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Cosa fare prima e dopo il terremoto

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Il sisma che ieri ha scaricato la sua energia mortale fra Marche e Umbria ripropone il tema della prevenzione e - più nell'immediato - dell'early warning. “A terra! Copriti! Tieniti forte!”. E' questo in sostanza ciò che va fatto quando un sistema di early warning emette il suo segnale di allarme annunciando l’imminente arrivo di un terremoto. Il tempo di preavviso di questi sistemi (letteralmente sistemi di allarme precoce) può variare da decine di secondi a pochi minuti. Un tempo da molti ritenuto fondamentale per ripararsi sotto un tavolo e proteggersi dalla caduta di oggetti e dai crolli interni agli edifici. 

I paesi a più alto rischio sismico hanno investito per sviluppare e rendere operativi i sistemi di allarme precoce. Il programma più avanzato è quello giapponese[1]. Operativo dal 2007, il programma si basa sui segnali degli oltre mille sismografi presenti sul territorio nazionale. Questi permettono di rilevare gli scuotimenti causati dalle onde P, le onde meno dannose ma che si propagano velocemente dall’epicentro. Alle onde P seguono le onde S, con una velocità di propagazione più bassa ma responsabili dei danni più importanti. Alle 2h43 e 48 secondi del pomeriggio dell’11 marzo 2011 il sistema ha fatto suonare l’allarme su smartphone, TV, e altoparlanti di scuole e fabbriche giapponesi, non appena ha rilevato le onde P.  Le onde S hanno raggiunto la città di Sandai, a 130 chilometri dall’epicentro, 32 secondi dopo, e Tokio, situata a 370 km dall’epicentro, in circa 90 secondi. 

Shake Alert[2] è invece il programma di early warning sviluppato negli Stati Uniti dall’istituto di geofisica nazionale, lo USGS. Quando nell’aprile del 2014, un terremoto di magnitudo 6 ha colpito il nord della California, i cittadini di San Francisco, distanti dall’epicentro circa 60 km, sono stati avvisati che dopo 8 secondi sarebbero stati raggiunti da un sisma di magnitudo 5.4. 

Tuttavia l’efficacia degli allarmi sismici non dipende solo dalla distanza dei centri abitati dall’epicentro, ma anche dalla consapevolezza dei cittadini sui comportamenti da tenere in caso di allarme. Un anno fa l’azienda Guardian ha pubblicizzato, sulle reti televisive italiane, l’apparecchio Sismalarm. Si tratta di un economico dispositivo installabile in ogni casa che “avverte in caso di onda sismica”. L’amministratore delegato dell’azienda, intervistato, ha dichiarato “Una volta scattato l'allarme le persone hanno il tempo necessario per evacuare l'edificio o mettersi al riparo da eventuali crolli.” Abbandonare l’edificio è in assoluto il comportamento più pericoloso in caso di terremoto imminente. Il progetto REAKT[3] (Strategies and tools for Real Time EArthquake RisK ReducTion), finanziato dall’Unione Europea, ha portato al primo prototipo europeo di sistema early warning, sperimentato in un liceo di Somma Vesuviana. Studenti e docenti sono stati coinvolti nelle esercitazioni al suono delle Sentinelle. È importante però, come sottolinea Alessandro Amato[4], che questi sistemi non sottraggano attenzione sulle azioni di prevenzione del danno sismico, prima tra tutte l’edilizia antisismica.

Chiara Sabelli

Bibliografia
[1] http://www.jma.go.jp/jma/en/Activities/eew1.html
[2] http://www.shakealert.org/
[3] http://www.reaktproject.eu/
[4] http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/alessandro-amato/terremoti-prevenire-o-scappare/dicembre-2014

 

In Friuli, quarant'anni dopo

Ore 20:59, una leggera scossa scuote il Friuli centro-settentrionale. Ore 21:02, la leggera scossa si rivela per quello che è, ossia l'anticipazione di una terremoto devastante. In effetti, uno dei più distruttivi della storia italiana. È il 6 maggio 1976; abbiamo celebrato da poco i quarant'anni da questa data.

I comuni coinvolti sono stati 137, tutti fra Udine e Pordenone; gran parte di questi è stata letteralmente rasa al suolo. Come Gemona, situata proprio all'epicentro del terremoto. Il terremoto del Friuli ha obbligato più di 100 mila persone ad abbandonare le loro case. Di queste abitazioni, 18 mila furono completamente distrutte, 75 mila rimasero danneggiate. Vi furono 3000 feriti e 990 morti. L'ultima vittima è riemersa solo poco tempo fa, racconta un articolo su La Stampa. Si chiamava Pietro Puppo ed era un capotreno sessantenne, rimasto ucciso da una pietra caduta da una canna fumaria sulla sua macchina. Il suo nome non compariva nelle liste ufficiali. 

La tradizione popolare friulana ha un personaggio particolare, chiamato "Orcolat". Si tratta di un essere mostruoso che vive imprigionato nelle montagne della Carnia; agitandosi, provoca i terremoti. Nel maggio 1976, l'Orcolat ha avuto una magnitudo di 6.4° della scala Ritcher, che rappresenta una stima dell'energia sprigionata da un terremoto nel punto di frattura della crosta terrestre. Si tratta del terremoto più forte del secolo per l'Italia Settentrionale. A renderlo ancora più distruttivo sono stati l'età avanzata delle costruzioni, danneggiate nel corso di due guerre mondiali, e la posizione dei paesi colpiti, quasi tutti posti in altura. E il terremoto non si è accontentato di quella sera, perché due ulteriori scosse si sono fatte sentire a settembre, con altri crolli e altri morti.

Tuttavia, il motto di quei giorni è stato "com'era, dov'era". La ricostruzione fu impostata in modo da non ripetere "gli errori del Belice", l'area siciliana colpita meno di dieci anni prima da un terremoto di magnitudo 6.1, dove la ricostruzione non è mai terminata. In Friuli gli scioperi furono sospesi, le tasse congelate, mentre la popolazione si metteva al lavoro a fianco di vigili del fuoco e alpini. Dopo appena un paio di giorni dal disastro, il consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia mise a disposizione 10 miliardi di lire (circa 40 milioni di euro attuali) per la ricostruzione e l'assistenza. I fondi raccolti negli anni successivi vennero gestiti dagli enti locali, che effettuarono controlli rigorosi sugli standard di ricostruzione. In alcuni comuni, tra cui Gemona, la ricostruzione si basò sull'"anastilosi": tutti gli elementi architettonici non distrutti da sisma furono recuperati, e gli elementi mancanti sostituiti da altri chiaramente riconoscibili. 

La memoria di quanto avvenuto in passato resta così sempre viva. Ci sono voluti dieci anni per la ricostruzione completa: un buon modello, a anche se non esente da limiti, visto che le norme antisismiche adottate, a distanza di pochi anni, risultavano già da migliorare.

Anna Romano

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