Reliquario di Giovanni Battista, convento francescano, Porto (foto di Sergio Cima).
Il desiderio di perpetuare la memoria degli uomini illustri e di incoraggiarne la venerazione sta alla base del culto cristiano per le reliquie. Inizialmente circoscritto alla venerazione dei corpi dei martiri, con il passare dei secoli esso si è esteso anche a quelli dei santi, e infine agli oggetti venuti a contatto con essi. Man mano che il cristianesimo si diffondeva, all’antica usanza di recarsi in pellegrinaggio ai luoghi di sepoltura dei santi si affiancò l’uso di spostarne le reliquie per raggiungere i più remoti confini del mondo cristiano. Questi spostamenti, detti “traslazioni”, ebbero diversi effetti: anzitutto permettevano di consacrare altari di chiese che si volevano dedicare alla memoria di colui dal quale la reliquia era stata estratta, riponendo i suoi resti, integri o smembrati, al di sotto dell’altare stesso; poi, di accrescere la devozione verso quel luogo o quel santo; ancora, di svolgere una funzione apotropaica, dal momento che si riteneva che le reliquie fossero capaci di proteggere da guerre, catastrofi naturali e malattie, e di attrarre guarigioni, conversioni, miracoli e visioni; inoltre, di accrescere l’interesse verso il luogo in cui i reliquiari erano conservati, rendendoli poli di attrazione per i pellegrini e avendo come effetto secondario l’arricchimento sia della chiesa sia della città che tali pellegrini ospitavano; da ultimo, di accrescere il prestigio di chi possedeva le reliquie, istituzione ecclesiastica o stirpe nobile che fosse.
Tutto ciò, naturalmente, assume gradazioni molto diverse a seconda della capacità attrattiva di ciascuna reliquia, che invero è assai variabile. Le reliquie in genere sono oggetti privi di preziosità oggettiva, ma all’interno del proprio ambiente religioso, che attribuisce loro un valore, esse divengono dei “semiofori”, cioè oggetti che portano in sé un significato non tangibile e non misurabile se non agli occhi di chi le venera. E dunque tale significato può oscillare: certe reliquie in certi momenti della storia sono intese come più preziose di altre, e certune sono ignorate al punto da divenire semplici cimeli da sacrestia. Ciò dipende dalla tipologia di reliquia, dalla sua integrità o meno, dalle sue vicende, dal valore attribuito in un determinato luogo alla persona a cui essa è connessa, dalla propaganda messa in atto dalle autorità ecclesiastiche e civili. L’entusiasmo per le reliquie tende comunque a calare nel tempo se non viene periodicamente rinfocolato attraverso una costante attenzione oppure grazie a eventi significativi come festività, azioni di culto, traslazioni, guarigioni, apparizioni, miracoli. Quando una reliquia non riesce ad attrarre attenzione verso di sé, oppure la perde, si riduce a diventare pressoché indistinguibile da un oggetto qualsiasi.
Per molto tempo, e da parte di molti, le reliquie non sono state considerate un oggetto degno di interesse storico: il loro culto era considerato un fenomeno puramente devozionale, da ascriversi a quella che comunemente si denomina «religiosità popolare»; quest’ultima si associava al milieu antropologico delle classi subalterne in opposizione a quelle dominanti, o a quelle meno istruite rispetto a quelle dotte. In realtà è oggi chiaro che il culto delle reliquie è per così dire “trasversale”, perché coinvolge persone di ogni ceto e associa i diversi livelli sociali nell’esercizio delle medesime usanze religiose, credenze, aggregazioni; elementi per i quali alcuni studiosi di scienze cognitive hanno adoperato le categorie di «spontaneità» e di «immediatezza» adatte a qualificare una religiosità di natura intuitiva ed emozionale.
Gli ultimi decenni hanno assistito alla nascita di un interesse storiografico per la cosiddetta religiosità popolare, per la storia della pietà e in genere per le varie conseguenze della pratica religiosa attraverso l’intermediazione delle reliquie. Alcune chiavi di lettura di tali devozioni le ho già elencate; a ciò si aggiungono i tentativi di leggerle anche in prospettiva politico-ecclesiastica, nella dinamica della creazione e del mantenimento del consenso. È ormai pacifica acquisizione che certe devozioni approvate e favorite dalle autorità, sia laiche sia clericali, non soltanto avevano un effetto di consolazione interiore e di conferma nella fede, ma concorrevano anche a mantenere una certa quiete e la disciplina, indirizzando determinate aspirazioni delle masse verso la sfera dell’ultraterreno, indebolendo eventuali contestazioni politiche e istanze di rinnovamento, nonché de-storificando il negativo contingente. In questo senso le ‘classi’ elevate talvolta ebbero interesse nel creare o incentivare forme di religiosità di massa emotivamente coinvolgenti, alle quali loro stesse prendevano parte in posizione privilegiata e dalle quali non di rado ottenevano beneficio. Non esistono soltanto i culti spontanei, creativi o residuali, ma anche quelli creati e indotti dall’alto.
Col crescere della richiesta di reliquie, da parte dei semplici fedeli ma anche di illustri abati, vescovi, prelati e principi, dovette inevitabilmente crescere anche l’offerta. Uno degli effetti lungo la storia fu la smania di ricerca di antiche reliquie sui luoghi santi, spesso in buona fede: reliquie che la nostra sensibilità moderna, unita alle nostre competenze storico-scientifiche, difficilmente potrebbe considerare autentiche. Fu poi quasi inevitabile la nascita di una categoria di intermediari, alcuni dei quali onesti, altri veri e propri costruttori e spacciatori di falsi. Sono note le lamentele di sant’Agostino il quale denunciava il commercio delle reliquie dei martiri fin dal V secolo; ma il primato della disonestà spetta forse al diacono romano Deusdona, che nella prima metà dell’VIII secolo riuscì a smerciare false reliquie romane a numerosi illustri committenti di Italia, Francia e Germania. La maggior cifra mai spesa per l’acquisto di reliquie è verosimilmente ascrivibile a Luigi IX di Francia, il quale per crearsi a Parigi una collezione di cimeli cristologici non esitò ad acquistare da Baldovino II, imperatore latino di Costantinopoli, le reliquie del palazzo reale di Bisanzio con una spesa esorbitante.
E ciò induce a toccare il delicato tema della “autenticità”. Perché lo storico può studiare le reliquie nella prospettiva della storia delle devozioni, del culto, delle credenze, della politica laica o ecclesiastica, della ricaduta sociale ed economica, o da altri svariati punti di vista; ma rimane altresì chiamato a dire una parola sulla provenienza di tali reliquie, e quindi sulla loro autenticità. In genere, quando si tratta di reliquie di minor valore, oppure declassate, o dimenticate, in genere poco valorizzate o ritirate dal culto, l’impresa è agevole; mentre invece le resistenze possono farsi forti allorché lo storico o lo scienziato intervengono su reliquie “false” che però sono oggetto di grande interesse devozionale. In questi casi il rifiuto dei risultati ottenuti dall’indagine scientifica e storico-critica può essere totale; ma il dovuto rispetto delle tradizioni e della pietà religiosa non può dar spazio a reticenze o applicazioni di una sorta di doppia verità.
La Sindone
Il caso della Sindone di Torino è esemplare. Essa è parte di quel corredo di reliquie cristiche delle quali fino almeno al IV-VI secolo d.C. nessuno faceva menzione, poi rese progressivamente sempre più importanti e ricercate, fino al paradosso di una incontrollabile moltiplicazione di reliquie concorrenti distribuite o “riscoperte” in luoghi diversi. Paradossalmente, però, quella di Torino non è una delle sindoni più antiche, bensì una delle più recenti. Compare nella storia in un luogo che possedeva già tante sindoni concorrenziali - la Francia - e in una data abbastanza precisa, cioè il 1355 circa. Prima del secondo millennio, di una sindone con immagine del Cristo morto nessuno aveva mai parlato. Dal punto di vista documentario non v’è dubbio: è proprio il vescovo del luogo a dichiarare nel 1389 la falsità della Sindone stessa, ottenendo provvedimenti restrittivi per le ostensioni sia da parte del re sia da parte del papa. Soltanto molti silenzi e sotterfugi, e soprattutto l’acquisto della reliquia da parte dei Savoia nel 1453, poterono insabbiare tali provvedimenti e trasformare una riproduzione artistica in un autentico sudario di Gesù.
Ma i progressi dell’archeologia e la moderna scienza hanno confermato le vecchie carte medievali. Da una parte lo studio del tessuto ha rivelato una struttura che, per essere eseguita in quel modo, necessitava di telai sufficientemente evoluti, ovvero i telai orizzontali a pedali introdotti nell’alto medioevo; dall’altra l’archeologia israeliana ci fornisce prova della totale difformità della Sindone rispetto a tutti i teli antichi intessuti in ambito palestinese; infine l’esame radiocarbonico, realizzato con ben dodici misurazioni in tre laboratori diversi, fin dal 1988 ha fornito una datazione esattamente sovrapponibile a quella storica e archeologica. Eppure continuano le resistenze. La cosiddetta “sindonologia” continua ad affastellare presunte prove scientifiche che confuterebbero sia i documenti, sia l’archeologia, sia il 14C.
Il caso di Giulio Fanti mi pare uno dei più significativi: senza timore di esibire la sua devozione verso l’oggetto che studia, egli presenta continuamente nuovi esperimenti e adduce nuove prove - in genere ignorate dalla comunità scientifica estranea al circolo autoreferenziale della sindonologia - che confuterebbero ogni risultanza di non autenticità. Secondo Fanti l’immagine sindonica è stata generata da un intenso campo elettrostatico dentro il sepolcro di Cristo che avrebbe dato origine al cosiddetto “effetto corona”; per questo il professore ha compiuto vari esperimenti nel laboratorio della sua università, usando stoffe e manichini somiglianti al Gesù della Sindone e assoggettandoli a campi elettrici generati da una tensione fino a 300.000 volt. L’energia necessaria per disegnare la Sindone, secondo alcuni, poteva provenire da un fulmine globulare formatosi all’interno del sepolcro, oppure, come Fanti preferisce, da una specie di fulmine breve e intenso di provenienza ignota (o soprannaturale). L’idea del fulmine sarebbe corroborata dalle visioni di Maria Valtorta, una mistica italiana del XX secolo (i cui scritti però sono stati condannati dalla Chiesa): essa racconta di aver rivissuto la scena della risurrezione di Cristo, quando «una meteora splendentissima che scende, palla di fuoco di insostenibile splendore, seguita da una scia», discese dal cielo ed entrò nel sepolcro. Fanti nei suoi scritti mette in campo anche la risurrezione e particolari fenomeni di ionizzazione ambientale simili a quelli che sarebbero stati misurati durante le apparizioni della Madonna a Medjugorje. Egli ritiene anche di aver sviluppato nuovi metodi per datare le fibre di tessuto – misurazione delle proprietà meccaniche di singole fibre di lino, spettroscopia Raman e spettroscopia infrarossa in trasformata di Fourier – capaci di fornire per la Sindone un risultato compatibile con l’epoca di Gesù; sono però esami inconsueti, che non costituiscono un sistema scientificamente riconosciuto per la datazione di tessuti e non sono in grado di annullare le risultanze archeologiche, storiche e radiocarboniche che puntano al medioevo.
Tutto ciò a dispetto del fatto che il prof. Fanti non sia mai stato ammesso ad accedere alla Sindone, né a toccarla o a eseguire qualche prelievo o misurazione, dovendosi accontentare della contraddittoria letteratura precedente o facendo ricorso a microframmenti prelevati negli anni Settanta del secolo scorso e ottenuti per altre vie più o meno certificate (estratti decenni or sono con un aspirapolvere e mescolati a frammenti tessili di provenienza diversa, principalmente dal telo di sostegno su cui la Sindone era cucita fin dal 1534, oppure attaccati a nastri adesivi). L’Arcivescovo di Torino, anche a nome del Papa, precisa che «non essendoci nessun grado di sicurezza sull’appartenenza dei materiali sui quali sarebbero stati eseguiti detti esperimenti al lenzuolo sindonico, la Proprietà e la Custodia dichiarano di non poter riconoscere alcun serio valore ai risultati di tali pretesi esperimenti». Ma ciò non sembra bastare.
Lo storico, in questo contesto, è chiamato principalmente a interrogarsi sul perché ci sia una crescente insistenza su questo genere di reliquie; e ciò non tanto per spontaneo indirizzo dei semplici fedeli, quanto per spinta propagandistica, in larga parte ecclesiastica ma anche mediatica, grazie al sostegno di studiosi “autenticisti” organizzati in gruppi appositamente creati. Il tutto inquadrato, per certi versi, nel più ampio quadro del riaffermarsi dell’apologetica e dell’antimodernità all’interno di una certa parte del cattolicesimo. Un fertilissimo terreno dove la pseudoscienza può svilupparsi senza freno, a maggior ragione quando da una parte la Chiesa favorisce la credenza autenticista, ma dall’altra rifiuta di far sottoporre le reliquie a tutte le indagini scientifiche in grado di confermarla o confutarla.