fbpx Nanni Bignami, la stella che non c'è | Scienza in rete

Nanni Bignami, la stella che non c'è

Primary tabs

Tempo di lettura: 5 mins

Geminga, con la g iniziale dura all’olandese. Traslitterazione in linguaggio universale dal milanese «Gh’è minga»: non c’è mica. Ci vuole, nel medesimo tempo, una bella ironia, una notevole capacità di giocare con le parole e anche una buona dose di coraggio per dare un nome così a una stella che lì, nella costellazione di Gemini, emette raggi gamma eppure non si vede.

La stella che non c'era

A dare un nome alla “stella che non c’è” nel 1975 è un giovane astrofisico italiano poco più che trentenne, Giovanni Fabrizio Bignami, che nel corso della sua vita, bruscamente interrotta lo scorso 24 maggio, dimostrerà di averne in abbondanza tanto di ironia – di quella sottile ironia per così dire transnazionale tipica dei grandi uomini di scienza abituati a muoversi in continuazione da un convegno all’altro in giro per il pianeta – quanto di attitudine alla comunicazione e di coraggio scientifico.

Per inciso, oggi sappiamo che Geminga c’è davvero. Che è una stella di neutroni un po’ particolare, distante 800 anni luce e poco più da noi, e che il nome, acronimo di “Gemini gamma ray source”, è tra le poche parole italiane (e l’unica del dialetto milanese) note nella letteratura scientifica internazionale, superata forse solo dalla parola neutrino coniata da Enrico Fermi.

Ebbene tutte queste capacità – ironia, capacità comunicativa, sguardo scientifico lungo – Giovanni (Nanni) Bignami le ripropone nel libro Le rivoluzioni dell’universo pubblicato postumo, con la revisione finale della moglie, Patrizia Caraveo, dall’editore Giunti (immagini a colori, pagine 230, euro 20,00).

In queste sue ultime ma preziose righe, Bignami ripropone gli strumenti antichi e recentissimi che stanno consentendo la rivoluzione nella comprensione, razionale, del cosmo: il tutto armoniosamente ordinato dei Greci. Bignami li divide in cinque classi: la prima è quella delle onde elettromagnetiche. La luce visibile, certo, ma anche l’infrarosso e le onde radio. O le radiazioni più energetiche: l’ultravioletto, i raggi X e, per l’appunto, quei raggi gamma che gli hanno consentito di scoprire Geminga. Ma poi Bignami elenca e descrive le altre chiavi che ci consentono di aprire le porte del cosmo: i meteoriti e tutti gli altri oggetti macroscopici che piovono dal cielo qui sulla Terra; i raggi cosmici; i neutrini e, da ultimo, le onde gravitazionali catturate nel 2016 dei rivelatori di LIGO in stretta collaborazione con il team italo francese di Virgo.

Le rivoluzioni nella comprensione dell'universo

Utilizzando questi strumenti di osservazione – in aggiunta a quelli delle teorie matematizzate (la relatività generale e la meccanica quantistica, compreso quel suo addentellato che è il Modello Standard delle Alte Energie) in cento anni o giù di lì sono state possibili almeno due grandi rivoluzioni, più una incipiente. Il primo grande cambiamento è quello della “rivoluzione cosmologica”. Noi oggi non solo sappiamo che viviamo in un universo evolutivo nato 13,8 miliardi di anni fa. Ma siamo ormai in grado di “vedere” le diverse tappe della sua evoluzione: da pochi istanti dopo il Big Bang, alla nascita delle sue grandi strutture: le galassie, gli ammassi di galassie, gli ammassi di ammassi, le stelle, i buchi neri. Sappiamo molto più di un secolo fa, sull’universo. Ma sappiamo ancora poco: conosciamo non più del 4% della sua materia/energia. Ignoriamo la natura e l’origine dell’energia oscura; ignoriamo la natura e l’origine della materia oscura: ovvero del 96% del cosmo. È chiaro che la “rivoluzione cosmologica”, lungi dall’essersi esaurita, è ancora in atto.

Il secondo grande cambiamento è quello della “rivoluzione planetologica”. Sappiamo molto – li abbiamo anche fisicamente visitati con le nostre sonde – dei pianeti che ruotano intorno a Sole. Negli ultimi due decenni abbiamo iniziato a scoprire i pianeti che ruotano intorno ad altre stelle, a maggior gloria di quel Giordano Bruno che già nel XVI secolo immaginava un universo costituito da “infiniti mondi” della “stessa specie” della Terra. Ma, anche in questo caso, la rivoluzione è ancora in pieno corso.

La vita fuori dalla terra

Ce n’è, infine, una terza. Incipiente. La “rivoluzione astro-biologica”, ovvero la ricerca della vita fuori dalla Terra. Finora non ne abbiamo trovato traccia. O tracce non convincenti, almeno. Ma molti precursori biologici che Giovanni Bignami considera significativi, beh, questo sì. L’AVE (Astronomia della Vita Extra-terrestre), assicura l’autore, ci riserverà molto sorprese.

Tutta queste rivoluzioni in atto o anche solo incipienti, Bignami le attraversa corredandole di note storiche e di gustosi aneddoti. Per concluderle, come era nella sua indole, con uno sguardo lungo rivolto al futuro. È, il suo, un viaggio immaginario – un gioco, ma non solo un gioco – con una tappa a breve (come sarà l’universo fra 60 anni), due tappe a medio termine (come sarà l’universo tra 150.000 anni e 10 milioni di anni) e una tappa a lunghissimo termine (come sarà l’universo tra decine o centinaia di miliardi di anni).

La tappa a breve, con notevole sviluppo tecnologico, porterà l’uomo su Marte. Anche se tra 60 anni la colonia marziana sarà piccola e non del tutto indipendente. Tra 150.000 anni, se l’uomo sopravvivrà a se stesso, o forse tra un milione o 10 milioni di anni, avremo imparato a imbrigliare “tutta” l’energia del Sole e con questa riserva a colonizzare l’intera galassia. Ma le incognite, in questa prospettiva sono molte e Nanni Bignami ne è ben cosciente.

L'ultimo lamento dell'universo

Più solida, per paradosso, è la prospettiva di lunghissimo tempo – tra decine o centinaia di miliardi di anni – quando la vita non ci sarà più e l’universo svanirà per diluizione in un freddo e flebile lamento. Non diciamo nulla delle modalità – lasciamo al lettore il gusto di scoprirle. Diciamo solo che il finale è certamente angosciante. Per fortuna nella a pagina 225, Giovanni Bignami ci offre un antidoto alla vertigine cui ci induce questo ineluttabile finale cosmico. E l’antidoto non può essere che uno solo: l’ironia.

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Ostacolare la scienza senza giovare agli animali: i divieti italiani alla sperimentazione

sagoma di macaco e cane

Divieto di usare gli animali per studi su xenotrapianti e sostanze d’abuso, divieto di allevare cani e primati per la sperimentazione. Sono norme aggiuntive rispetto a quanto previsto dalla Direttiva UE per la protezione degli animali usati a fini scientifici, inserite nella legge italiana ormai dieci anni fa. La recente proposta di abolizione di questi divieti, penalizzanti per la ricerca italiana, è stata ritirata dopo le proteste degli attivisti per i diritti degli animali, lasciando in sospeso un dibattito che tocca tanto l'avanzamento scientifico quanto i principi etici e che poco sembra avere a che fare con il benessere animale.

Da dieci anni, ormai, tre divieti pesano sul mondo della ricerca scientifica italiana. Divieti che non sembrano avere ragioni scientifiche, né etiche, e che la scorsa settimana avrebbero potuto essere definitivamente eliminati. Ma così non è stato: alla vigilia della votazione dell’emendamento, inserito del decreto Salva infrazioni, che ne avrebbe determinato l’abolizione, l’emendamento stesso è stato ritirato. La ragione?