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Piccole variazioni sulla comunicazione della scienza

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Nelle sue Piccole variazioni sulla scienza (Dedalo, 2016, pagg. 252, euro 17,50), Ignazio Licata, fisico teorico ed epistemologo, propone una definizione forte di scienza che interroga noi, giornalisti scientifici, perché implica una definizione forte di comunicazione della scienza al grande pubblico.

Quella che segue, dunque, non è una recensione dell’intero (godibilissimo) libro di Ignazio Licata, ma solo dell’Introduzione, tanto breve quanto succosa, dedicata a La scienza, tra pratica ed ideologia.

La scienza, tema principale della nostra cultura

Partiamo da un’affermazione per nulla scontata: “La scienza è il basso ostinato del tempo, il tema principale della nostra cultura”. Nulla di più vero. Sono almeno quattro secoli (dal Seicento) e forse ancor prima (il Rinascimento) che la scienza è il tema principale di quella cultura europea che si è poi affermata come la vena principale della cultura mondiale. E oggi, malgrado molte apparenze e molte fallaci letture sociologiche, la scienza è più che mai “il tema principale della nostra cultura”. Si badi bene, la scienza e non quella sua figlioletta gigante e invasiva che è la tecnologia.

Ignazio Licata individua nel Seicento il momento della rottura epistemologica, perché è in quel secolo, “intorno ai nomi di Galileo e Newton, che si è sviluppata una nuova consapevolezza culturale di pratiche e di metodi che avrebbe irreversibilmente cambiato il rapporto delle forze in campo”. Si può discutere se la scienza, anche nel suo significato epistemologico moderno, sia nata nel Seicento. Probabilmente il parto è avvenuto prima, già in epoca ellenistica. Sicuramente un’attività scientifica importante e, a tratti imponente, è avvenuta in epoche successive: nel mondo islamico, per esempio. Certamente la scienza è sbarcata in Europa tra il secolo XII (inizio delle traduzioni dall’arabo dei testi di autori ellenistici e islamici) e XIII (Fibonacci è stato il primo matematico creativo europeo e Federico II il primo scienziato naturale del continente). Certamente la scienza ha informato di sé le botteghe artigiane e artistiche fiorentine e poi italiane e poi europee nei due secoli (il XV e il XVI) che definiamo Rinascimento.

La consapevolezza culturale di un’eresia perenne

Tuttavia non c’è dubbio che è solo nel Seicento che si afferma definitivamente in Europa quella “consapevolezza culturale” di pratiche e di metodi che consentono ai filosofi naturali di regolare i conti con teologia e filosofia e di affermare l’autonomia di una cultura che si propone, afferma Licata “come eresia perenne, capace di rigenerarsi mettendo in discussione i saperi acquisiti e attardati per produrre conoscenza nuova, effettiva e condivisa”.

Arcipelago dinamico di conoscenze

Ma, qui è il punto, per Ignazio Licata la scienza si afferma non costruendo piramidi, ovvero salendo, per dirla con Alexandre Koyré, dal mondo del pressappoco a vette sempre più certe. Al contrario, la scienza è “un arcipelago dinamico di conoscenze variamente interconnesse tra loro, attraversate dalle correnti dell’incertezza, continuamente messe alla prova da movimenti tellurici piccoli e grandi”. La scienza non è dunque, come voleva una lettura agiografica della sua storia in voga in un passato tutto sommato recente, una cavalcata trionfale di conquiste sempre più grandi, sempre più precise. Ma, al contrario, è una trama di metodi che nelle più svariate direzioni propone domande e cerca di rispondere al meglio storicamente possibile cercando regole di corrispondenza tra “certe dimostrazioni” (teorie) e “sensate esperienze” (fatti sperimentali).

La scienza, dunque, come processo che avviene nella storia e anche profondamente intrecciato con la società, l’economia, la cultura generale del tempo. Quanto di più lontano dal modo astorico con cui ci viene proposta nei manuali a scuola e anche (e soprattutto) nelle università.

Comunicare la scienza in modo problematico

Ma la definizione di scienza come “arcipelago dinamico di conoscenze” non interroga solo gli autori dei manuali scolastici e universitari. Interroga tutti ad ampio spettro e ha come conseguenza una precisa modalità di comunicazione. Ignazio Licata, per esempio, critica in maniera esplicita e anche abbastanza dura la propensione di molti suoi colleghi scienziati che, in articoli e libri, propongono visioni del progresso scientifico lineare e agiografico (spesso auto-agiografico). E propone un tipo di comunicazione problematico, che non si limiti a proporre la notizia (con toni o trionfalistici o catastrofici), ma racconti il contesto, la rete di problemi che ha generato quella ricerca e ha consentito di raggiungere quel risultato.

Questa rete di problemi è oggi molto fitta, profondamente intrecciata con la società. Per cui dalle Piccole variazioni sulla scienza emerge la richiesta di una nuova figura di comunicatore, come intellettuale in grado di dipanare e riconnettere in tempo reale le fila dei processi scientifici nella loro molteplice dimensione: storica, filosofica, sociale, economica, politica.

L’intellettuale che (ancora) non c’è

Inutile dire che questa figura complessa di intellettuale (ancora) non c’è. E che il sistema dei media (compreso quello dei nuovi media) semplicemente lo rifiuta: chiedendo al contrario, nella precarietà dilagante del lavoro giornalistico, invece una comunicazione altra, la più semplice, lineare ed eclatante possibile.

Ecco perché è preziosa la proposta di Ignazio Licata. Perché ricorda ai comunicatori (a noi comunicatori) di cercare di navigare controcorrente per aiutare tutti a muoversi in quello che Italo Calvino definiva “il labirinto”.


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