Cannabis - Credits: Wikimedia - Licenza: CC BY-SA 3.0
Recentemente stampa e televisione si sono molto occupate dell’uso terapeutico della cannabis. Il motivo principale è stato l’assoluta scarsità o mancanza quasi completa della disponibilità in Italia, nonostante dal 2017 sia autorizzata la vendita con ricetta medica in farmacia. L’unica produzione è quella dell’Istituto Farmaceutico del Ministero della Difesa, che ne fa tanto poca da essere praticamente introvabile. Vi sono produttori di cannabis per uso medico in Olanda (Bedrocan) e in altri paesi europei come la Germania e il Regno Unito. Ma il maggior produttore mondiale è Israele, recentemente alla ribalta perché il premier Netanyahu che voleva esportarla negli USA è stato bloccato da un veto emanato da Trump.
Poiché i dati clinici attendibili sull’uso medico della cannabis sono scarsi, e spesso poco distinti da quelli legati all’uso della marijuana come droga, ho accettato la proposta di un clinico dell’Università Ben Gurion del Negev di raccogliere in un numero monotematico dell’European Journal of Internal Medicine articoli che spiegassero se vi sono evidenze scientifiche sui benefici terapeutici della cannabis e cannabinoidi. I dati favorevoli erano finora vantati in una serie troppo vasta di malattie per essere plausibile: la SLA, la sindrome neurologica di Gilles de la Tourette, il morbo di Parkinson, l’Alzheimer, malattie gastroenteriche croniche come il morbo di Crohn, la colite ulcerosa, e chi più ne ha più ne metta. Nove articoli pubblicati sul numero di Marzo 2018 dell’European Journal of Internal Medicine (volume 49, pagine 1-44), scritti, oltre che da israeliani, da americani e inglesi, affrontano il problema in maniera comprensiva, evitando sia le notizie miracolistiche sulla cannabis panacea per tutti i mali sia gli atteggiamenti pregiudizialmente negativi di molti membri della comunità medica.
Un articolo di Abuhasira passa in rassegna le regole adottate per l’uso medico della cannabis e dei suoi derivati in vari paesi dell’Europa e Nord America. In queste regole viene in genere fatta una distinzione tra l’erba ed estratti dell’erba e i preparati medicinali basati su cannabinoidi (tetraidrocannabinolo e cannabidiolo), nonché sui limiti superiori accettati per l’autorizzazione alla vendita di questi prodotti. D’altra parte, paesi come Canada, Germania, Israele e Olanda nonché alcuni stati USA approvano anche l’uso dell’erba. In genere, non vi sono restrizioni alla scelta da parte del medico delle indicazioni cliniche, mentre in alcuni paesi l’impiego è autorizzato solo per il controllo del dolore cronico.
L’articolo di Donald Abrams, scritto negli USA per conto della prestigiosa National Academies of Sciences, Engineering and Medicine, contiene una revisione sistematica della letteratura sul grado di evidenza disponibile per le varie indicazioni cliniche. La conclusione principale è che la cannabis o i cannabinoidi sono efficaci nel trattamento del dolore nell’adulto, per ridurre la nausea e il vomito indotti dalla chemioterapia e per la spasticità associata alla sclerosi multipla. La prova di efficacia è invece assente o limitata per la sindrome di Tourette, l’ansia, i disturbi da stress post-traumatico e del comportamento alimentare, l’intestino irritabile, l’epilessia e una serie di malattie neurodegenerative come Parkinson e Alzheimer.
MacCallum e Russo confrontano dal punto di vista del farmacologo clinico vari preparati di cannabinoidi disponibili in commercio per uso medico (come Sativex e Epidiolex) fornendo raccomandazioni sulle vie di somministrazione (orale, spray, aerosol) e sulle dosi giornaliere ottimali per evitare effetti psichici e sviluppo di tolleranza. Altri importanti aspetti di farmacologia clinica riguardano il rischio di interazioni con farmaci e il monitoraggio dei malati che assumono cannabis.
Due articoli (di Brown e Farquhar-Smith e di Schleider) affrontano l’esperienza maturata in pazienti con cancro, con scopi palliativi verso sintomi come il dolore acuto, cronico e di tipo neuropatico. Le conclusioni sono alquanto divergenti. Mentre Schleider e collaboratori sono fortemente convinti dell’effetto palliativo della cannabis e della sua sicurezza ed efficacia in 2.970 pazienti, Farquhar-Smith ritiene che i dati disponibili non supportino l’azione analgesica nei pazienti con tumori, e che la purificazione della cannabis nella preparazione dei prodotti farmaceutici abbia causato la perdita di parte dell’efficacia degli originali prodotti artigianali (parla ironicamente di “lost in translation”).
Infine, Victor Novack, il coordinatore di questo numero speciale, affronta insieme a Raphael Mechoulam, il padre degli studi sulla cannabis, le caratteristiche di sicurezza ed efficacia dell’impiego in 2.736 soggetti anziani, con particolare riguardo all’effetto sul dolore cronico e alla tollerabilità in pazienti ad alto rischio di effetti collaterali. Il risultato principale è che l’intensità del dolore, valutata con una scala da 1 a 10, è diminuita da una media di 8 a una di 4 dopo sei mesi di trattamento, con buona tollerabilità. Importante anche la riduzione del 18% dell’assunzione di farmaci analgesici oppioidi, concludendo però che questi dati derivati da studi osservazionali dovrebbero costituire la base per la successiva pianificazione di studi clinici randomizzati in doppia cieco.
Ho imparato molto su un argomento che viene affrontato raramente al di fuori del sensazionalismo mediatico di chi lamenta di non potersi procurare in drammatiche situazioni ciò che è consentito dalla legge. Spero questa serie di articoli serva a smitizzare l’uso medico della cannabis e a indirizzarlo come per ogni farmaco verso l’esecuzione di studi controllati e randomizzati che vadano al di là degli studi osservazionali su cui sono basati la maggior parte dei risultati discussi. Certo è che l’uso della cannabis come farmaco ha una forte plausibilità biologica, derivata dall’esistenza di recettori cannabinoidi in vari organi del corpo umano: siamo ben lontani dalla memoria dell’acqua sostenuta fantasiosamente dall’omeopatia! Al momento, sembra di capire che i preparati di cannabis hanno efficacia nella nausea, un sintomo associato alla chemioterapia che i moderni farmaci antiemetici non controllano adeguatamente. Per quanto riguarda l’effetto sul dolore cronico nell’anziano i dati sono meno solidi, e sarebbe necessario un paragone con gli oppioidi (che tanti problemi stanno creando negli USA) e gli anti-infiammatori non steroidei, che a mio avviso vanno evitati il più possibile nell’anziano.