fbpx Scimmie nei laboratori: se ne potrebbe fare a meno? | Scienza in rete

Scimmie nei laboratori: se ne potrebbe fare a meno?

Tempo di lettura: 7 mins

I National Institutes of Health statunitensi hanno stabilito per il 7 settembre la data di un workshop che metterà a confronto esperti di scienza, politica, etica e benessere animale sull’uso dei primati non umani nella ricerca. Il tema, nello specifico, è delicato, e talvolta suscita dubbi anche in chi non trova ragioni sufficienti per opporsi in generale alla sperimentazione su altri animali da esperimento, come i roditori. Maggiore infatti è la somiglianza genetica e comportamentale di una specie con quella umana, maggiore si ritiene possa essere l’affidabilità nel predire ciò che si potrà verificare nell’umano. Ma, di pari passo, crescono anche le reazioni emotive e i dubbi etici sulla liceità di questa ricerca, che qualcuno, in un’ottica antispecista, paragona agli esperimenti condotti in passato su individui considerati inferiori.

Il dibattito è acceso, e il convegno di settembre è stato organizzato proprio per rispondere alle richieste di un gruppo di deputati del Congresso degli Stati Uniti, sulla scia del confronto che si è verificato negli ultimi mesi tra organizzazioni animaliste come PETA (People for the Ethical Treatment of Animals) a confronto con Francis Collins, direttore del grande centro di ricerca.

Forse anche in risposta a queste pressioni, oltre che per gli altissimi costi del mantenimento di questi animali, alla fine dell’anno scorso, con la conclusione degli ultimi programmi di ricerca sugli scimpanzé, gli ultimi esemplari rimasti a Bethesda sono stati reimmessi in ambienti semi-naturali protetti chiamati “santuari”. Non comunque in una foresta africana, dove questi animali non sarebbero in grado di sopravvivere. Per lo più infatti si tratta di animali nati in cattività, e cresciuti in condizioni controllate, che li rendono molto più adatti alla ricerca rispetto a quelli che fossero eventualmente catturati e sottratti al loro ambiente naturale.

“I partecipanti al convegno di settembre discuteranno del quadro di vigilanza che governa l’uso dei primati non umani nella ricerca biomedica e comportamentale finanziata dagli NIH” ha spiegato Carrie D. Wolinetz, direttore associato per la Politica della Scienza del centro di ricerca più importante del mondo.
“Si discuterà anche dello stato della scienza che coinvolge primati non umani come modelli per la ricerca e dei principi etici su cui si basano gli attuali regolamenti e le politiche sul loro benessere”.

Il meeting sarà all’insegna della massima trasparenza: non solo sarà trasmesso in diretta via streaming, ma accoglierà domande, commenti, obiezioni e spunti di riflessione da parte del pubblico attraverso un modulo online disponibile fin d’ora e attivo per tutta la durata del convegno.

I primati non sono tutti uguali

Per seguire il dibattito, occorre capirsi su cosa si intende per “primati non umani” e distinguere tra scimpanzé e macachi. “Per chi ha l’inglese come madrelingua è più facile” spiega Augusto Vitale, etologo dell’Istituto Superiore di Sanità, tra i maggiori esperti italiani di primatologia: “Le cosiddette ‘grandi scimmie’, o ‘scimmie antropomorfe’, quelle più simili all’uomo, sono definite in inglese con un termine, ‘ape’, completamente diverso da ‘monkey’, che designa tutte le altre”. Per gli italiani è più facile confondersi, o sottovalutare la differenza che c’è tra un macaco e uno scimpanzé, tra cui passa, dal punto di vista genetico, una differenza maggiore di quella che corre tra uno scimpanzé (o un gorilla, un orango, o un bonobo) e un essere umano.

“Tuttavia, bisogna stare attenti a pensare che la maggiore affinità genetica garantisca la superiorità di un modello sperimentale su un altro” precisa l’esperto. “Nei fatti non è sempre così”.

Ma la ricerca sui primati non umani è ancora attuale. “In particolare, ha suscitato molto interesse il lavoro dei ricercatori cinesi che hanno annunciato su Nature di aver creato un nuovo modello animale, con scimmie geneticamente modificate in modo da manifestare i sintomi dell’autismo e di trasmettere queste caratteristiche alla prole” prosegue Vitale.

Il risultato potrebbe aprire nuove linee di ricerca nei confronti di questa condizione ancora per molti versi poco chiara, così come si sta cercando di fare con altre malattie, dall’Alzheimer al Parkinson. Quest’ultima già oggi si tratta con stimolazioni elettriche attraverso elettrodi impiantati nel cervello, un metodo messo a punto nelle scimmie. “Attenzione però a non pensare che i risultati scientifici ottenuti sui primati non umani si applichino direttamente all’uomo” mette in guardia Vitale.“Occorre dimostrare caso per caso che sia così”.

I limiti economici sono i più vincolanti

L’ultimo rapporto ufficiale sull’uso degli animali per la ricerca in Europa mostra che i primati non umani rappresentano solo lo 0,01% del totale. “In Italia si usano circa 450 scimmie l’anno, l’80 per cento delle quali per studi di tossicologia” dice Vitale. La normativa europea infatti prevede che per ogni farmaco o altra sostanza di cui si debba dimostrare la sicurezza per l’uomo vengano prodotti dati ottenuti sia nei roditori, sia in altri animali che possono essere conigli, cani o, in un minor numero di casi, primati, qualora i meccanismi coinvolti lo richiedano.

La quota di scimmie utilizzate per scopi di ricerca vera e propria quindi è veramente minima, anche a causa dei loro costi. E in Europa comunque non si utilizzano scimmie antropomorfe.

“Nel mio laboratorio usavamo una ventina di piccole scimmie sud-americane (scimmie marmoset) che usavamo per studi non invasivi, di tipo comportamentali, ma abbiamo dovuto cederle proprio perché la loro gestione era diventata insostenibile” aggiunge Vitale.

“Quando Collins dice di aver sospeso la ricerca con gli scimpanzé agli NIH per ragioni economiche può essere creduto” spiega Luca Guidotti, vice direttore scientifico dell’Ospedale San Raffaele. “Con ogni scimpanzé, che costa in media 500.000 dollari, si poteva fare un solo esperimento durante la vita dell’animale. Dopodiché non si poteva mai sopprimerlo, ma andava mantenuto per tutta la vita in condizioni ottimali, con grandissime spese di gestione. In alternativa, si usano quindi i macachi, che non sono scimmie antropomorfe e costano circa 20.000 euro per esemplare: comunque un grosso impegno economico per la maggior parte dei centri di ricerca”.

Dalla poliomielite a zika

Se ci fossero metodi alternativi più economici, ovviamente tutti li preferirebbero. Eppure, ancora oggi, per garantire la sicurezza di molte sostanze o studiare molte malattie non esistono altri modelli. “Non occorre risalire al flagello della poliomielite, quasi estirpato dall’umanità grazie a decine di migliaia di scimmie utilizzate dagli inventori delle vaccinazioni antipolio. Anche oggi, non avremmo il vaccino contro l’epatite B, se non avessimo usato gli scimpanzé, unici animali oltre all’uomo che vengono infettati da HBV” commenta Guidotti. E se finalmente l’ipotesi di un vaccino contro l’AIDS sembra più realistica, è anche merito dei macachi utilizzati per esempio per la ricerca appena pubblicata su Nature Medicine, a opera di un gruppo internazionale che comprende anche molti italiani.  “Lo stesso vale per i nuovi farmaci contro l’epatite C: senza gli scimpanzé, agli ammalati che ne sono colpiti non potremmo offrire altro che l’interferone, come un tempo, nella speranza di ottenere piccoli miglioramenti a costo di gravi effetti collaterali” aggiunge Guidotti. “Se non avremo più scimpanzé da usare per la ricerca, dopo la rinuncia degli NIH, come faremo se emergerà un nuovo virus che infetti solo quelli, oltre all’uomo?”

Malattie da curare infatti ne restano molte, e nuove minacce continuamente compaiono all’orizzonte: l’esempio più recente è quello del virus zika, che dal Brasile sta mettendo in scacco tutto il sud e centro America.

Mentre migliaia di donne stanno concependo e mettendo alla luce figli con gravi malformazioni in qualche modo legate all’infezione, c’è una lunga serie di domande urgenti a cui rispondere: qual è il rischio di un’infezione in gravidanza e in quali sue fasi, per poter consigliare le donne in maniera informata; quali sono i meccanismi utilizzati dal virus per bloccare lo sviluppo cerebrale del feto, per poter eventualmente intervenire a fermarlo; qual è il tallone d’Achille del virus, per bloccarne la replicazione; e soprattutto, come mettere a punto a tempi di record un vaccino che consenta di riprendere una vita normale di relazione nei Paesi colpiti, riaprendo la possibilità di pensare a un figlio solo come a un lieto evento? 

Per tutto questo, moltissimi laboratori in tutto il mondo stanno studiando la malattia sui roditori, ma ancora più preziose sono le informazioni che si stanno raccogliendo sui macachi.  Speriamo che presto comincino ad arrivare le risposte.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

La COP29 delude. Ma quanti soldi servono per fermare il cambiamento climatico?

Il presidente della COP 29 di Baku, Mukhtar Babayev, chiude i lavori con applausi più di sollievo che di entusiasmo. Per fortuna è finita. Il tradizionale tour de force che come d'abitudine è terminato in ritardo, disegna un compromesso che scontenta molti. Promette 300 miliardi di dollari all'anno per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare la transizione, rimandando al 2035 la "promessa" di 1.300 miliardi annui richiesti. Passi avanti si sono fatti sull'articolo 6 dell'Accordo di Parigi, che regola il mercato del carbonio, e sul tema della trasparenza. Quella di Baku si conferma come la COP della finanza. Che ha comunque un ruolo importante da giocare, come spiega un report di cui parla questo articolo.

La COP 29 di Baku si è chiusa un giorno in ritardo con un testo variamente criticato, soprattutto dai paesi in via di sviluppo che hanno poca responsabilità ma molti danni derivanti dai cambiamenti climatici in corso. I 300 miliardi di dollari all'anno invece dei 1.300 miliardi considerati necessari per affrontare la transizione sono stati commentati così da Tina Stege, inviata delle Isole Marshall per il clima: «Ce ne andiamo con una piccola parte dei finanziamenti di cui i paesi vulnerabili al clima hanno urgentemente bisogno. Non è neanche lontanamente sufficiente.