Una (quasi) recensione di Simonetta Pagliani all'ultimo libro di Jonathan Safran Foer, “Possiamo salvare il mondo prima di cena”. Un libro che riflette ancora sull'importanza delle scelte alimentari sulle emissioni di gas serra, e come il modo e la misura dei consumi di carne debbano cambiare per poter rispettare gli Accordi di Parigi. E un libro il cui vero valore sta nella prosa lieve delle pagine che vengono prima e dopo il compendio di previsioni funeste. Crediti immagine: Tumisu/Pixabay. Licenza: Pixabay License
“Noi siamo il Diluvio e noi siamo l’Arca” (quasi una recensione)
di Simonetta Pagliani
Questo libro parla dell’impatto dell’allevamento sull’ambiente. Eppure, sono riuscito a nasconderlo per le 75 pagine precedenti. Mi sono tenuto alla larga da questo tema per (...) la paura che sia una battaglia persa in partenza (...) A parte i vegani, nessuno muore dalla voglia di affrontare l’argomento e il fatto che i vegani ne abbiano voglia costituisce un ulteriore disincentivo (...) adesso dirò le cose come stanno: non possiamo salvare il pianeta se non riduciamo in modo significativo il nostro consumo di prodotti di origine animale
Il libro in questione è “Possiamo salvare il mondo prima di cena” (Guanda editore) e chi ne scrive è Jonathan Safran Foer, che perora la sua tesi già emersa in “Se niente importa” del 2009. I dati inoppugnabili a supporto delle affermazioni di Safran Foer sono condensati in circa 25 pagine, ma sono frutto di una ricerca durata due anni. Il loro impatto è pari a quello di un referto di cancro su un paziente che credeva di avere l’influenza: incredulità, orrore e messa in campo di pensieri a irrazionalità crescente: c’è uno scambio di cartelle, si trovano in rete di demiurghi miracolosi, magari un salto a Medjugorje...
La salute planetaria nelle iniziative internazionali
Eppure, chi si occupa di medicina o di biologia ha appreso quello che c’era da apprendere ben prima di leggere questo libro: già nel 2015, una commissione scientifica indipendente, composta di studiosi provenienti da centri universitari statunitensi, cinesi, britannici, pachistani e cileni, sotto l’egida della Rockefeller Foundation e della rivista medica Lancet, nella sua relazione sulla salute planetaria, portava prove robuste che alla produzione di cibo sia da imputare gran parte del cambiamento climatico (nonché della perdita della biodiversità, del consumo di acqua e dell’interferenza con il ciclo dell’azoto e del fosforo), con l’emissione del 30% dei gas a effetto serra (GHG, greenhouse gases), quelli che, nell'atmosfera, lasciano passare la radiazione solare verso la Terra, ma trattengono la radiazione emessa dalla superficie terrestre, scaldandola.
Il vapore acqueo è il maggior responsabile naturale dell'effetto serra, ma il surriscaldamento è causato dai GHG generati specificamente nell’Antropocene, come l’anidride carbonica, il metano, il protossido di azoto, gli idrofluorocarburi, i perfluorocarburi e l'esafluoruro di zolfo. Il significato del concetto di “salute planetaria” va dalla ricerca delle relazioni dinamiche e sistemiche tra cambiamenti ambientali e salute umana fino al proposito di offrire una sponda sanitaria all’Agenda dell’ONU per lo sviluppo sostenibile 2030.
I dati dell’interazione ambiente–salute e le risposte messe in atto vengono riportati nella relazione annuale denominata The Lancet Countdown e ogni approccio proposto deve essere strategicamente legato a quelli della WHO Global Strategy on Health, Environment and Climate Change e ai Sustainable Development Goals (SDGs), agli Accordi di Parigi e ai progetti di agenzie internazionali come WHO Health Emergency and Disaster Risk Management Framework, Sendai Framework for Disaster Risk Reduction e Post-2020 Global Biodiversity Framework.
La rivoluzione copernicana del cibo sostenibile
Si chiama The World in 2050 (TWI2050) l’iniziativa di ricerca scientifica globale che prova a implementare l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite tenendo in conto le esigenze economiche dei Paesi in via di sviluppo e puntando all’equità e alla sconfitta della povertà e della denutrizione. Certo, si parla di una rivoluzione copernicana: come si apprende da una scheda del Ministero dell’istruzione, dell’Università e della ricerca (MIUR) e del Centro studi internazionali di geopolitica (CeStInGeo), infatti, nel 2011 i Paesi ricchi (con il 20% della popolazione del pianeta) hanno prodotto e consumato il 60% della carne avicola, e il 40% della carne rossa e quasi il 40% dei cereali (soprattutto mais) viene coltivato per uso zootecnico: mentre una parte del mondo è denutrita, quella che più produce cibo ha una dieta doppiamente insalubre, per l’individuo e per il pianeta (vedi la figura).
Worldwide Annual Meat Consumption Per Capita 2011, ChartsBin.com, viewed September 22nd, 2019
Gli Accordi di Parigi sul contenimento dell’aumento di calore a 1,5 °C entro il 2050 non potranno essere rispettati solo con l’approvvigionamento energetico da fonti non fossili, se non si cambiano il modo e la misura dei consumi di carne, prima fonte di metano e di ossido di azoto: solo la trasformazione della produzione di cibo in senso sostenibile per l’ambiente potrebbe portare, entro quella data, a una diminuzione dei gas a effetto serra.
Sapere e credere
Il vero valore del libro di Jonathan Safran Foer sta nella prosa lieve delle pagine che vengono prima e dopo quel compendio di previsioni funeste. “Sapere già” non può in alcun modo vicariare la lettura di quelle pagine, pena la perdita dell’occasione di misurare quanto risuoni dentro la propria coscienza (somma di cervello, anima e reazioni somatiche) il rischio di un’estinzione globale. La maggior parte della gente, almeno nei Paesi occidentali, è informata sui cambiamenti climatici; ma sapere senza credere, avverte lo scrittore, è come non sapere, e credere è davvero possibile solo con testa e pancia insieme. In quelle pagine, piene di aneddoti che sono traslati, quasi similitudini omeriche, legati alla Storia o alla sua storia personale, c’è il racconto di un avvicinamento alla consapevolezza (il suo), in una continua disputa con la propria anima: l’asserzione di Carl Gustav Jung secondo cui “la gente farà qualsiasi cosa, non importa quanto assurda, per evitare di incontrare la propria anima”, non riguarda certo Jonathan Safran Foer, che, al contrario, si mette alla prova senza cautele prima di dire “Eccomi” (per parafrasare il titolo, ma anche il nocciolo, del suo ultimo romanzo).
Durante la lettura, il pensiero corre (per vie che talvolta restano ignote) e arriva al libro di David Grossman “Caduto fuori dal tempo”, che con altrettanta forza colpisce alla bocca dello stomaco: forse, l’analogia sta nel fatto che la perdita di un figlio non solo è un’indicibile devastazione a livello affettivo, ma è anche, a livello biologico (un livello cui neppure Homo sapiens può sottrarsi) il fallimento della proiezione nel futuro di una parte di sé. Fallimento abissale, se si crede, come chi scrive, che tutta la vita animale (e anche quella umana, quindi) ruoti unicamente intorno a due istinti, quello di sopravvivenza e quello di conservazione della specie e che il resto sia solo sovrastruttura.
L'idea che i cambiamenti climatici finiranno per estinguere il genere umano è spaventosa, proprio perché deflagra nel nucleo stesso del baratto che la coscienza elabora tra la rassegnazione alla mortalità individuale e la speranza di conservare la propria impronta genetica sul pianeta. Forse è questa paura, di rientrare nel buio cosmico da cui siamo stati tratti, che sostiene la ricerca e la divulgazione di così tanti studiosi che, pure, hanno un’età che pone essi stessi (e anche i figli) fuori dalla portata delle loro conseguenze. È emblematico il caso del novantatreenne David Attenborough, uno dei massimi divulgatori scientifici a livello mondiale, che continua a fare documentari (“Our Planet” è ora su Netflix) per ricordare alla gente la meraviglia del mondo “Se non riesci a coglierla, o se non te ne importa nulla- egli dice- non farai mai nulla per proteggerlo ".
Bibliografia
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Safran Foer J. Possiamo salvare il mondo prima di cena. Guanda, Milano 2019
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Whitmee S, Haines A et al. The Rockefeller Foundation–Lancet Commission on planetary health. Safeguarding human health in the Anthropocene epoch: report of The Rockefeller Foundation–Lancet Commission on planetary health. Lancet 2015; 386: 1973–2028
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Watts N, Amann M et al. The 2018 report of the Lancet Countdown on health and climate change: shaping the health of nations for centuries to come. Lancet 2018; 392: 2479-2514
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Haines A, Hanson C et al. Planetary health watch: integrated monitoring in the Anthropocene epoch. Lancet Planet Health 2018; 2: e141-e143
La disputa sulle fonti sull'impronta carbonica degli allevamenti
di Debora Serra
Nel libro “Possiamo salvare il mondo, prima di cena” si provano diversi sentimenti: incredulità, rabbia, scoraggiamento, ma credo che niente possa superare lo stupore di trovarsi di fronte a statistiche che sembrano raccontare storie diverse. Infatti, nel citare la percentuale di emissioni di gas serra prodotta dal settore zootecnico, Jonathan Safran Foer riporta due valori tra loro molto distanti. Il primo è 18%, come affermato nel rapporto “Livestock’s Long Shadow”, pubblicato dalla FAO nel 2006, mentre il secondo è che questa cifra sia almeno del 51%, come riportato nell’articolo “Livestock and Climate Change” pubblicato dal Worldwatch Institute nel 2009.
Possibile che in tre anni ci sia stato questo cambiamento così drastico? Assolutamente no. La risposta è invece insita nella metodologia e nei diversi dati inclusi nei due documenti, un punto su cui Safran Foer si sofferma in chiusura del libro, mettendo in fila le differenze e le critiche che si sono rivolti gli autori dei due documenti per poi chiudere con quello che lascia intendere essere il motivo alla base di tale differenza.
La differenza principale tra i due rapporti è che la ricerca del Worldwatch Institute considera anche la CO2 non assorbita dalle piante che sono state abbattute, ritenendo che questa mancanza equivalga a un aumento delle emissioni di pari entità. Il concetto, ripreso in seguito anche in un articolo pubblicato sul New York Times da Robert Goodland (uno dei due autori di “Livestock and Climate Change”), è che il 51% tiene conto della crescita esponenziale della produzione zootecnica e della deforestazione.
A leggere le pagine del libro di Safran Foer, il documento FAO sarebbe in difetto sotto molti punti di vista: alcuni dati sarebbero stati trascurati (come la respirazione animale, la deforestazione in Argentina e l’allevamento ittico), altri utilizzati in modo non appropriato (non è stato conteggiato l’utilizzo della terra e sono stati sottostimati sia il metano prodotto che il numero di capi). Inoltre, i ricercatori del Worldatch Institute sottolineano che il rapporto FAO non considera la quantità notevolmente più alta di gas serra attribuibili ai prodotti di origine animale, rispetto alle alternative vegetali, per refrigerazione, cottura e smaltimento di liquami e sottoprodotti.
Sul fronte opposto, la difesa più serrata del lavoro pubblicato dalla FAO è comparsa nell’articolo “Livestock and Greenhouse Gas Emission: The Importance of Getting the Numbers Right”. Il testo, pubblicato su Animal Feed Science and Technology nel 2011, oltre elogiare il «ben documentato» rapporto FAO, critica il lavoro fatto dal Worldwatch Institute accusandolo di non essere stato sottoposto a peer review, senza tuttavia citare che due dei firmatari di questo contro-articolo sono anche tra gli autori del rapportoFAO. Secondo gli autori dell’articolo “Livestock and Climate Change”, il loro testo è stato sottoposto due volte a peer review mentre, al contrario, non sono disponibili informazioni su una peer review del documento FAO.
La segnalazione dell’accordo di collaborazione tra la FAO e l’industria zootecnica (sottoscritto nel 2012 con lo scopo di valutare le prestazioni ambientali del settore zootecnico e migliorarle) e l’abbassamento della stima FAO dal 18% al 14,5% riportata nel rapporto del 2013 “Tackling climate change through livestock”, chiudono la disanima. Safran Foer, che propende decisamente per le stime decisamente più catastrofiste del Worldwatch Institute.