fbpx Plancton, fragile sentinella del Pianeta | Scienza in rete

Plancton, fragile sentinella del Pianeta

Tempo di lettura: 10 mins

Fantasmi nelle acque

Plancton in greco antico vuol dire “vagabondi”. Lo zoologo tedesco Victor Hensen (1835-1924) usò questo termine per riunire sotto un'unica definizione quell'insieme di organismi acquatici per lo più trasparenti che vivono in balia delle correnti. Una densità corporea molto prossima a quella dell'acqua conferisce un elevato grado di galleggiamento ma anche una mobilità limitata agli esseri planctonici, che non possono nuotare controcorrente.

Il plancton include organismi diversissimi tra di loro, per forma e dimensione. Si va da esseri uni-cellulari osservabili solo al microscopio ad animali piuttosto grandi, come le meduse. In pratica, è come andare da un topo a un elefante. Inoltre, in un bicchiere di acqua di mare possono coesistere milioni di esseri appartenenti a migliaia di specie diverse. Molte di queste hanno il medesimo “ruolo ecologico” – ovvero, produttori primari, erbivori, predatori di altri esseri o consumatori di materia morta. Questa "ridondanza funzionale" affascina gli scienziati da molte decadi.

Aldilà però di aspetti scientifici, il plancton e Homo sapiens convivono inconsapevolmente da duecentomila anni. A tratti, nel corso dell'evoluzione culturale umana, il plancton si è mostrato a noi assumendo le sembianze di un fenomeno inspiegabile, di un fantasma, latore di minacce. Dal “sangue dei guerrieri Burgundi”, che riaffiorava ogni estate sulla superficie dei laghi dell'Europa centrale memore dei massacri perpetrati sulle loro rive, fino agli “spettri acquatici”, che brillavano di notte sulle spiagge dei Caraibi. Nel primo caso, mai bere quell'acqua avvelenata; nel secondo, era proibito raccogliere molluschi che si ritrovavano in quel "mare di luce".

Ctenoforo della specie Cestus veneris o “cinto di Venere”.

Poi venne il microscopio e sparirono questi “fantasmi” e con essi le minacce locali. Oggi sappiamo che il malefico sangue dei Burgundi altro non era che uno sviluppo massivo e periodico di cianobatteri tossici planctonici di rosso pigmentati e dotati di vescicole gassose. Spinte da queste ultime al galleggiamento positivo, i cianobatteri si accumulavano all'interfaccia acqua-aria, colorandola. Nel caso degli spettri caraibici, invece, si trattava di dinoflagellati, anch'essi tossici, anch'essi planctonici, ma bioluminescenti, cioè in grado di produrre luce attraverso una reazione chimica. Nel frattempo che il lume della scienza dipanava questi arcani, però, è arrivato anche lo sviluppo industriale, portando con sé minacce globali, delle quali messaggero è di nuovo il plancton.

Motori invisibili del Pianeta

Aldilà della sua inafferrabile natura e degli "enigmi" scientifici che esso ancora cela, appare evidente alla scienza che il plancton giochi un ruolo fondamentale nel funzionamento del nostro Pianeta, che ha una "fisiologia" per molti versi simile a quella del nostro stesso organismo.

Gli elementi chimici dei quali noi stessi siamo composti, come per esempio il carbonio, fluiscono attraverso il Pianeta Terra in maniera multi-direzionale, all'interno di un'intricata rete di trasporto che è in larga parte “invisibile”, ma che abbraccia in maniera strettissima l'atmosfera, la idro-sfera, la lito-sfera (ovvero quella geologica) e la bio-sfera. Quest'ultima include tutti gli esseri viventi, siano essi animali, vegetali o microbi, esseri umani compresi.

All'interno di questo fitto intrico di vasi comunicanti, frattali – poiché esistono vasi dentro vasi, flussi all'interno di altri flussi – una grossa parte dei "globuli" che consentono il trasporto degli elementi chimici da una “sfera” all'altra sono organismi planctonici. Questi esseri “invisibili” ma abbondantissimi nelle acque libere del nostro Pianeta, sono particolarmente sensibili ai cambiamenti. E, in virtù del loro livello d'integrazione nella "rete biogeochimica" planetaria, essi possono amplificare gli effetti di quegli stessi cambiamenti.

Elementi chiave nella vita (non solo) acquatica

Il plancton vegetale, o fitoplancton, un insieme di organismi unicellulari che include molti progenitori delle piante terrestri, è senza dubbio tra i globuli principali nel "sistema circolatorio di Gaia". Sul piano della quantità di carbonio totale, il fitoplancton che vive negli oceani è di circa 200 volte inferiore alle piante sulla Terra; nonostante ciò, per esso passa lo stesso quantitativo di carbonio che attraversa i vegetali terrestri. Cerchiamo di capire meglio.

Come avviene in altri organismi vegetali, il carbonio "inorganico" – in pratica, l'anidride carbonica e i suoi derivati, come i carbonati che si formano quando questo gas si dissolve nell'acqua – viene captato dal fitoplancton durante il processo di fotosintesi e trasformato, sfruttando l'energia solare, in carbonio "organico", ovvero zuccheri. Attraverso questi ultimi, il fitoplancton si "alimenta" e aumenta la propria biomassa. Questo carbonio, a differenza di quanto avviene nelle piante terrestri, dove esso rimane a lungo “stoccato” nel legno, resta nella biomassa del fitoplancton solo per poco tempo, perché può prendere rapidamente molte "vie". Una di queste è la catena alimentare acquatica.

Il plancton vegetale alimenta il plancton animale e quest'ultimo nutre i pesci, da quelli più piccoli a quelli più grandi, ma anche mammiferi marini, come le balene, e altri mammiferi, come l'uomo, che nell'acqua nemmeno vive. Il fitoplancton è l'innesco primario della maggior parte della vita acquatica, ma anche di quella terrestre, tenendo conto del fatto che la gran parte della popolazione mondiale si nutre di organismi acquatici. Per dare qualche numero, la produzione di mezzo chilo di alici ne richiede circa 2 di plancton animale, per produrre il quale sono necessari circa 10 chili di plancton vegetale. Questo perché una gran parte del carbonio che passa di bocca in bocca è usato per produrre energia e non biomassa. Dodici chili di plancton, per un solo “cuoppo” di alici.

E' solo un esempio, ma visto dalla prospettiva di un italico popolo mediterraneo che pesca alici da millenni, altro pesce azzurro o pesci di maggiori dimensioni in quantità non esigua, anche noi siamo fatti di plancton, ovvero del carbonio che partendo da essi ci nutre e costituisce. Ma esistono anche altre trame che legano il plancton al Pianeta e quindi a noi umani. Trame che tracciano il ciclo del carbonio, del quale abbiamo già parlato, e dell'ossigeno, per esempio.

Collegamento imprescindibile tra le “sfere”

Il fatto che il fitoplancton veicoli una quantità notevole di carbonio attraverso la fotosintesi ha altre importanti implicazioni: questa reazione chimica produce ossigeno, che si libera nell'idrosfera e, da qui, nella atmosfera. Gli esseri che vivono in ambiente sub-aereo, ovvero al disopra della litosfera, come gli stessi esseri umani, respirano ossigeno che viene, in egual misura, tanto dalle foreste quanto dal plancton.

Ma è, questo, un doppio scambio: così come le foreste sulle terre emerse, il plancton riceve anidride carbonica dagli esseri terrestri che "respirano via" questo gas, dopo averlo prodotto bruciando zuccheri nel fitto del metabolismo cellulare, per produrre energia. E questo aspetto ci porta verso altri flussi, come quelli che legano il plancton alla litosfera.

Per esempio, le diatomee planctoniche, alghe unicellulari delle dimensioni massime di mezzo millimetro e dotate di una parete cellulare di vetro, sono relativamente molto più pesanti dell'acqua e regolano attivamente il loro galleggiamento scambiando ioni con l'ambiente esterno. Al termine di un periodo di intensa fotosintesi, di aumento smisurato del numero di cellule in una popolazione, le diatomee diventano poco attive sul piano fisiologico e non riescono più a regolare il proprio galleggiamento. In tale condizione di "senescenza", esse affondano in massa e si depositano sui fondali oceanici a migliaia di metri di profondità, dove la carenza di ossigeno limita la decomposizione del carbonio che le costituisce.

Questo processo fa parte della cosiddetta "pompa biologica del carbonio", attiva a scala planetaria e attraverso la quale il carbonio viene "stoccato" per tempi geologici, ovvero milioni di anni. Ciò riduce la presenza di questo elemento nell'idro- e, di conseguenza, nell'atmo-sfera, due sfere vicendevolmente "permeabili" ai gas. Quando è in atmosfera, nella forma di anidride carbonica, il carbonio può comportare cambiamenti importanti nella fisiologia del pianeta: la CO2 è un importante gas serra, intercetta radiazione terrestre, trattiene energia nell'atmosfera, influenza le dinamiche climatiche.

Il solo modo che il nostro Pianeta ha per riportare in atmosfera il carbonio stoccato nelle profondità oceaniche grazie alla diatomee è attraverso lo slittamento della crosta oceanica al di sotto di quella continentale, la sua fusione all'interno delle profondità liquide della litosfera e l'emissione di anidride carbonica durante le eruzioni vulcaniche... oppure... oppure può farlo bruciando combustibile fossile attraverso le attività umane.

E qui subentra un elemento nuovo: l'insieme delle attività condotte dall'umanità per via del proprio livello di sviluppo culturale, sociale, produttivo, commerciale – ovvero, la cosiddetta “antropo-sfera”. Questa si è sviluppata molto più di recente rispetto alle altre “sfere” e la sua espansione ha un impatto sempre maggiore sui flussi di elementi chimici. Questo impatto è una concreta minaccia alla stabilità del sistema terrestre, perché colpisce in larga misura i nodi sensibili della rete biogeochimica, come appunto il plancton.

Quando l'uomo minaccia i “fantasmi”...

La principale perturbazione indotta dall'antroposfera sulle altre sfere del Pianeta è quella relativa al ciclo del carbonio, attraverso l'emissione di anidride carbonica in atmosfera, che è tale da non poter essere controbilanciata dalla captazione di questo gas da parte della biosfera attraverso la fotosintesi.

L'aumento di questo gas serra in atmosfera rende quest'ultima più calda e il calore in eccesso si trasmette all'idrosfera inducendo cambiamenti nella circolazione acquatica, in particolare in quella verticale, che è indispensabile al plancton vegetale per ottenere sostanze minerali dalle profondità dei bacini, da quelli lacustri a quelli oceanici. Acqua “stagnante” genera meno plancton vegetale, quindi meno richiesta di carbonio per la fotosintesi e, di conseguenza, più carbonio in atmosfera. Un circolo vizioso per il quale l'acqua diventa sempre più blu, il mare sempre più povero e l'atmosfera sempre più calda. Dal 1940 ad oggi, il plancton vegetale negli oceani è diminuito del 40%, con ogni probabilità a causa dei cambiamenti negli scambi di calore tra atmo- e idro-sfera indotti dalle emissioni carboniche da parte di H. sapiens.

Clorofilla annua globale = Fotosintesi acquatica globale annua. In rosso valori di clorofilla più elevati. (Dal sito della NASA).

Ma non sono solo questi gli effetti negativi sul plancton prodotti dall'espansione dell'antroposfera. Un punto di forza del plancton è la sua diversità, alla quale già accennavo all'inizio di questo articolo. Questa diversità conferisce a questa comunità ecologica una moltitudine di soluzioni funzionali alla vita, di risposte alle perturbazioni esterne; la diversità muove a favore della stabilità della comunità, perché le risorse disponibili sono condivise in maniera più efficiente.

La diversità del plancton è però minacciata da tanti fattori antropici. La crescente immissione di sostanze minerali derivanti da attività umane “fertilizza” le zone litorali e le acque interne favorendo specie “opportuniste”, limitando drasticamente la diversità all’interno della comunità planctonica. Ancora, i micro- invertebrati planctonici (come i piccoli crostacei noti come “copepodi”) possono intossicarsi nutrendosi di frammenti di plastiche di dimensioni inferiori di un millimetro, scambiandole per il loro cibo naturale, microalghe o protozoi. Ma gli esempi non finiscono qui e mi limito per brevità a citarne due tra i più eclatanti.

...i “fantasmi“ rispondono con minacce reali

In definitiva, il plancton è un’importante sentinella dello stato del Pianeta e mai come oggi questo è latore di minacce. In alcuni casi si tratta di minacce manifeste, che hanno un immediato effetto sulle stesse vite e attività.

Qualche esempio? Le fioriture di specie di fitoplancton produttrici di tossine che possono colpire drammaticamente le acquacolture. Oppure, le “invasioni” di ctenofori (organismi gelatinosi, anch'essi planctonici) che mettono a rischio la produzione ittica in ambienti confinati, come le lagune costiere, entrando in competizione con le specie ittiche, nutrendosi di micro-invertebrati planctonici e di larve di pesci.

Le cause scatenanti di tutte queste “piaghe” sono molteplici e sinergiche, dal cambiamento climatico, alla diffusione di fonti d'inquinamento lungo le coste, alla perdita di diversità planctonica alla diffusione di specie alloctone. Altre minacce potrebbero rendersi concrete in un futuro non troppo lontano.

Sentinelle fragili

Riassumendo: 1) il nostro Pianeta può essere decomposto in diverse "sfere"; 2) le sfere sono collegate tra loro da flussi di elementi chimici; 3) questi flussi sono alla base del "funzionamento" del Pianeta; 4) il plancton gioca un ruolo fondamentale in questo funzionamento.

Queste considerazioni derivano principalmente da due cose: 1) il livello di profondità dell'osservazione sperimentale dei fenomeni naturali a scale temporali lunghe, come quelle di molte generazioni umane, e 2) l'avanzamento delle nostre capacità predittive, ottenuto integrando tra loro quelle stesse osservazioni sperimentali, all'interno di modelli matematici. Dati e modelli ci dicono che il plancton tiene unite le “sfere” planetarie tra di loro. E per via del nostro impatto su questi organismi, ogni scompenso che induciamo sul loro stato e quindi sul funzionamento del Pianeta può ritornarci amplificato a causa delle caratteristiche, per nulla evanescenti, dello stesso plancton.

 

Bibliografia:

Falkowski, Paul G., and Avril D. Woodhead, eds. Primary productivity and biogeochemical cycles in the sea. Vol. 43. Springer Science & Business Media, 2013.

Boyce, Daniel G., Marlon R. Lewis, and Boris Worm. "Global phytoplankton decline over the past century." Nature 466.7306 (2010): 591-596.

D’Alelio, Domenico, Simone Libralato, Timothy Wyatt, and Maurizio Ribera d’Alcalà. "Ecological-network models link diversity, structure and function in the plankton food-web." Scientific reports 6 (2016).

Cover : Composizione di diatomee (microalghe unicellulari) al microscopio ottico. (Fotografia di Mimmo Roscigno).


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Perché ridiamo: capire la risata tra neuroscienze ed etologia

leone marino che si rotola

La risata ha origini antiche e un ruolo complesso, che il neuroscienziato Fausto Caruana e l’etologa Elisabetta Palagi esplorano, tra studi ed esperimenti, nel loro saggio Perché ridiamo. Alle origini del cervello sociale. Per formulare una teoria che, facendo chiarezza sugli errori di partenza dei tentativi passati di spiegare il riso, lo vede al centro della socialità, nostra e di altre specie

Ridere è un comportamento che mettiamo in atto ogni giorno, siano risate “di pancia” o sorrisi più o meno lievi. È anche un comportamento che ne ha attirato, di interesse: da parte di psicologi, linguisti, filosofi, antropologi, tutti a interrogarsi sul ruolo e sulle origini della risata. Ma, avvertono il neuroscienziato Fausto Caruana e l’etologa Elisabetta Palagi fin dalle prime pagine del loro libro, Perché ridiamo. Alle origini del cervello sociale (il Mulino, 2024):