Il 28 marzo è stato pubblicato il più ampio studio retrospettivo finora condotto con l’intento di definire le caratteristiche cliniche e di laboratorio che distinguono chi ha una prognosi infausta da chi ha maggiori possibilità di sopravvivere (la guarigione, nel senso di restitutio ad integrum, come anche l’immunità alla reinfezione, esula da queste prime valutazioni). Lo studio ha selezionato, in due ospedali di Wuhan, i 191 pazienti adulti ricoverati tra dicembre e gennaio che avevano concluso la loro degenza (137 in quanto dimessi e 54 perché deceduti). L’esame dei dati indica che:
- l’età avanzata aumentava la probabilità di morire del 10%;
- un punteggio alto al SOFA (Sequential Organ Failure Assessment, che verifica la funzione d’organo in corso di sepsi) quintuplicava la probabilità di decesso;
- una frequenza >24 atti respiratori al minuto la decuplicava;
- i linfociti erano significativamente più alti in chi sarebbe sopravvissuto;
- le femmine avevano un rischio di morte del 40% inferiore ai maschi;
- i fumatori raddoppiavano il rischio di morte.
Ma il dato più rimarchevole è che un D-dimero >1 μg/mL aumentava il rischio di morte di ben 18 volte.
Che cosa è il D-dimero
Il D-dimero è un esame importante, perché misura un prodotto dosabile della fibrinolisi (la degradazione di un coagulo di fibrina da parte della plasmina).
Se non c’è da riparare una lesione vasale che provoca emorragia, il D-dimero deve essere assente nel sangue; quindi, la sua presenza indica che è in atto un processo coagulativo fuori controllo. Tanto per complicare, l’esame non dice “bianco o nero”, ma va interpretato, avendo il limite di un’alta sensibilità (se è basso, si può escludere un evento trombo-embolico), ma di una bassa specificità: valori elevati non danno la certezza di un tromboembolismo in atto, perché possono avere altre cause, tra cui proprio un’età molto avanzata (solo il 9% nei pazienti oltre gli 80 anni ha valori normali).
Al letto di un malato sospetto Covid 19, però, si assume ipso facto che un D-dimero alto sia segnale di una coagulazione sregolata dalla massiccia presenza di citochine infiammatorie. D’altronde, uno stato d’ipercoagulabilità è sempre riscontrabile nei pazienti con un’infezione polmonare (riguarda circa il 90% dei ricoverati per polmonite acquisita in comunità), sia perché questa induce la disfunzione delle cellule endoteliali, sia a causa dell’ipossia e della conseguente aumentata viscosità del sangue. In più, nel paziente con polmonite da SARS-CoV2 l’infiammazione polmonare particolarmente intensa genera un aumento di trombopoietina e quindi di piastrine.
I malati di Covid muoiono spesso per trombosi polmonare
Le prime autopsie effettuate sui deceduti per Covid-19 mostrano che l’aggravamento e l’exitus sono dovuti non solo (e non tanto) allo scadimento della ventilazione, ma soprattutto a quello della perfusione, dovuta a trombosi polmonare massiva o micro-tromboembolia diffusa anche ad altro organi.
L’infiammazione e la coagulazione sono fenomeni interconnessi: la coagulazione può essere attivata da molte sostanze rilasciate durante la distruzione dei tessuti causata dall’infezione e, per converso, altri meccanismi intervengono per dissolvere la coagulazione e impedire la formazione di trombi [1].
Nella sepsi (che può essere di origine virale, oltre che batterica), infiammazione e coagulazione si amplificano a vicenda: aumentano le proteine di fase acuta (le citochine proinfiammatorie) che coinvolgono piastrine, monociti e neutrofili nei meccanismi della coagulazione, mentre si esauriscono i sistemi di anticoagulazione naturale come la proteina C, la cui funzione consiste nel favorire la dissoluzione del coagulo e che esplica anche un’attività antinfiammatoria.
Per le complicanze da sepsi severa, alcuni medici intensivisti, in epoca pre Covid-19, puntavano sulla normalizzazione dei livelli di proteina C circolante [2]. Anche perché eparina e anticoagulanti non si erano dimostrati sempre efficaci in termini di sopravvivenza nel trattamento della disfunzione d’organo da sepsi severa.
Perché oggi si usa l'eparina e altri anticoagulanti
Il trattamento (e la prevenzione) con anticoagulanti viene, però, oggi proposto nella Covid-19, proprio perché la polmonite da SARS-CoV2 può essere complicata da una coagulopatia, la cui frequenza specifica e il cui impatto prognostico sono oggetto di studio da parte dei ricercatori di tutto il mondo.
I ricercatori cinesi di Wuhan hanno pubblicato il 3 aprile un confronto retrospettivo tra le caratteristiche del quadro clinico di 449 pazienti positivi al coronavirus e ricoverati per polmonite fino alla metà di febbraio e quelle di 104 pazienti ricoverati nello stesso ospedale l’anno precedente, per polmonite da altri patogeni.
- La mortalità dei pazienti Covid-19 era doppia di quello dei non Covid-19 (29,8% vs 15,4%) e riguardava un’età di circa 5 anni maggiore.
- I pazienti che avevano un D-dimero >3,0 μg/mL, se messi in trattamento per 7 giorni con eparina, avevano una mortalità a un mese più bassa di quella dei non scoagulati (32,8% vs 52,4%); il beneficio non si applicava ai pazienti con polmoniti non Covid-19 né a quelli Covid-19 in cui il D-dimero non era alto.
- Come anticoagulante a Wuhan hanno usato le eparine a basso peso molecolare sia per le loro ipotizzate proprietà antinfiammatorie sia per l’indisponibilità, in Cina, dei nuovi anticoagulanti.
L’efficacia del trattamento eparinico è, comunque, anche in questo studio, confinata a un gruppo selezionato di pazienti [3].
Dall’Occidente sono arrivati, per ora, solo report di casi singoli o in piccole serie che, più che risultati, offrono alla discussione accademica ipotesi terapeutiche.
Nel frattempo, l’AIFA ha emesso un documento che, oltre a ribadire la necessità (peraltro ben chiara a tutti i medici, ospedalieri e del territorio) di usare le eparine a basso peso molecolare per prevenire il tromboembolismo da allettamento prolungato, dichiara: “Poiché l’uso terapeutico delle EBPM sta entrando nella pratica clinica sulla base di evidenze incomplete e con importanti incertezze anche in merito alla sicurezza, si sottolinea l’urgente necessità di studi randomizzati che ne valutino efficacia clinica e sicurezza”. L’appello è stato raccolto da Pierluigi Viale, ordinario di Malattie Infettive dell’Università di Bologna e direttore dell'Unità Operativa Malattie Infettive del Policlinico Sant'Orsola-Malpighi che guiderà uno studio formale su 300 pazienti sparsi in vari centri italiani, per verificare efficacia e cura di enoxaparina in terapia ospedaliera per il Covid-19.
Si prova anche un altro farmaco per domare la coagulazione, ma per ora senza risultati
In un report statunitense di tre casi, gli autori, coinvolti con la casa produttrice per trattare la polmonite da SARS-CoV2 con D-dimero elevato hanno fatto ricorso al farmaco fibrinolitico alteplase: si tratta di un attivatore del plasminogeno, che aumenta la conversione del plasminogeno a plasmina, l'enzima che degrada la fibrina e, quindi, i trombi.
Il farmaco è stato dosato con prudenza per paura di incorrere in emorragie e non ha avuto successo: dei tre pazienti, aggravatisi nonostante l’iniziale trattamento con idrossiclorochina e azitromicina, uno non è sopravvissuto all’insorgenza di una coagulazione intravasale disseminata (CID), espressione massima del disordine coagulativo perché crea trombosi e, al tempo stesso, emorragie, per via del consumo dei fattori della coagulazione, della iperfibrinolisi e della piastrinopenia. La CID è responsabile di oltre il 70% delle morti per Covid-19, in cui prevale la formazione di trombi, in ogni tipo di vaso e di organo.
Alteplase (fato beffardo) viene prodotto mediante la tecnologia del DNA ricombinante in una linea di cellule ovariche di criceto cinese.