Qualche considerazione sul servizio di Piazzapulita sul reparto di terapia intensiva di Cremona: dagli effetti su chi si è immedesimato a quelli su chi non è preoccupato, per concludere con alcune importanti osservazioni sul terreno che consente alle infezioni di diffondersi, in Italia forse più che altrove, e su cui varrebbe la pena indagare di più.
Non poteva passare inosservato il servizio di Piazzapulita sul reparto di terapia intensiva di Cremona, sotto pressione per l’epidemia di Covid-19 in corso. È evidente che la redazione del programma condotto su La7 da Corrado Formigli, nel confezionare un video come quello trasmesso ieri sera, ha voluto testimoniare la gravità della situazione, aumentarne la consapevolezza nel pubblico e mostrare lo sforzo del personale. Ma molti, come chi scrive, non lo hanno apprezzato, anzi, ne sono stati disturbati.
Senza dubbio la redazione, per poter andare in onda, avrà ottenuto il consenso dei familiari dei ricoverati, ma se fossi stata io, seminuda e intubata a pancia in giù su un lettino, non avrei avuto piacere che una telecamera indugiasse sul mio corpo inerme, usandolo, probabilmente a mia insaputa, seppure per sensibilizzare l'opinione pubblica.
Che effetti può provocare?
A queste considerazioni di principio sull’opportunità di quel servizio, legate al diritto alla privacy dei malati, ne vorrei aggiungere altre, sull'impatto reale che queste immagini potrebbero avere.
Ci sono persone, forse particolarmente impressionabili, che non hanno dormito stanotte, per aver visto quelle scene. Altre, anziane, fragili, ammalate, si sono immedesimate in prima persona in quelle figure distese. Altre che hanno persone care ad alto rischio ne hanno dedotto che queste presto potrebbero trovarsi lì. Si tratta di categorie già terrorizzate dalla comunicazione apocalittica che è stata fatta finora, con una pausa di 24 ore falsamente rassicuranti all’inizio di settimana scorsa: il servizio di ieri ha dato loro un colpo di grazia, e non solo per le immagini prese in rianimazione. Tutto il prodotto era finalizzato ad alimentare la paura: dalle scene che mostravano passanti con la mascherina sotto una pioggia battente, al tono di voce concitato dello speaker, alla musica da thriller in sottofondo.
Oltre ai telespettatori con malattie fisiche, non si possono dimenticare quelli che soffrono di vari gradi di disturbi mentali molto più comuni di quanto si creda. Esistono gli ipocondriaci veri, non quelli che si definiscono così per scherzo, e le persone con disturbo ossessivo compulsivo vero, non soltanto precisine e puntigliose: quelli che si stanno scarnificando le mani a furia di lavarsele ottanta volte al giorno, che sono barricati in casa disinfettando continuamente tutte le superfici.
La reazione di chi non è preoccupato
Sono eccezioni, certo. La stragrande maggioranza della popolazione ha il problema opposto, un senso di leggera incoscienza da ballo sul Titanic che affonda, la sensazione che alla fine sarà il solito falso allarme, che tutto assomiglia troppo alla sceneggiatura di un film per essere vero, per toccarci da vicino. Sono le famiglie che approfittano della chiusura delle scuole per andare in vacanza, i ragazzi che diffondono meme e video divertenti su Whatsapp, i “benaltristi” che citano il numero di vittime per incidenti stradali per ridimensionare le cifre di questa crisi. Su questo “target”, in presenza di un pericolo reale, la comunicazione del rischio insegna che è importante alzare lo stato di allerta, perché si capisca che seguire le indicazioni delle autorità, in questo momento, è essenziale per il bene di tutti.
Questa fetta più larga del pubblico, davanti a immagini così forti, può avere due reazioni. Una, se vogliamo "positiva", è quella che chi ha pensato questo servizio probabilmente voleva ottenere: dare uno scossone alle coscienze affinché ci si renda conto della gravità di Covid-19, che "non è solo una comune influenza", come qualcuno ha ripetuto. È vero. Ed è importante saperlo.
Ma insistere a descrivere la malattia con le sue manifestazioni più gravi, che per fortuna colpiscono solo una minoranza di pazienti, e di solito solo dopo un ingannevole esordio molto più sfumato - come peraltro si precisa, a voce, nel servizio - può essere controproducente. Se il pubblico impara a identificare Covid-19 con una condizione che non ti permette di respirare autonomamente, è ancora più facile che finisca col sottovalutare i sintomi più banali, la febbricola, la tossettina secca, che invece sono i primi segnali da riconoscere. Se Covid-19 è una malattia così grave, io, che non mi sento troppo bene, avrò un semplice raffreddore. Non serve che senta il medico. Non serve che mi isoli o adotti precauzioni. E questa reazione sarà tanto più naturale quanto più quella prospettiva, anche per effetto di una comunicazione come quella di ieri sera, mi fa paura.
Ma la paura può anche creare un'altra "reazione di evitamento", come si dice. Immagini forti come quelle di ieri provocano spesso un rifiuto: spengo il televisore o cambio canale, come hanno fatto alcuni, oppure cerco un appiglio per rassicurarmi. Ci mette poco, chi segue questa strada, per scoprire che il video di ieri sera poteva essere stato girato in qualunque reparto di rianimazione in qualunque altro momento. Che quello è l'ambiente “normale” della terapia intensiva. Sempre, non solo "ai tempi del Covid-19". Che anche l'influenza, e soprattutto A(H1N1), il virus della pandemia cosiddetta suina, considerata da molti "un falso allarme", ha provocato e provoca polmoniti di questo tipo, nei giovani adulti più che negli anziani. Eppure si trattava, come ripeteva lo spot predisposto dall’allora Ministro della salute, per voce di un petulante Topo Gigio, “di una normale influenza”.
Dietro alle immagini shock
Ci sono piuttosto altri indizi interessanti che traspaiono, involontariamente, dal servizio televisivo. Il primo è l’enorme distanza che continua a esistere tra la sincera volontà di contrastare l’epidemia cambiando le nostre abitudini e la resistenza con cui queste ci restano addosso. Altrimenti non sarebbero abitudini, per definizione difficili da cambiare.
L’incontro con il professor Massimo Galli, il quale giustamente mette in luce l’eccezionale gravità della situazione, si apre tuttavia con una stretta di mano, gesto che, ci viene ripetuto da giorni, dovremmo imparare a sostituire con altre forme di saluto. L’intervistatore, inoltre, è proteso verso l’intervistato attraverso la scrivania: difficile pensare che stiano mantenendo la distanza di sicurezza di oltre un metro raccomandata. Vediamo inoltre il professore che, inavvertitamente, mentre parla, si tocca il viso, e in particolare il naso. Proprio quello che dobbiamo esercitarci a non fare.
All’Ospedale di Cremona, in un contesto molto più pericoloso dell’ufficio del professore all’Ospedale Sacco di Milano, vediamo anche di peggio: il giornalista parla faccia a faccia, a pochi centimetri di distanza, con il medico che gestisce lo smistamento dei pazienti sotto il tendone allestito davanti al pronto soccorso.
Nel reparto di terapia intensiva di uno dei luoghi epicentro della crisi, poi, ci troviamo costretti ad assistere a una scena che non vorremmo mai vedere (5:05): un operatore si abbassa la mascherina e si pulisce il naso con la mano prima di mettersi a scrivere con la penna su una cartella. Chi la prenderà in mano dopo di lui non penserà certo a disinfettarla.
Il punto non è l’errore del singolo, su cui vorrei che non ci si soffermasse, ma il terreno che consente alle infezioni di diffondersi, in Italia forse più che altrove. Una atavica insofferenza a seguire le regole, una cultura poco abituata a queste attenzioni, ma negli ospedali e nei luoghi di assistenza in generale anche situazioni legate a difficoltà pratiche, favoriscono da sempre, ben prima di Covid-19, la diffusione di germi, soprattutto in ospedale. Lo tsunami del coronavirus sta travolgendo il nostro sistema sanitario mostrando la forza e l’importanza del servizio sanitario nazionale, della sanità pubblica, ma anche svelandone tutte le debolezze. Il controllo delle infezioni in ospedale non è certo un suo punto di forza, ammettiamolo. Siamo tra i Paesi europei con il maggior numero di infezioni correlate all’assistenza ospedaliera e abbiamo la maglia nera per infezioni resistenti agli antibiotici: entrambi questi elementi sono spie di una situazione carente, non solo per superficialità e disattenzione, ma anche per obiettive difficoltà dovute alla carenza di risorse, in termini di materiale, di spazi e soprattutto di personale. Una situazione che purtroppo la crisi non fa che peggiorare, proprio quando i protocolli per il contenimento dell’infezione dovrebbero essere più rigorosi. Non possiamo ovviamente sapere, oggi, quanto questo possa incidere sulla diffusione di Covid-19 in Italia, spropositata rispetto ad altri Paesi europei. Grecia e Portogallo non sono messi molto meglio di noi, ma non hanno nemmeno lo stesso volume di traffico con l’Oriente. Su questi aspetti forse varrebbe i la pena indagare di più.
Fonte
La trasmissione Piazza Pulita sulla terapia Intensiva dell'Ospedale di Cremona: https://www.la7.it/piazzapulita/video/coronavirus-dentro-il-reparto-di-terapia-intensiva-05-03-2020-311522