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Evoluzione: i geni condivisi da invertebrati e mammiferi

Apostichopus japonicus al Suma Aquarium, Kobe, Giappone - Credit: Photo by harum.koh - Licenza: CC BY-SA 2.0.

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Le idre sono minuscoli invertebrati acquatici con una forma simile a un vaso e un’apertura circondata da tentacoli. Sono famosi per la loro formidabile capacità rigenerativa, che consente loro di ricostruire parti del corpo perse senza alcuna cicatrice e a qualsiasi età, tanto da essere considerati pressoché immortali. Sebbene non così efficienti, anche le planarie come Schmidtea mediterranea possiedono elevate doti rigenerative, dovute a una popolazione di cellule staminali adulte presenti in tutto il loro organismo. E anche un Echinoderma come il cetriolo di mare Apostichopus japonicus non è da meno, essendo in grado di ricostruire i propri organi interni in seguito all’eviscerazione, che peraltro può sfruttare come meccanismo difensivo.

Il fenomeno biologico della rigenerazione

La rigenerazione, intesa come la sostituzione di parti del corpo danneggiate o perse senza che ci sia una perdita di funzionalità, è un fenomeno biologico estremamente affascinante e molto diffuso in pressoché tutti gli animali. Non tutti però hanno le stesse capacità di idre o planarie. Le lucertole, per esempio, possono far ricrescere soltanto la loro coda e, fra i vertebrati, solo alcuni anfibi possono ricostruire organi e tessuti anatomicamente completi e funzionali. Nei mammiferi, l’unico organo capace di rigenerarsi è il fegato, ma nel farlo perde parte della sua struttura anatomica - cioè la divisione in tre lobi - pur conservando massa e funzionalità.

La ricerca dei geni della rigenerazione nei mammiferi

Sembra quindi che anche in noi sia rimasta una sorta di ricordo biologico di quel processo. Esiste, nel genoma dei mammiferi, una traccia di questo ricordo? È questa la domanda che ha spinto alcuni ricercatori del Centro della Complessità e i Biosistemi (CC&B) dell’Università di Milano a studiare la storia evolutiva dei geni associati alla rigenerazione. Per farlo, hanno raccolto dati di precedenti esperimenti condotti su idre, planarie e cetrioli di mare - il cui genoma era stato analizzato in momenti successivi del processo di rigenerazione - e li hanno uniformati in modo da poterli confrontare fra di loro e con altri studi sul fegato di topo.

“Una delle difficoltà di questo tipo di studi è data dalla grande ampiezza del genoma. Ci sono migliaia di geni da analizzare ma non è detto che siano tutti rilevanti”, spiega Maria Rita Fumagalli, ricercatrice postdoc al CC&B e principale autrice dello studio. “Ogni volta che si stimola un network di questo tipo si ottiene una risposta generale, ma noi volevamo restringere il campo per individuare solo quei geni che sono rimasti conservati fra specie diverse. E per farlo abbiamo dovuto lavorare molto sui big data biologici”.

Somiglianze e differenze

Somiglianze e differenze, quando si studia l’evoluzione, sono egualmente interessanti. Le prime ci parlano dei tratti che accomunano specie anche molto diverse, delineando i legami di parentela evolutiva. Le seconde ci raccontano invece di come tali specie, pur avendo elementi in comune, si sono diversificate. Insieme, somiglianze e differenze confluiscono in quella che rappresenta una delle grandi intuizioni di Charles Darwin: la discendenza con modificazioni da un antenato comune. I ricercatori del CC&B hanno studiato entrambe, con risultati significativi, e i risultati del loro lavoro sono stati pubblicati su NPJ Systems Biology and Applications.

Per quanto riguarda le somiglianze, hanno identificato un set di geni che sono comuni a idre, planarie, cetrioli di mare e topi, e la cui espressione cambia in maniera significativa nella prima fase della rigenerazione. In questo set di geni comuni ce ne sono alcuni la cui espressione aumenta durante la rigenerazione e altri, la maggior parte, la cui espressione invece diminuisce. I primi sono coinvolti nella comunicazione cellulare, nella riparazione del DNA e nell’inizio della trascrizione, mentre i secondi riguardano processi metabolici, adesione cellulare e - cosa interessante - anche alcuni fenomeni legati alla risposta immunitaria.

Un filo rosso genetico tra specie molto distanti

Queste somiglianze sembrano suggerire l’esistenza di una capacità primordiale di rigenerazione, comune a tutti gli animali e conservatasi anche nei mammiferi, un filo rosso genetico che accomuna specie molto distanti fra di loro e fornisce ulteriori informazioni sui percorsi evolutivi che li lega. Soprattutto, ci dicono che i macchinari molecolari sono ancora presenti.

Poi ci sono le differenze. Che emergono già nella fase tardiva della rigenerazione, dove i geni che entrano in gioco sono decisamente più eterogenei e associati a processi caratteristici della specie e del tipo di tessuto in cui sta avvenendo la rigenerazione. E che raccontano storie diverse di differenziamento e specializzazione.

Il sistema immunitario nell’uomo evoluzione delle cellule rigenerative primordiali

Ma c’è anche un altro aspetto rilevante emerso da questo studio. “Quello che abbiamo visto grazie alle nostre analisi”, spiega Caterina La Porta, professoressa di patologia generale al Dipartimento di scienze e politiche ambientali dell’Università di Milano e coordinatrice di questa ricerca, “è che anche in idre, planarie e cetrioli di mare, nella prima fase della rigenerazione, si attivano geni caratteristici di cellule del sistema immunitario simili ai nostri macrofagi e neutrofili”. Cioè i responsabili del controllo dell’infiammazione necessario per un’efficace riparazione di un tessuto danneggiato nei mammiferi. I nostri macrofagi e neutrofili, quindi, potrebbero essersi evoluti da cellule che, in alcuni invertebrati, giocavano un ruolo di primo piano nella regolazione della rigenerazione. “Questa potrebbe confermare che, nei mammiferi, lo sviluppo di un sistema immunitario più complesso, in grado di affrontare diverse minacce di natura patogena e di facilitare la cicatrizzazione dei tessuti, ha in un certo senso compensato la perdita di quell’efficienza rigenerativa che invece ritroviamo in altri animali”, conclude La Porta.

Alla ricerca di nuove terapie rigenerative

Somiglianze e differenze sono importanti anche rispetto ai possibili risvolti biomedici di questo studio. Da un lato, la scoperta di questo set di geni coinvolti nella rigenerazione e conservati nel corso dell’evoluzione potrebbe offrire nuovi spunti per il trattamento di patologie dovute a un eccesso di fibrosi. Dall’altro però sarebbe anche interessante indagare più a fondo quei geni non conservati, la cui espressione cioè è andata persa dai vertebrati.

Comprenderne l’evoluzione potrebbe consentirci, un domani, di sfruttarli per sviluppare nuove terapie rigenerative. Il che non significa far sì che un essere umano possa far ricrescere un arto amputato. “Questa è decisamente fantascienza”, commenta Fumagalli. “Una possibilità più realistica potrebbe consistere nella riattivazione della ricostruzione di un tessuto danneggiato da una patologia”.

 


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