Alan Stern (Southwest Research Institute), principal investigator di New Horizons, si complimenta con Alice Bowman (Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory), responsabile delle operazioni di New Horizons. È il 1° gennaio e al Centro operativo della missione presso il Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory a Laurel (Maryland) è appena giunta la conferma, dieci ore dopo il flyby con Ultima Thule, che la sonda è pienamente operativa e ha raccolto dati durante il sorvolo. Crediti: NASA/Bill Ingalls
Ufficialmente si chiama (486958) 2014 MU69. Davvero piuttosto anonimo come nome, composto dal numero che gli ha ufficialmente attribuito il Minor Planet Center e dalla sigla provvisoria assegnatagli al momento della sua scoperta. Talmente anonimo che, considerato il ruolo al quale era chiamato e in attesa di un pronunciamento ufficiale, si è pensato di dare a questo oggetto che orbita ai confini della regione planetaria del nostro Sistema solare il nomignolo di Ultima Thule. Lo scorso 1° gennaio, infatti, qui in Italia erano da poco passate le sei e mezza del mattino, accanto a questo remoto oggetto che orbita nella Fascia di Kuiper è transitata la sonda New Horizons. Un incontro epocale, come epocali sono le immagini che la sonda, con estrema lentezza, ci sta inviando. Ne sono bastate un paio per farci scoprire un mondo differente da ogni altro e incredibilmente intrigante.
Tra mito e realtà
Un nome mitico, quello di Thule. Appare per la prima volta intorno al 330 a.C. nel resoconto che Pitea di Massalia stese al ritorno dal viaggio esplorativo al di là delle Colonne d’Ercole verso le regioni dell’estremo nord. Tra le altre cose, infatti, l’esploratore racconta di avere raggiunto, ai confini settentrionali del mondo, un'isola che egli chiama Thule. Criticato a dismisura e accusato di contenere solo frottole, non ci stupisce che quel libro, intitolato “Sull’Oceano”, sia andato perduto. Ne sappiamo qualcosa perché, tre secoli più tardi, il famoso geografo Strabone parla di Pitea come di un mentitore di prim’ordine e per confutare quelle scoperte ne lascia un'accurata descrizione che è giunta fino a noi.
Nonostante i molti tentativi di individuare la Thule raccontata da Pitea, nessuno sa con certezza dove fosse situata. Già tre secoli dopo quei racconti, per lo stesso Virgilio (Georgiche, libro I, 30) è l’irraggiungibile confine settentrionale della terra, tirato in ballo per augurare a Ottaviano Augusto che tutto il mondo gli obbedisca, fino all’ultima Thule (“tibi serviat Ultima Tyle”).
Il mito dell’irraggiungibile e sfuggente confine settentrionale del mondo conosciuto è giunto intatto fino a noi e, nel marzo scorso, alla NASA è sembrata la scelta più naturale per dare un nome meno anonimo all’obiettivo della nuova missione di New Horizons. Nome provvisorio, per ora, ma che ha tutte le carte in regola per diventare, una volta ottenuto il beneplacito dell’IAU, quello ufficiale. Ancor prima che la sonda ci potesse regalare le incredibili immagini di Plutone, di Caronte e del loro sistema di piccole lune raccolte nel corso del sorvolo avvenuto il 14 luglio 2015, infatti, si cominciò a progettare un prolungamento della missione. Mentre percorreva la sua strada verso il pianeta nano ci si accorse che, con piccoli aggiustamenti di rotta, avrebbe potuto incontrare uno dei miliardi di oggetti che orbitano al di là di Nettuno e la cui esistenza, fino ai primi anni Novanta, era solamente teorizzata.
L’idea era che, sbrigata la pratica Plutone e mettendo in conto tre anni e mezzo di volo, per New Horizons ci sarebbe stato un altro appuntamento epocale. Detto così sembra tutto facile, ma è opportuno sottolineare che per arrivare dalle parti di Plutone la sonda ha comunque già viaggiato per 9 anni e mezzo. Un aspetto curioso è che quando New Horizons iniziò la sua avventura spaziale dalla base di Cape Canaveral – era il 19 gennaio 2006 – neppure si sapeva dell’esistenza di Ultima Thule. L’oggetto venne infatti scoperto solamente il 26 giugno 2014 grazie all’impiego del telescopio spaziale Hubble all’interno di una specifica ricerca dei potenziali obiettivi per la futura missione di New Horizons.
Non del tutto sconosciuto
Vinta la concorrenza con altri possibili candidati, 2014 MU69 viene immediatamente messo al centro di particolari programmi osservativi. Tra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre 2015, poi, quattro accensioni dei motori di New Horizons apportano le piccole modifiche di rotta necessarie perché la sonda si presenti correttamente all’appuntamento del 1° gennaio 2019 con il suo bersaglio. Progettare un flyby a più di 44 Unità Astronomiche dal nostro pianeta, qualcosa come 6 miliardi e 600 milioni di chilometri, richiede di conoscere con estrema precisione la posizione e il moto orbitale del bersaglio.
Grandi risultati giungono dalla campagna osservativa condotta nel giugno e luglio 2017 approfittando della circostanza che, nel suo lento moto sulla volta celeste, l’oggetto transnettuniano avrebbe nascosto la luce di alcune stelle. Le osservazioni di tali occultazioni, condotte in varie parti del mondo, permettono anche di scoprire che 2014 MU69 ha una forma molto allungata e compatibile con la presenza di due lobi del diametro approssimativo di 20 e 18 km, probabilmente due corpi distinti affiancati. Un oggetto doppio, insomma. Astronomicamente parlando non è certo una novità, peccato che la presenza di una simile struttura accresca il rischio che nella zona possano orbitare anche altri piccoli frammenti. Un rischio davvero notevole per una sonda che sfreccia a oltre 50 mila chilometri orari, un rischio di cui i responsabili della missione hanno tenuto conto proprio fino all’ultimo. Solamente sabato 15 dicembre 2018, infatti, il team incaricato di esaminare i rischi per New Horizons conclude i suoi lavori esprimendo parere positivo al proseguimento della missione.
Anche dalle ultime rilevazioni condotte con le apparecchiature di ripresa a bordo di New Horizons non era emersa la presenza di lune o di anelli sul cammino pianificato. La rotta della sonda, insomma, è tracciata e i piccoli aggiustamenti apportati qualche giorno più tardi decretano che ormai non è più possibile optare per un incontro a maggiore distanza, più sicuro ma con conseguenti immagini di peggiore qualità. Il piano di volo di New Horizons prevede il passaggio a soli 3.500 chilometri da Ultima Thule alle 6:33 di Capodanno (ora italiana). Giusto per fare un confronto, il sorvolo di Plutone è avvenuto a una distanza tre volte maggiore.
Fantastica Ultima Thule
Prima di avere la conferma che nel flyby era andato tutto come previsto si è dovuto aspettare per una decina d’ore. Infatti, non solo bisognava dare tempo alla sonda di completare il suo incredibile e storico reportage fotografico di Ultima Thule, ma anche attendere le sei ore che servono al segnale di New Horizons per raggiungere le antenne terrestri. Facile, dunque, comprendere il motivo di tanta euforia al centro operativo della missione presso il Johns Hopkins Applied Physics Laboratory quando è arrivata, con quel segnale, la conferma che la sonda era in salute e aveva riempito i suoi registratori di bordo con i dati scientifici raccolti nel corso del flyby.
Dalle parole di Alan Stern del Southwest Research Institute di Boulder (Colorado), responsabile della missione, emerge l’orgoglio di aver condotto un’esplorazione epocale: «Oggi New Horizons si è comportato come previsto, conducendo l'esplorazione più lontana di qualsiasi altro corpo celeste nella storia: 6,5 miliardi di chilometri dal Sole. I dati ci sembrano fantastici e già stiamo imparando qualcosa di Ultima Thule. Da qui in poi i dati non potranno che essere migliori».
In effetti la prima immagine, raccolta ancora in fase di avvicinamento, mostra una sfocata e curiosa forma di arachide lunga 32 chilometri e larga 16. Già dalle immagini diffuse il giorno seguente, però, emerge un mondo completamente diverso e stupefacente. L’evanescente e strana nocciolina del primo scatto, infatti, lascia il posto a una curiosa accoppiata di oggetti cosmici a contatto, qualcosa di assolutamente nuovo per gli standard astronomici.
New Horizons ha ripreso questa visione d’insieme di Ultima Thule quando era ancora in avvicinamento alla sua meta e si trovava a 27 mila chilometri dal suo obiettivo. Proprio come suggerito dalle occultazioni stellari siamo in presenza di due oggetti; la cosa sorprendente, però, è che i due componenti (uno di 19 km, ribattezzato Ultima, e l’altro di 14 km, Thule) sono a contatto. Crediti: NASA/JHUAPL/SwRI
Per gli astronomi imbattersi una simile struttura costituisce un autentico tuffo nel lontano passato, quando nella densa nube di polveri e gas che circondava un Sole che si era appena acceso stava iniziando l’aggregarsi graduale di ghiacci e polveri. Un processo gerarchico (da granelli insignificanti a oggetti via via sempre più grandi) che in un paio di decine di milioni d'anni soltanto avrebbe portato all’aggregazione dei pianeti terrestri. Queste aggregazioni avvenivano a seguito di urti reciproci, a velocità sufficientemente basse da non ridurre di nuovo tutto quanto in frantumi. Ultima Thule è il risultato del congiungimento di due oggetti di dimensioni rispettabili (19 e 14 km) che, dopo un lento e graduale avvicinamento, si sono appoggiati l’uno all'altro e da allora non si sono più staccati. Dallo studio di questa strana coppia gli astronomi confidano di capire qualcosa di più di come è avvenuto quel processo di accrezione iniziale.
La grafica mostra le possibili tappe che, agli albori del nostro sistema planetario, possono aver portato alla formazione di Ultima Thule. Crediti: NASA/JHUAPL/SwRI/James Tuttle Keane
Nella conferenza stampa dello scorso 3 gennaio, però, sono emerse anche altre caratteristiche di questo fantastico oggetto celeste. Silvia Protopapa (SwRI), New Horizons Co-Investigator, ha rimarcato come Ultima e Thule (così sono stati battezzati i due componenti) sono caratterizzati dallo stesso colore medio – un colore estremamente scuro, molto prossimo a quello dei mari lunari. Questa caratteristica comune è consistente con la formazione di Ultima Thule quale aggregazione di due oggetti accresciuti nella medesima regione ed è la stessa concordanza di colore che caratterizza anche i componenti degli oggetti binari della Fascia di Kuiper che conosciamo.
Benché l’immagine diffusa dal team di New Horizons sia spettacolare – e un vero record di distanza per le sonde che sono state inviate per svelarci il Sistema solare – la risoluzione è ancora troppo bassa per definire la natura delle caratteristiche topografiche di Ultima Thule. Il 2 gennaio, nella prima conferenza stampa del team di New Horizons, Jeff Moore (NASA Ames Research Center), coordinatore del New Horizons Geology and Geophysics Team, era stato molto chiaro nel sottolineare come, per il momento, non sia ancora chiara l’origine di quelle strutture. Non sappiamo, per esempio, se siamo in presenza di rilievi o delle pendici di crateri da impatto. Nuove immagini dovrebbero arrivare a partire dal 7 gennaio, quando New Horizons riapparirà da dietro il Sole e potrà nuovamente comunicare con le antenne terrestri. L’attesa, insomma, è ancora molto alta e l’emozione del 1° gennaio è ben lontana dall’essersi esaurita.
Per restare aggiornati: sito ufficiale di New Horizons