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Il declino scientifico del Giappone

Today's sunset - Photo di Halfrain. Licenza: CC BY-SA 2.0.

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Sono pochi le donne e gli uomini di scienza in Giappone che hanno sorriso per la vittoria di Shinzo Abe alle elezioni anticipate dello scorso 23 ottobre. Lo scarso entusiasmo non è dovuto a motivi ideologici. Ma al timore che Abe porterà a termine il suo programma e ridurrà gli investimenti pubblici nelle università e nella ricerca, soprattutto di base. Finendo per acuire quel lento declino della scienza nell’Impero del Sol Levante che i ricercatori avvertono.

Il terzo paese per investimenti in ricerca

Sia chiaro, partiamo da livelli altissimi. Nel 2016 il Giappone ha investito in ricerca e sviluppo (R&S) qualcosa come 167 miliardi di dollari, pari al 3,39% del suo Prodotto interno lordo (Pil). Il Giappone era e resta il terzo paese al mondo per investimenti in ricerca, dopo USA e Cina. A puro termine di paragone: quella nipponica è 6,2 volte maggiore della spesa italiana in R&S; in rapporto al Pil, è 2,6 volte quella italiana.

Tuttavia dei segnali di declino relativo sono presenti da tempo. Il Nature Index 2017 che monitora le performance di 8.000 istituzioni scientifiche in tutto il mondo mostra che gli articoli di qualità elevata prodotti dagli scienziati giapponesi sono diminuiti dell’8,3% negli ultimi cinque anni. Certo la diminuzione del peso relativo della produzione nipponica è dovuta alla forte crescita di quella cinese. E infatti anche gli Stati Uniti e altri paesi storicamente ben posizionati in questo ambito hanno subito un ridimensionamento relativo. Ma il fatto è che gli articoli di alta qualità degli scienziati giapponesi sono diminuiti non solo in termini relativi, ma assoluti. E questo è un più serio campanello d’allarme.

Gli scienziati giapponesi pubblicano sempre meno

Dati analoghi emergono anche da altre fonti, come il Clarivate Analytics’ Web of Science (WOS) o Scopus di Elsevier. Il WOS, per esempio, mostra che gli scienziati giapponesi hanno pubblicato nel 2015 meno articoli che nel 2005 in ben 11 dei 14 campi di ricerca classificati. Nelle scienza dei materiali e in ingegneria, tradizionali settori forti in Giappone, gli articoli pubblicati sono diminuiti nel decennio del 10%; nella computer science addirittura del 37,7%. Solo in tre settori i ricercatori giapponesi hanno incrementato la loro produzione: medicina, matematica e astronomia. In realtà la produzione complessiva della ricerca giapponese, rispetto al 2005, è aumentata del 14%. Ma quella mondiale è aumentata dell’80%. Insomma, alcuni temono che il motore della macchina scientifica del Sol Levante abbia iniziato a battere in testa. Il Giappone non corre più come un tempo e fatica a tenere la sua, pur avanzatissima, posizione.

Prova ne sia che la spesa in R&S rispetto al PIL è sostanzialmente stazionaria dal 2001, mentre in molti altri paesi – dalla Cina, alla Corea del Sud, alla stessa Germania – è in deciso aumento.

Qualcosa di analogo sta avvenendo nelle università. Ci sono sempre meno soldi per pagare gli stipendi di ricercatori a tempo indeterminato e il numero di giovani al di sotto dei 40 anni con contratti a termine è raddoppiato tra il 2007 e il 2013.

Il governo Abe riduce i finanziamenti

È a questo punto che arrivano Shinzo Abe e il suo governo. Dal 2012 a oggi, gli investimenti pubblici in R&S del Giappone sono diminuiti del 5%. Nel medesimo tempo, come riporta Nature in una recente analisi, il programma, già in atto, è quello di ridurre i finanziamenti alle università dell’1% ogni anno per un’intera decade. “Questa è considerata la causa principale del deterioramento delle performance scientifiche e, probabilmente, della caduta delle università giapponesi nelle classifiche internazionali”, sostiene Takashi Onishi, attuale presidente dell’Università della Tecnologia Toyohashi ed ex presidente del Consiglio Scientifico del Giappone che è un ente consultivo del governo.

Ma il problema non è solo e non è tanto quello dei finanziamenti. Ma della qualità della spesa pubblica. Le politiche del governo di Shinzo Abe in passato e le dichiarazioni in campagna elettorale sono coerenti: vogliamo che ricerca e università siano più vicine alle necessità delle industrie. Occorre dunque privilegiare la ricerca applicata e lo sviluppo tecnologico. A scapito, temono i ricercatori giapponesi, della ricerca di base. Che è il motore di quel complesso sistema che genera nuova conoscenza e innovazione tecnologica.

Diminuiscono i giovani scienziati giapponesi 

L’altra faccia del declino è rappresentata dalla diminuzione del 18% rispetto al 2003 dei giovani giapponesi che seguono un corso di dottorato. Un segnale tra i più gravi, perché potrebbe indicare che il Giappone non ha le risorse umane per far fronte alle sfide scientifiche e tecnologiche del futuro. Di qui la richiesta, fatta propria da Michinari Hamaguchi, leader dell’Agenzia della Scienza e della Tecnologia di Tokyo, di favorire l’introduzione in questi corsi delle donne e degli stranieri, considerata necessaria in un paese che, peraltro, sta rapidamente invecchiando.

Dopo gli Stati Uniti, il Giappone ha laureato il maggior numero al mondo di giovani in materie scientifiche in questa prima parte del XXI secolo. Ma difficilmente questo primato sarà mantenuto, teme Yoshinori Ohsumi, premio Nobel per la medicina 2016.

Insomma, il Giappone in generale sembra credere un po’ meno nella scienza rispetto al passato e, soprattutto, i giovani giapponesi sembrano credere di meno nella possibilità di trovare un lavoro gratificante in ambito scientifico. Un problema non banale, visto che di fronte, al di là del mare, ci sono almeno due paesi – la Cina e la Corea del Sud – che si muovono in direzione opposta e sono pronti a raccogliere il dividendo degli enormi investimenti, in termini economici e di fiducia, realizzati nella ricerca e nell’alta formazione in questi ultimi anni.

 


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