La carica dei 51. Fosse un film, la proposta che Roberto Defez lancia con il suo nuovo libro, avrebbe questo titolo. Ma si tratta di un’idea forte. Una provocazione stimolante. E, allora, prima di darle un titolo occorre argomentarla.
Robert Defez è un ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche di lungo corso, lavora a Napoli e i lettori di Scienzainrete ben lo conoscono per la sua attitudine alla comunicazione e per il suo impegno a coltivare i rapporti scienza e società, dicendo sempre senza infingimenti pane al pane e vino al vino.
Il libro si intitola Scoperta, ha per sottotitolo Come la ricerca scientifica può aiutare a cambiare l’Italia, è stato appena pubblicato da Codice, è composto da 168 pagine che si leggono tutte d’un fiato e costa 17,00 euro.
Defez parte da un’analisi piuttosto condivisa, almeno negli ambienti scientifici. Su cui ci soffermeremo poco. L’Italia è un paese in difficoltà. Per la sua incapacità di innovare che deriva, a sua volta, da una cultura scientifica insufficiente anche tra le classi dirigenti. Ma anche e soprattutto, aggiungiamo noi, per la specializzazione del suo sistema produttivo che punta sulle medie e basse tecnologie e si fonda su “un modello di sviluppo senza ricerca”.
Ma, sia come sia, sta di fatto, sostiene Defez, con innumerevoli e puntuali esempi che si srotolano lungo i quattro quinti del libro, che gli scienziati italiani – pochi, ma in grande maggioranza buoni – sono maltrattati «oltre ogni limite di decenza». Lo sfondamento dei limiti avviene in più settori, da quello dei finanziamenti a quello degli adempimenti burocratici, che non sono solo una sorta di tortura istituzionale ma un’enorme perdita di tempo, tutto sottratto alla ricerca. In definitiva, Defez denuncia rapporti non sostenibili della comunità scientifica con i media, le classi dirigenti (per esempio la magistratura), l’economia e la politica. È tutto questo che contribuisce al declino ormai strutturale del paese. È tutto questo che bisogna rimuovere per aiutare a cambiare l’Italia.
Fin qui nulla di nuovo, in termini sostanziali. L’analisi è condivisa da molti e bene fa Defez, con la sua prosa scorrevole, a reiterarla.
Ma a questo punto il ricercatore napoletano si pone la domanda, a sua volta classica: di chi è la colpa?
Ed è in questo momento che la risposta diventa davvero originale, spiazzante, provocatoria: la colpa è degli scienziati italiani. No, non che questo assolva le (altre) classi dirigenti del paese. Tutt’altro. Ma il fatto è che la comunità scientifica del paese non è affatto unita, coordinata, organizzata. Ciascun ricercatore cerca la sua salvezza individuale, con il più classico individualismo bene espresso da quell’alunno che ha dato il titolo al fortunato libro di un altro napoletano, Marcello D’Orta: Io, speriamo che me la cavo.
Insomma, sostiene Defez, se gli scienziati italiani sono maltrattati «oltre ogni limite di decenza» è perché sono disuniti e, come gli ingenui Curazi, vanno ciascuno per conto suo a farsi infilzare dagli Orazi di turno: i media, le classi dirigenti (per esempio la magistratura), gli industriali e, soprattutto, i politici.
È quell’individualismo di antica data, tipicamente italiano, che si estende anche alla comunità scientifica che Robert Defez mette sotto accusa. Non perché i media, le classi dirigenti (compresa la magistratura), gli industriali e, soprattutto, i politici non abbiano le loro colpe specifiche (e ampiamente documentate nel libro). Ma perché i ricercatori italiani avrebbero la possibilità di vincerla, la loro battaglia, con gli Orazi di turno. Come?
Ed è qui che l’analisi originale, spiazzante, provocatoria di Defez diventa proposta a sua volta originale, spiazzante, provocatoria: con la “carica dei 51”.
Ecco, in breve, in cosa consiste. In primo luogo i ricercatori italiani devono acquisire la consapevolezza di essere “scienziati a vita”, il che significa estendere il loro metodo di lavoro, quello che usano in laboratorio o sul tavolo dell’elaborazione teorica, a tutti i loro rapporti con i media, le classi dirigenti (compresa la magistratura), gli industriali e, soprattutto, i politici. In definitiva, devono informare dell’approccio scientifico il loro rapporto con la società.
Devono, tuttavia, effettuare anche un altro passo. Decisivo. Abbandonare ogni individualismo e parlare come un sol uomo, almeno sulle questioni scientifiche dirimenti. Passare dall’”io speriamo che me la cavo” a un’azione collettiva, sistematica, efficace. Diventare un gruppo di pressione coeso e organizzato.
Già, ma come? Creando un gruppo rappresentativo di tutte le discipline, di 50. Anzi, di 51 membri – scegliendo tra i ricercatori più bravi (secondo i criteri internazionali, ovviamente) ed eleggendo tra loro o anche tirando il nome del presidente pro tempore. Questo gruppo dovrebbe avere il compito di parlare sì a nome degli scienziati italiani, in maniera sistematica ed efficiente, in maniera professionale, ma utilizzando i metodi propri dei ricercatori: producendo documentazione rigorosa, scientifica appunto, a sostegno delle loro tesi. Una documentazione chiara e imponente, tale da sommergere i media, ma anche da raggiungere le classi dirigenti (magistratura compresa, cui indicare magari nomi di consulenti scientificamente accreditati per la cause in tribunale), gli uomini dell’economia, i politici.
L’idea potrebbe sembrare ingenua. Ma non lo è affatto. Non perché con “la carica dei 51” la comunità scientifica ribalterebbe la condizione dell’Italia. Ma perché organizzazioni simili esistono all’estero e funzionano. Si pensi alla Royal Society, l’antica e sempre moderna accademia inglese. La sua voce è chiara ed è ascoltata in Gran Bretagna.
A ben vedere un nucleo della comunità di cui parla Roberto Defez esiste anche in Italia: è il Gruppo 2003, editore di questo web journal. Il vostro cronista lo afferma denunciando il proprio evidente conflitto di interesse. Ecco il Gruppo 2003 è una comunità di “scienziati a vita”. La sua organizzazione, le sue competenze e la sua disponibilità andrebbero estese e affinate, se si volesse raccogliere la proposta di Defez. Una cosa è certa, se i dalmati della ricerca italiana non si uniranno e combatteranno insieme, malgrado la loro bellezza e la loro simpatia, le Crudelia De Mon di turno continueranno a metterli nel sacco.