Lo screening neonatale non è un momento diagnostico fine a se stesso, ma un percorso che porta un beneficio di salute al piccolo paziente e alla sua famiglia, in senso lato a tutta la popolazione. Le sue prospettive sono in continua crescita, ma è importante che la complessità dello scenario non sia un ostacolo a cogliere tutte le opportunità di diagnosi e trattamento precoce. Molto dipende dall’innovazione in laboratorio e dall’introduzione di normative adeguate. La nuova legge italiana lo screening neonatale obbligatorio (167/2016), entrata in vigore lo scorso 15 settembre e ora in attesa di inserimento nei Livelli essenziali di assistenza (LEA), pone la questione di quali e quante condizioni e malattie potranno essere coperte dagli esami al momento della nascita.
Ne abbiamo parlato con Giancarlo La Marca, responsabile del Laboratorio di Screening neonatale, Biochimica e Farmacologia dell’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze, un’eccellenza a livello internazionale in questo campo. “Il fatto che si utilizzi una sola goccia di sangue non deve trarre in inganno: lo screening è un programma complesso, in grado di fare diagnosi precoce di qualche decina di malattie congenite, e articolato, che parte dall’informazione dei genitori implica la formazione degli operatori, comprende ovviamente il momento diagnostico di laboratorio, prosegue eventualmente con test di conferma e si completa con la presa in carico del neonato identificato con il test di primo livello. Le ricadute dello screening vanno anche oltre, se si pensa che diagnosticare una malattia in un neonato si può tradursi per la coppia di genitori in precise indicazioni per le successive gravidanze nell’ambito di un intervento di counselling prenatale”.
Lo screening neonatale oggi
Quello che resta ben saldo da anni è il razionale: fare diagnosi precoce di malattie congenite da deficit enzimatico, che se non vengono individuate nelle primissime fasi della vita portano ad alterazioni funzionali e organiche irreversibili e in alcuni casi anche alla morte precoce. Molto precoce. La comparsa di un sintomo clinico segna il ritardo, il danno è fatto.
“I criteri di Wilson e Jungner pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità alla fine negli anni ’60 sono stati sottoposti a diverse revisioni anche recenti ma sono sempreverdi: lo screening ha senso se la malattia rappresenta un problema di salute consistente per la società, se esiste un periodo di latenza tra nascita e malattia che ne permetta la diagnosi tramite un marcatore di adeguata accuratezza e che sia disponibile un’opzione terapeutica, non necessariamente risolutiva, ma capace almeno di aumentare l’aspettativa di vita o di migliorare la qualità della vita” prosegue la Marca. Uno dei cambiamenti più rilevanti che ha amplificato il ruolo dello screening neonatale e incrementato l’offerta del pannello riguarda le maggiori disponibilità di nuove opzioni terapeutiche: le terapia enzimatica sostitutiva, la terapia genica, il trapianto di midollo, per citare le più promettenti. Un altro cambiamento sta nella ricerca clinica finalizzata che porta all’individuazione di nuovi biomarcatori e allo sviluppo di corrispondenti nuovi metodi diagnostici. Alcuni di questi sono stati messi a punto proprio nel laboratorio del Meyer.
“Il fatto che molte delle malattie rare oggetto di screening rientri nel capitolo delle malattie rare non contraddice il requisito legato al problema di salute consistente” precisa l’esperto. Infatti i disordini congeniti del metabolismo identificabili oggi con lo screening neonatale esteso, nel loro insieme hanno un incidenza di un caso ogni circa 2mila nuovi nati. Considerando anche fibrosi cistica, ipotiroidismo congenito e altre endocrinopatie abbiamo un caso ogni 300-400 nuovi nati; il dato è di per sé consistente.
Questo è vero per la popolazione caucasica, ma non va trascurata l’incidenza di questi difetti in alcune zone specifiche dove c’è un’aggregazione in pochi nuclei familiari. Qui l’impatto anche di una singola malattia può essere drammatico.”
I numeri dello screening, tra grandi classici e new entry
A partire dagli anni ’90, quando è stata introdotta nei laboratori clinici di tutto il mondo la spettrometria di massa tandem (MS/MS), sensibile, specifica e versatile, in grado di dosare più metaboliti in una sola procedura analitica di pochi minuti, i pannelli internazionali si sono sempre più arricchiti. Il salto iniziale è stato dalla classica triade (fenilchetonuria, ipotiroidismo congenito e fibrosi cistica) a 30 malattie, nell’ultimo decennio la ricerca si è estesa a circa 40 condizioni, oggi si è vicini, almeno in linea teorica, a 60.
La composizione del pannello non è però uguale in tutto il mondo, in virtù delle diverse strategie locali e nazionali. Negli Stati Uniti per esempio sono incluse 58 malattie (31 condizioni primarie) selezionate nel 2015 dall’American College for Medical Genetics. In Canada l’offerta oscilla da 5 a 38 condizioni, in Australia le linee guida si concentrano su 25 condizioni. In Europa la situazione, per quanto disciplinata da raccomandazioni generali condivise, è ancora più complicata ed è persino variabile (dalla 36a alla 168a ora) il momento del prelievo su carta assorbente, universalmente noto come test di Guthrie.
Se si prendono in considerazione, le malattie da accumulo lisosomiale, è ragionevole ipotizzare che il pannello sia destinato a crescere ancora: nel gruppone di 50 malattie descritte (incidenza complessiva di un caso ogni 1.500-1.700 nati vivi), al momento solo per 10-15 è già disponibile o in fase molto avanzata di sperimentazione la terapia enzimatica sostitutiva o la terapia genica.
Ragionando su questa frazione, va detto che i farmaci orfani per la terapia sostitutiva sono in grado di modificare il corso naturale della malattia, ma hanno il limite di non passare la barriera emato-encefalica e quindi di non avere alcun impatto sull’accumulo di metaboliti a livello del tessuto cerebrale.
A questo proposito va aggiunto che ci sono sempre più studi scientifici che stanno dimostrando l’efficacia di piccole molecole dette “chaperone” e di molecole dette “inibitori di sintesi”, che passando la barriera, potenziano l’attività dell’enzima residuo (se presente) le une, oppure bloccano almeno in parte la sintesi delle sostanze tossiche le altre.
Le manifestazioni cliniche sono diverse per ciascuna di queste condizioni ereditarie, ma le regole generali valgono sempre: il neonato nasce sano e in un momento qualsiasi fra i primissimi giorni e i primi anni di vita si manifestano le alterazioni di organi e sistemi che il trattamento precoce può evitare o arrestare.
Qual è stato il contributo della ricerca italiana? “Per raggiungere questo obiettivo nel 2009 abbiamo sviluppato una procedura analitica capace di identificare in circa 4 minuti 5 deficit enzimatici sulla goccia di sangue prelevata per lo screening poi esteso a 6" spiega La Marca. "Questo nuovo test permette di fare diagnosi della malattia di Pompe, della malattia di Gaucher, della malattia di Fabry, della malattia di Niemann-Pick (tipi A e B), della malattia di Krabbe e della malattie di Hurler. Una bella alternativa rispetto alle metodiche prima disponibili, lunghe, complesse e decisamente più costose.”
Alcuni paesi hanno già incluse alcune malattie da accumulo lisosomiale nei pannelli di screening neonatale, altre lo faranno a breve o hanno lanciato progetti pilota. Dal 2015-2016 negli Stati Uniti sono entrate nello screening neonatale la glicogenosi di Pompe e della mucopolisaccaridosi di tipo 1 (Hurler). Per la glicogenosi di Pompe sono stati avviati progetti pilota a Taiwan e in Australia.
In Europa, i progetti pilota, tra cui quello triennale (2014-2017) della Regione Toscana riguardano, oltre a queste stesse due malattie, quella di Fabry. Anche la Regione Veneto nel 2015 ha iniziato un progetto pilota per 4 malattie da accumulo lisosomiale (le 3 della Toscana e in più la malattia di Gaucher)
Giocare d'anticipo con le immunodeficienze gravi
L’altro grande capitolo riguarda le immunodeficienze gravi combinate (SCID) condizioni ereditarie che interessano ogni anno circa 6 milioni di neonati nel mondo, oltre 5mila in Italia. Questi bambini con deficit dell’immunità innata e/o adattiva nascono apparentemente sani e protetti dagli anticorpi materni. Ma al primo contatto con un agente infettivo, il difetto numerico o funzionale dei linfociti T e/o B, mette in crisi il loro organismo, in assenza di trattamento, li può portare alla morte dopo pochi giorni o mesi, invariabilmente entro i primi due anni. Poiché sono disponibili una molteplicità di cure dalle più tradizionali come le immunoglobuline e gli antivirali, alle più innovative, e risolutive, come il trapianto di midollo o la terapia sostituiva con enzima ricombinante, le SCID entrano a pieno titolo nello screening neonatale.
L’immunodeficienza severa combinata da deficit di adenosina deaminasi (ADA-SCID), autosomica recessiva, è una delle forme più frequenti, rappresentando fino al 20% dei casi complessivi di SCID. Nella forma tipica la carenza dell’enzima è diagnosticabile alla nascita e il grave deficit immunologico si accompagna a disturbi cognitivi, sensoriali e alterazioni scheletriche. Lo studio di un caso di ADA SCID in un bambino di 20 giorni è stata l’occasione per il gruppo del Meyer di mettere a punto il passaggio dal test diagnostico sulle urine al test di screening sul sangue.
Un’altra forma di SCID è il deficit di purina nucleotide fosforilasi (PNP), anch’essa autosomica recessiva, caratterizzata da infezioni respiratorie ricorrenti che si accompagnano ad alterazioni neurologiche e a manifestazioni di autoimmunità.
Spiega La Marca: “Poiché in alcune forme a esordio tardivo, probabilmente più frequente di quanto si creda, alla nascita i linfociti sono maturi, si utilizza un test di biologia molecolare che si basa sulle identificazione con tecniche di amplicazione genica (PCR real time) di piccoli frammenti di DNA circolanti indicatori di non completa maturazione dei linfociti. Più in dettaglio per i linfociti T si tratta dei TREC (T-cell receptor excision circle) e per le cellule B dei KREC (kappa-deleting recombination excision circle). In alcune forme di SCID con fenotipo più lieve, può essere alterato anche uno solo dei due test TREC/KREC; l’utilizzo di entrambi i metodi contemporaneamente consente di migliorare la sensibilità di diagnosi, ma non raggiunge comunque una specificità e sensibilità del 100%. Alla ricerca di un approccio alternativo, abbiamo sviluppato e validato un nuovo metodo in spettrometria di massa, un grado di identificare i metaboliti (derivati nucleosidici di base azotate) presenti nelle due forme di SCID”.
Un cenno, infine alle leucodistrofie. Tra queste la adrenoleucodistrofia legata all’X ha una frequenza di un caso ogni 17.000 nuovi nati. Il difetto della beta-ossidazione degli acidi grassi a catena lunga si traduce in demielinizzazione a livello del sistema nervoso centrale e in atrofia delle ghiandole surrenali. Il deficit enzimatico di arilsulfatasi A, tipico della leucodistrofia metacromica, porta all’accumulo nei tessuti di ceramidi. Esistono diversi fenotipi con esordio in momenti diversi della vita, tutti accomunati da un grave danno a livello del sistema nervoso centrale e periferico.
Secondo l’esperto fiorentino, “le leucodostrofie rappresentano un quadro futuribile ma di un futuro molto vicino. Entrambe le forme hanno ottime possibilità di cura con il trapianto di cellule staminali mentre la terapia genica è già realtà per la leucodistrofia metacromica. E’ pertanto veramente interessante avere la possibilità di individuarle con lo screening neonatale in tempo utile prima del danno d’organo scritto nella storia naturale di queste malattie. Nel caso della adrenoleucodistrofia legata all’X è anche utile studiare le femmine portatrici eterozigoti che talvolta hanno un test falsamente negativo o sono del tutto asintomatiche. Per quanto riguarda la leucodistrofia metacromatica, gli ostacoli che si stanno affrontando riguardano la disponibilità di uno screening capace di discriminare con adeguata accuratezza i casi di malattia, da quelli con deficit parziale dell’enzima (sufficiente per evitare le manifestazioni cliniche) e i soggetti normali”.
L’attività del Laboratorio del Meyer ha dato contributi importanti nel contenere i test falsi positivi e falsi negativi, senza dubbio i più grossi problemi legati allo screening neonatale, come spiega La Marca: “I falsi positivi e i conseguenti richiami generano stress nei genitori e fanno lievitare i costi sanitari. A titolo di esempio, abbiamo sviluppato un secondo test (da eseguire dunque sullo stesso campione prelevato senza effettuare il richiamo) per il riconoscimento delle acidemie metilmalonica e proprionica tramite il dosaggio dell’acido metilmalonico e dell’acido propionico liberi che ha permesso di azzerare i richiami dovuti al metabolita aspecifico propionil carnitina. In presenza di un possibilità di trattamento, i falsi negativi rappresentano invece un’occasione mancata. L’esempio più rappresentativo riguarda forse tirosinemia di tipo I, che fino al 2007 con il dosaggio in spettrometria di massa sfuggiva in 8 casi su 10. La diagnosi pertanto era quasi esclusivamente clinica, dopo manifestazione dei sintomi e spesso in fase avanzata di malattia. Al Meyer abbiamo sviluppato e validato una procedura analitica, oggi brevettata e utilizzata nei pannelli internazionali, che ha reso il metabolita succinilacetone (marcatore primario della malattia) facilmente identificabile durante lo screening neonatale”.
La variegata situazione italiana
In Italia la normativa sugli screening neonatali è disciplinata dalla legge 502 del 1992 che rende obbligatorio solo lo screening della fenilchetonuria, dell’ipotiroidismo congenito e della fibrosi cistica. A distanza di 24 anni dall’entra in vigore c’è copertura completa solo per le prime due condizioni, mentre questo obiettivo non è ancora stato raggiunto per l’ultima. La Toscana e l’Umbria sono state le prime regioni italiane ad adeguarsi ai protocolli internazionali adottando un pannello allargato per più di 40 malattie.
“Tutto è iniziato negli anni 2001-2004 con un progetto pilota, cui è seguita la delibera regionale n. 800 del 2 agosto 2004 che ha sancito l’obbligatorietà dello screening per i nuovi nati dal 1° novembre di quell’anno – si parla di 30-38 mila assistiti l’anno – individuando nel Meyer il centro di riferimento. Dal 1° gennaio 2006 si è unita la Asl 1 della Regione Umbria e, a distanza di 4 anni esatti, tutta la Regione Umbria, portando il numero dei neonati sottoposti a screening a 40-42mila ogni anno”.
Nel 2011 la regione Toscana ha avviato un progetto pilota l’ADA SCID. Come già accennato progetti pilota per le malattie da accumulo lisosomiale sono attivi in regione Toscana (dal 2014) e in regione Veneto (dal 2015).
Considerando lo scenario nazionale emerge peraltro che pochi dei progetti pilota partiti nel tempo si sono convertiti in provvedimenti regionali operativi. Nel 2014 la copertura si collocava intorno al 30%, nel 2015 era salita al 43%. Si osservano però variabilità significative su base geografica. Fa riflettere il fatto che tale variabilità sia presente fra città e città della stessa regione e perfino tra Asl e Asl della stessa città. Questo configura un problema di equità nell’accesso allo screening neonatale.
La legge che rende lo screening obbligatorio su tutto il territorio nazionale è stata approvata il 4 agosto 2016 (167/2016) ed è diventata esecutiva lo scorso 15 settembre. E’ previsto che gli screening siano inseriti nei livelli essenziali di assistenza (LEA) entro il 15 novembre prossimi, sempre che si superi l'ostacolo della copertura economica.
“Legge nazionale e inserimento nei LEA sono segnali favorevoli, perché prima d’ora la copertura dello screening così come dei test di conferma era di competenza del sistema sanitario regionale. Questo ha portato in alcuni casi a un blocco dell’implementazione dei programmi di screening neonatali, giustificato dalla mancanza di fondi regionali. E’ possibile che, nelle more, un decreto del Ministro della Salute consenta di guadagnare tempo e probabilmente consenta anche di recuperare circa 25 milioni di euro stanziati negli anni precedenti con la leggi di stabilità e mai utilizzati (anni 2014-2016). Ci sarebbe però una criticità: la forma sperimentale dell’implementazione che non implicherebbe l’obbligatorietà. Personalmente continuo a sperare che questo obiettivo venga centrato pienamente, data l’importanza dello screening neonatale sia per il paziente (in termini di salute), sia per la società (in termini di risparmi di risorse)” concude La Marca.
Bibliografia
Una rassegna delle principali
pubblicazioni sullo screening neonatale del gruppo di ricerca del Laboratorio
di Screening neonatale, Biochimica e Farmacologia dell’Ospedale pediatrico
Meyer di Firenze (ordine cronologico):
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