell’organismo, ma non richiedono trattamento anticoagulante.

Se la legge avesse aperto la strada al bando di tutti gli xenotrapianti, anche quelli di tessuto, migliaia di italiani sarebbero andati a ingrossare le fila già sovraffollate dei pazienti in attesa di trapianto di cuore.

Gli effetti della legge così com’è

Anche così come è stata approvata definitivamente, comunque, la normativa italiana, vietando la ricerca sui trapianti d’organo da specie diverse, potrebbe avere ricadute importanti nel trapianto da uomo a uomo così come avviene oggi. La procedura di infrazione da parte dell’Europa restituisce ai pazienti che ne avranno bisogno in futuro la speranza di migliori prospettive.

«Sebbene, infatti, l’ipotesi di utilizzare per i trapianti organi animali integri al posto di quelli umani sia ancora ben lontana dall’essere concretizzata, molti gruppi stanno studiando una possibilità alternativa, già realizzata su modelli preclinici» prosegue l’esperto. «Si potrebbe utilizzare l’impalcatura connettivale proveniente per esempio dal maiale, dopo averla privata di tutte le cellule cardiache dell’animale, che sarebbero sostituite da nuovo tessuto cardiaco ricostruito a partire da staminali umani, possibilmente del paziente stesso. Si risolverebbe così anche il problema del rigetto» spiega Cozzi, che precisa: «Si tratta di un’area di frontiera, ancora lontana dalle applicazioni cliniche, ma di cui il legislatore non sembra aver tenuto conto».

Molto più vicine alla clinica sono invece le possibili ricadute della ricerca che utilizza gli xenotrapianti per capire meglio le caratteristiche della risposta immunitaria responsabile del rigetto nel trapianto da uomo a uomo. Oggi è noto infatti che circa la metà dei reni trapiantati viene persa entro 15 anni dall’intervento. «Il paziente deve rimettersi in lista d’attesa, e a ogni successivo trapianto le possibilità di successo si riducono» ricorda Cozzi. «Pensiamo a cosa significa questo quando a essere colpito da una grave insufficienza renale, come a volte capita, è un bambino».

Le difese dell’organismo responsabili del fenomeno di rigetto costituiscono un sistema complesso e sofisticatissimo, che coinvolge tutto l’organismo e non si può nemmeno immaginare di riprodurre in provetta: «Studiando i trapianti tra specie diverse possiamo invece cercare di capire meglio i meccanismi alla base del rigetto anticorpo-mediato, la più importante causa di fallimento del trapianto dopo il primo anno dall’intervento» prosegue il medico ricercatore. «Già in passato, con ricerche di questo tipo, sono stati sviluppati approcci terapeutici efficaci per alcune forme particolari di rigetto che coinvolgono la cascata del complemento. Se allora fosse stata in vigore la legge attuale, non avremmo potuto ottenere questi risultati oggi importantissimi per alcuni pazienti».

Un decreto frettoloso che danneggia anche gli animali

Già nel 2014, quando il decreto fu approvato dal Parlamento italiano, Research4life si fece promotore di una lettera rivolta alla Commissione per richiamare l’attenzione sui gravi effetti e sull’incongruità del provvedimento, arrivato, anche allora, solo sotto la minaccia di una salatissima multa da parte della Corte di Giustizia europea. A distanza di quattro anni dalla sua approvazione, infatti, la direttiva non era stata ancora recepita nel nostro Paese, a differenza di quanto era già stato fatto, entro i due anni previsti, dalla maggior parte degli altri.

«La fretta forse contribuì a fare approvare articoli di cui si fa fatica a capire il senso, non solo dal punto di vista scientifico, ma anche da quello della tutela degli animali» spiega Augusto Vitale, etologo dell’Istituto Superiore di Sanità. La legge italiana, per esempio, vieta di allevare sul territorio nazionale cani, gatti e primati non umani destinati alla ricerca. Sebbene il loro costo di gestione sia molto più elevato di quello dei roditori, e sebbene le loro caratteristiche (per esempio il tempo di riproduzione) si prestino meno alle esigenze della ricerca, non si riesce ad aggirare la necessità di queste specie cosiddette “di affezione” in alcuni, limitatissimi, settori della ricerca (si calcola che, per esempio, i primati rappresentino meno dello 0,1 per cento del totale degli animali usati a questo scopo, quota che comprende anche studi comportamentali non cruenti). Ugualmente, cani e gatti sono utilizzati solo nei casi molto particolari in cui non possono essere sostituiti da roditori, per esempio per studiare malattie che si riescono a riprodurre solo in questi animali o che li colpiscono naturalmente, come l’emofilia B, per la quale, grazie allo studio di cani che la sviluppano spontaneamente, si sta mettendo a punto una terapia genica che potrebbe cambiare la vita a moltissime persone colpite da questa malattia.

«Allo stesso modo, tutta la ricerca sull’AIDS e sulle epatiti B e C non si sarebbe potuta condurre senza gli scimpanzé, grazie ai quali abbiamo gli strumenti per prevenire, controllare o, nel caso dell’epatite C, addirittura debellare queste malattie» spiega Luca Guidotti, vice direttore scientifico dell’Ospedale San Raffaele di Milano. «Oggi l’uso di questi primati più simili agli esseri umani è stata definitivamente abbandonata. La ricerca sull’HIV prosegue sui macachi, che si possono infettare con un virus simile».

«Il divieto di allevare in Italia questi animali tuttavia non offre nessun tipo di vantaggio» riprende Vitale. «Le aziende che selezionavano in condizioni controllate animali finalizzati alla ricerca possono trasferirsi in Paesi dove i controlli sono meno severi e il costo del lavoro è inferiore; avremo minori garanzie sulle condizioni in cui questi animali sono cresciuti, a scapito del loro benessere e della qualità della ricerca; gli animali stessi, infine, saranno sottoposti allo stress e al disagio del trasporto, probabilmente di giorni e probabilmente chiusi in piccole gabbie».

Un’altra arma a doppio taglio potrebbe essere il divieto di usare gli animali per più di un esperimento, che in alcuni casi si può tradurre nell’aumento del numero totale di soggetti da utilizzare. La clausola italiana sembra quindi a prima vista andare in controtendenza rispetto a uno dei tre cardini della protezione degli animali nella ricerca, le famose tre “R” che comprendono la “riduzione” del numero di animali, oltre al loro rimpiazzo quando possibile e il refinement, cioè al miglioramento delle condizioni in cui sono tenuti.

«In realtà il divieto di riutilizzo tiene conto del livello di sofferenza, per cui un animale non può essere riutilizzato per una procedura “grave”. È un caso nel quale il concetto di refinement vince sul concetto di reduction. Si preferisce utilizzare più animali, che non sottoporre un animale a un cumulo di sofferenza troppo elevato» precisa Vitale.

Limiti aggiunti senza una logica

I punti del decreto in cui l’Italia si discosta dalla normativa europea sembrano quindi essere stati introdotti sulla base di valutazioni di immediato impatto emotivo. Non si tratta di ragioni scientifiche, come la disponibilità di metodi alternativi, che ha consentito la messa al bando della sperimentazione animale nei test per i cosmetici, non appena sono stati validati test che potevano sostituire le cavie, né strettamente etiche. «A meno che si voglia considerare “etico” proibire la ricerca sulle sostanze d’abuso perché chi soffre di una dipendenza “se l’è cercata”» commenta Vitale. «Alla stessa stregua allora bisognerebbe vietare la ricerca sui tumori al polmone provocati dal fumo o sulle malattie sessualmente trasmissibili: una visione moralistica e ingenua, più che etica, che è davvero difficile condividere».

Di primo acchito può suonare più comprensibile, accanto al divieto di usare animali per gli xenotrapianti e per la ricerca sulle sostanze d’abuso, nonostante il curioso accostamento, la proibizione di utilizzarli “per gli esperimenti bellici”. «Forse il legislatore però in questo punto» conclude Cozzi, «dimentica il ruolo essenziale che gli animali avrebbero invece per aiutarci a difenderci da un eventuale attacco biologico, che non si può certamente escludere nell’attuale clima politico internazionale». Anche in questo caso, con l’attuale legge italiana, davanti a un’epidemia volutamente scatenata da un Paese ostile o da un gruppo terroristico, non avremmo potuto appellarci agli scienziati per trovare un antidoto, un rimedio o un vaccino. «È davvero triste che occorra un’autorità superiore come l’Europa per riportarci alla ragione e ricondurre in un ambito internazionale un grande Paese che a volte sembra in balia di minoranze rumorose» conclude Giuseppe Remuzzi, coordinatore delle Ricerche dell’Istituto Mario Negri di Bergamo e professore di nefrologia dell’Università di Milano. 

Pubblicato su Research 4 Life

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