fbpx L’allarmismo sanitario contro gli immigrati | Scienza in Rete

L’allarmismo sanitario contro gli immigrati

Read time: 5 mins

Alla voce "allarmismo" l’Enciclopedia Treccani recita: “Tendenza ad allarmarsi o ad allarmare; azione o comportamento che mira a creare artificialmente (e per lo più allo scopo di ottenere un preciso risultato) un clima di tensione: a. politico, a. economico”. Prendendo spunto da numerosi e reiterati episodi relativi al mondo della carta stampata, e più in generale della comunicazione di massa, tra i possibili tipi di allarmismo va sicuramente incluso quello "sanitario".

“La lebbra sbarca in Sicilia” [il Giornale, 17 novembre 1994], “Prostitute immigrate, 'bombe batteriologiche'” [La Stampa, 10 giugno 1994], “Allarme AIDS, è malato un immigrato su dieci” [La Repubblica, 28 febbraio 2001], sono solo alcuni dei numerosi titoli di giornali a diffusione nazionale che dimostrano come l’utilizzo allarmistico dell’abbinamento del tema "salute" con quello della "immigrazione" sia in corso, nel nostro Paese, da almeno cinque lustri (cioè, in sostanza, da quando il fenomeno migratorio ha assunto in Italia una evidenza sociale e quindi mediatica).

Possiamo a buon diritto connotare quest’uso come "allarmistico" (cioè creato artificialmente, perché non fondato su prove di natura scientifica), in quanto, nel frattempo, non abbiamo assistito ad epidemie in cui gli immigrati possano essere stati identificati, da esperti scientifici e con metodi scientifici, quali ‘untori’ di manzoniana memoria, cioè responsabili di aver provocato o alimentato epidemie: siamo quindi di fronte ad esempi di scuola di quelle che oggi usiamo chiamare fake news.

Non è un caso che gli spunti giornalistici (oggi sempre più televisivi e del web) cui facciamo riferimento siano pressoché esclusivamente concentrati su patologie trasmissibili, cioè malattie infettive contagiose (nella nostra mini-rassegna: la Lebbra o Morbo di Hansen, le Malattie sessualmente trasmissibili – di cui fanno parte, tra le altre, l’HIV/AIDS, alcune epatiti e la sifilide – e la stessa HIV/AIDS, …e se qualcuno volesse far notare la mancanza della tubercolosi o del colera, sarebbe sufficiente aggiornare la rassegna per trovare (ultime in ordine temporale): “Migranti, l’allarme di Salvini: 'Torna la tubercolosi in Italia'” [il Giornale.it, 12 settembre 2018] e, ancor più recentemente: “Torna il colera a Napoli. Lo hanno portato gli immigrati” [Libero, 4 ottobre 2018]).

Con riferimento a quest’ultimo caso giornalistico – che, per rafforzare la propria tesi, richiama anche al triste episodio della morte per malaria di una bambina ricoverata in un ospedale di Trento), è possibile ritrovare molte delle caratteristiche che ricorrono in questa tipologia di prodotti dell’informazione di massa:

  1. una scarsa o assente conoscenza scientifica di base sulle cause (in questo caso, l’attribuzione del caso di colera ad un "terribile virus" e il richiamo al caso di malaria già citato come prodotto dalla trasmissione di un altro "virus"…), sulle modalità di trasmissione e sulle possibilità di cure efficaci della patologia trattata;
  2. il far riferimento a singoli episodi (ignorando di norma l’andamento epidemiologico di quella patologia nel contesto/paese di interesse) e non a dati scientifici analizzati con rigore statistico-epidemiologico;
  3. l’evidente tentativo di individuare una precisa responsabilità sanitaria, quasi che fosse intenzionale, in un gruppo di popolazione estremamente eterogeneo e fuori da qualunque possibilità di categorizzazione epidemiologica o più in generale scientifica, qual è quello degli stranieri immigrati. L’ostinazione portata in tale tentativo finisce per incorrere in grossolane valutazioni, quale ad esempio quella che “l’aumento degli extracomunitari, e con essi dei viaggi di andata e ritorno verso paesi in condizioni sanitarie ottocentesche, sta provocando una significativa ricomparsa in Italia di malattie che ritenevamo debellate da un secolo”, come se, in un’era globalizzata come la nostra, ad andare e tornare da quegli stessi paesi non fossero anche milioni di turisti e lavoratori.

È interessante notare come non si tratti di malattie trasmissibili qualsiasi, ad esempio l’influenza o una virosi intestinale, ma esattamente di quelle malattie "contagiose" che, per motivi storico-antropologico-religiosi, fin dal medioevo sono circondate da un maggiore alone di stigma sociale e che sono profondamente depositate, come temibili rischi, e quindi paure condivise, nella memoria collettiva.

Con un cortocircuito mentale immediato (secondo la successione: pericolo – paura – rifiuto), il fruitore di queste notizie sarà portato ad identificare come gravemente pericolose (e quindi da temere e tenere lontane da sé) le persone cui queste frettolose e mai scientificamente verificate o approfondite notizie attribuiscono la responsabilità del rischio paventato come ‘vero’, ‘grave’ ed ‘in corso’. Non sfuggirà come questa stessa dinamica alimenti la creazione e la sopravvivenza di quegli stereotipi che, laddove non adeguatamente contrastati attraverso un’informazione scientificamente corretta e responsabile, producono a loro volta atteggiamenti o, peggio, comportamenti discriminatori fondati sullo stigma.

In alcuni casi l’allarmismo viene addirittura alimentato - e quindi il timore indotto - rispetto a malattie, come la scabbia, che non comportano in effetti alcun serio rischio clinico.

Infine, va segnalata la frequenza con cui molti degli articoli che si occupano di salute e migrazione omettono di ricordare che il nostro sistema sanitario, attraverso la sua natura universalistica, la sua complessiva qualità e competenza e il suo radicamento sul territorio - unitamente a delle norme fortemente inclusive sul diritto all’assistenza di qualunque tipologia di straniero (con permesso di soggiorno o senza), sono in grado di intervenire adeguatamente a tutela della salute e della sicurezza di ogni individuo e così dell’intera collettività (in coerenza con l’art. 32 della Costituzione). Pensare di abbandonare un sistema sanitario accessibile e fruibile a ogni persona comunque presente sul nostro territorio potrebbe sì creare le condizioni per un minore controllo della salute pubblica, con particolare riferimento alle patologie trasmissibili.

In sintesi, una cattiva informazione scientificamente infondata o superficialmente costruita e interpretata, trasmessa in modo enfatico e, per l’appunto, allarmistico, riesce a provocare, in un uditorio privo delle conoscenze di base che consentono di interpretare criticamente questi rischi (sopra tutti, l’effettiva modalità di trasmissione delle malattie), un sentimento di paura del diverso (letteralmente, xenofobia) che può ingenerare a sua volta fenomeni di panico sociale o comunque una scomposta reazione di avversione e rifiuto.

Vale la pena far notare che il mondo dell’informazione questo problema se lo è posto, nella fattispecie rispetto alle modalità di trattazione del fenomeno migratorio, producendo dieci anni fa la “Carta di Roma” e, del tutto recentemente, un aggiornamento delle linee guida per la sua applicazione. Questi professionisti invitano, in sostanza, i loro colleghi a fare del buon giornalismo e non del giornalismo buono.

Sembra quanto mai necessario e urgente avviare e consolidare una stretta collaborazione tra il mondo scientifico che si occupa di salute degli immigrati e quello della comunicazione di massa, basata sul principio della responsabilità (deontologica e sociale) e della competenza professionale.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Di latticini, biotecnologie e latte sintetico

La produzione di formaggio è tradizionalmente legata all’allevamento bovino, ma l’uso di batteri geneticamente modificati per produrre caglio ha ridotto in modo significativo la necessità di sacrificare vitelli. Le mucche, però, devono comunque essere ingravidate per la produzione di latte, con conseguente nascita dei vitelli: come si può ovviare? Una risposta è il latte "sintetico" (non propriamente coltivato), che, al di là dei vantaggi etici, ha anche un minor costo ambientale.

Per fare il formaggio ci vuole il latte (e il caglio). Per fare sia il latte che il caglio servono le vacche (e i vitelli). Cioè ci vuole una vitella di razza lattifera, allevata fino a raggiungere l’età riproduttiva, inseminata artificialmente appena possibile con il seme di un toro selezionato e successivamente “forzata”, cioè con periodi brevissimi tra una gravidanza e la successiva e tra una lattazione e l’altra, in modo da produrre più latte possibile per il maggior tempo possibile nell’arco dell’anno.