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Quanti italiani rinunciano davvero alle cure?

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Ieri molti giornali e anche alcuni programmi televisivi hanno lanciato l’allarme: “12,2 milioni di italiani hanno dovuto rinunciare a curarsi”. Il dato, tratto dall'indagine CENSIS-RBM salute (una assicurazione sanitaria privata) peggiora la stima dell'anno scorso di 11 milioni. Una domanda sorge spontanea: si tratta di stime corrette?

Che il sistema sanitario italiano soffra di alcune problemi e che la popolazione oggi sia sempre più povera non è certo in discussione. Pare però necessario chiarire la situazione sull’accesso alle prestazioni. Anche per dare ai media gli strumenti per esercitare il loro mestiere in modo più consapevole.

Innanzitutto cosa si considera come cure? Quelle “mediche” relative alla prevenzione, diagnosi, terapia e riabilitazione o anche all’assistenza? C’è una rinuncia alle prestazioni che il Sistema sanitario nazionale dovrebbe garantire o ci si riferisce ai problemi di gestione del malato da parte della famiglia? E ancora: la rinuncia alle cure è rinuncia a tutte le cure o rinuncia a singole prestazioni o trattamenti?

Per illustrare la realtà con dati affidabili sono di certo aiuto sia le indagini multiscopo ISTAT sulla salute e il ricorso ai servizi sanitari, sia l’indagine europea sul reddito e le condizioni di vita delle famiglie (EU-SILC) della quale si dispongono dati sugli ultimi quindici anni relativi a un campione annuale superiore a quarantamila rispondenti. La domanda del questionario dell’indagine EUILSC presa in considerazione è riportata nella figura sotto.

Rinunciano alle cure 5 milioni, non 12

Sono meno di cinque milioni, cioè meno della metà delle stime dichiarate, gli italiani che hanno rinunciato a una o più prestazioni sanitarie, corrispondenti al 7.8% della popolazione.

Confrontando questo dato con le indagini gemelle condotte negli altri paesi, si scopre che la situazione italiana è sostanzialmente in linea con la media europea: Italia 7.8%, Svezia 9.2%, Francia 6.3%, Danimarca 6.9%, Germania 5.4%, eccetera (i valori sono riferiti al 2014 ed alla popolazione dai 16 anni in su aggiustata per età e genere sulla media europea).

Dai dati simili dell’Indagine multiscopo Istat sulla salute (120mila interviste) risulta innanzitutto che la frequenza di rinunce è proporzionale al numero di prestazioni avute, e cioè che chi rinuncia a una prestazioni ne ha per lo più avute altre e quindi invece che di rinuncia alle cure si dovrebbe parlare di rinuncia a singole prestazioni.

Un fenomeno in contrazione al centro Nord, in crescita al Sud

La percentuale di persone che dichiarano di aver rinunciata a una prestazione sanitaria inoltre è stabile da molti anni. Dietro questo elemento di stabilità a livello nazionale si cela il fatto che la rinuncia alle prestazioni sanitarie è diminuita negli ultimi anni nelle regioni italiane del Centro Nord ed è nettamente aumentata in quelle del Sud, un aumento che dal 2013 interessa maggiormente i più poveri. (figura 1)

Figura 1. Percentuale di rinuncia alle cure per regione. Anni 2004-2015. Fonte ISTAT - indagine EU-SILC.

I grafici riportati qui di seguito sono tratti dai dati delle indagini EUSILC relative agli anni 2005, 2008, 2011, 2014 e 2015. Si tratta delle percentuali grezze (che non tengono conto delle diverse distribuzioni per età dei gruppi) di coloro che hanno rinunciato a una prestazione sanitaria, distinti per situazione lavorativa, per qualsiasi ragione o per soli motivi economici.

Anche se la percentuale di rinuncia alle cure nel nostro paese è in linea alla media europea, il fenomeno in ogni caso è da tenere sotto controllo anche perché il confronto con gli altri paesi mostra che in Italia prevale maggiormente la motivazione economica alla rinuncia di prestazioni. Ci si deve chiedere anche se il fenomeno si sia aggravato o meno con la crisi economica.

I conti del Censis non tornano

Dal comunicato dell’indagine CENSIS-RBM salute si evince anche la seguente affermazione: “Più di un italiano su quattro non sa come far fronte alle spese necessarie per curarsi e subisce danni economici per pagare di tasca propria le spese sanitarie”. In termini percentuali, si affermerebbe quindi che oltre il 25% degli italiani ha difficoltà economiche derivanti da spese sanitarie.

Sempre l’indagine ISTAT EU-SILC formula un quesito sullo stesso tema in questi termini: “Negli ultimi 12 mesi, ci sono stati momenti o periodi in cui non aveva i soldi per pagare le spese per malattie?”. Coloro che hanno risposto affermativamente a questo quesito nel 2015 sono stati il 10,5%. Negli ultimi quindici anni la percentuale più elevati si è riscontrata nel 2013 con l’11,6%, quella più bassa nel 2006 con il 9%. Siamo comunque molto lontani dal 25% segnalato dal Censis.

I dati su cui si basano queste considerazioni sono forniti dall’ISTAT. Si tratta di indagini con un grande numero di intervistati, condotte con una metodologia rigorosa e trasparente e armonizzate a livello europeo. I dati citati, inoltre, sono accessibili da chiunque ne faccia richiesta e, soprattutto, vale la pena sottolineare che è chiaro chi ha commissionato le indagini e per quale scopo.

Dati stabili, con un forte gradiente Nord-Sud e un picco fra i disoccupati

Che si può ricavare a grandi linee come sintesi di questi dati?

La variabilità negli anni è per il dato globale molto esigua mentre la variabilità tra aree è molto elevata. Il valore dell’Italia centrale quasi raddoppia il dato del nord e il dato dell’Italia meridionale quasi lo triplica.

La motivazione economica alle rinunce era data in meno della metà dei casi nel 2005 mentre nel 2015 supera l’80%. L’incremento di questa quota è pressoché costante in tutte le aree. Rispetto al 2014 si osserva una diminuzione delle rinunce totali, ma un incremento di rinunce per motivi economici, tranne che per il centro Italia.

La vera differenza la si osserva nei soggetti più a rischio e in particolare nei disoccupati che non solo hanno percentuali di rinunce più che doppi rispetto alla popolazione generale, ma negli anni la loro situazione si aggrava ulteriormente.

Il sistema universalistico tiene ma va rafforzato

La riflessione porta quindi a concludere che il SSN ha mostrato una sufficiente resilienza alla crisi economica assumendo quindi un ruolo importante di elemento anticiclico, ma non ha risolto purtroppo sia la situazione di disomogeneità territoriale, sia la garanzia di parità di accesso alle diverse fasce di popolazione.

Una revisione del sistema contributivo che tenga maggiormente in considerazione lo stato economico degli assistiti e una riduzione delle necessità di accedere a servizi a pagamento per poter risolvere attese eccessive sono due priorità importanti per far aumentare l’equità di accesso al SSN. Di contro si assiste a una campagna insistita a favore delle assicurazioni private e della necessità del “secondo pilastro”, che sembra far breccia anche nelle formazioni politiche che hanno sempre difeso il sistema sanitario universale, nella apparente distrazione delle istituzioni sanitarie.

Non si pensi infine che le differenze tra aree del paese possano essere risolte sacrificando il regionalismo dell’organizzazione sanitaria; queste differenze sono innanzitutto frutto delle diversità economiche e culturali delle popolazioni e solo lavorando sulla maggior omogeneità di queste che si possono ridurre quelle.

Riassumendo

  1. Il Sistema sanitario nazionale, nonostante i problemi, è stato uno strumento essenziale di resilienza alla crisi. Mediamente nel paese non si è assistito a un aumento della rinuncia alle prestazioni
  2. Ci sono differenze tra paesi, ma l’Italia non è distante dalla media europea
  3. La rinuncia alle prestazioni non è rinuncia alle cure; praticamente il Italia nessuno rinuncia integralmente alle cure
  4. La situazione della sanità del Sud è critica, anche a causa dei piani di rientro, e riguarda soprattutto poveri e disoccupati che probabilmente non usufruiscono ancora di esenzioni ticket
  5. L'assistenza sociale dei malati e disabili è il vero problema; in Italia deve essere affrontato al più presto
  6. Favorire lo sviluppo del secondo pilastro avvantaggia i ricchi (spendono più in tasse per finanziare il Sistema sanitario nazionale che un eventuale premio assicurativo privato) e il Ministero dell'Economia, che con le assicurazioni sanitarie private stima una diminuzione di circa il 2% della spesa pubblica
  7. Chi sostiene il secondo pilastro o comunque i fondi privati di legge o di fatto sostitutivi è responsabile del futuro diffondersi di gravi ineguaglianze sociali e di situazioni sanitarie probabilmente preoccupanti non solo per i più deprivati.

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