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Donare il sangue per guarire

Crediti immagine: Arek Socha/Pixabay. Licenza: Pixabay License

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Riportano i giornali che ieri una giovane donna incinta, Pamela Vincenzi, ricoverata all'Ospedale Poma di Mantova in condizioni critiche per Covid, si è ripresa dopo l'infusione di due sacche di plasma immune donato da pazienti guariti.

Molto opportunamente, una recente tavola rotonda sul tema aveva come titolo: “Il dono dei guariti contro la pandemia. Plasma e anticorpi nella sfida al Coronavirus”. La discussione fra Giancarlo Maria Liumbruno, direttore del Centro nazionale sangue (CNS), Massimo Franchini, direttore del servizio trasfusionale dell’ospedale C. Poma di Mantova, Gianpietro Briola, presidente nazionale AVIS, Alessandro Gringeri, direttore R&D di Kedrion (società italiana che si occupa della raccolta e del frazionamento del sangue) e Steven Spitalnik, della Columbia University di New York, ha chiarito il ruolo del plasma di convalescenti di Covid-19 come risorsa terapeutica estrema per chi ha la malattia in forma grave.

Il plasma di pazienti guariti era già stato usato nell’epidemia da SARS-CoV-1 del 2003, in quella da H1N1 del 2009, in quella da MERS del 2012 e anche nell’Ebola; i primi a sperimentare questa terapia contro il Covid-19 sono stati gli ospedali cinesi e ora lo fanno i maggiori centri di tutto il mondo, compresa la Mayo Clinic di Rochester. Il Ministero della salute italiano l’ha autorizzata negli stessi giorni in cui l’FDA statunitense emetteva le sue linee guida: in assenza di dati sulla sicurezza, oltre che sull’efficacia, del trattamento, l’uso del plasma è consentito negli studi sperimentali o per uso compassionevole in caso di insufficienza respiratoria grave, shock settico o scompenso multi-organo. Il donatore deve essere privo di sintomi da almeno 14 giorni e con alto titolo anticorpale; entro 8 ore dal prelievo, il plasma può essere congelato a -18 C°, con scadenza a un anno.

Lo studio

Lo studio italiano “Plasma from donors recovered from new coronavirus 2019 as therapy for critical patients with Covid-19” ha come capofila l’IRCCS ospedale San Matteo Pavia che, insieme agli ospedali Carlo Poma ASST di Mantova, Maggiore di Lodi e ASST di Cremona, ha cominciato la ricerca dei pazienti guariti da Covid-19 per la raccolta del plasma. Per garantire la sicurezza del ricevente, il Centro nazionale sangue ha preteso criteri di selezione dei donatori ancora più restrittivi, aggiungendo ai soliti esami altri che escludano epatite A, epatite E e parvovirus B-19. Saranno trasfusi 250-300 ml di plasma, per un massimo di 3 volte nell’arco di 5 giorni, inizialmente a 49 soggetti (che, nelle intenzioni, diventeranno 200) per valutarne la mortalità, il tempo di svezzamento dalla ventilazione assistita, la modificazione della carica virale (l’efficacia del plasma si traduce in una sua diminuzione) e la risposta immune.

A chi darlo

Il primo limite dell’uso del plasma è la fase della malattia in cui si posiziona: si tratta di una terapia emergenziale per pazienti intubati o in CPAP in fase critica, con grave sindrome respiratoria insorta da non più di 10 giorni e, in primis, per gli immunodepressi. L’uso del plasma, inoltre, non è estendibile alla totalità dei pazienti gravi, perché 200-250 ml di un fluido contenente proteine e fattori della coagulazione possono essere troppi da infondere a chi ha problemi di circolo o di trombosi. Il secondo limite, per cui, finora, è stato possibile trattare solo il 20% dei pazienti che avrebbero potuto trarne giovamento, sta nella difficoltà di reperire donatori guariti cui fare la plasmaferesi: il plasma utile, infatti, non è quello dei positivi asintomatici, ma quello dei guariti o dei convalescenti.

Un ponte in attesa del vaccino

Per lo studio lombardo si è subito resa disponibile l’AVIS della provincia di Mantova, cui è iscritta la maggior parte dei donatori. A chi eventualmente si chieda quale sia il senso di parlare di una terapia d’interesse strettamente intensivistico, va risposto che la raccolta del plasma convalescente trascende il suo utilizzo per il trattamento acuto: l’appello ai donatori guariti da Covid-19 ha anche l’obiettivo di ottenere la materia prima da trasferire all’industria in cambio della produzione di immunoglobuline specifiche, i cui prototipi sperimentali potrebbero essere pronti tra pochi mesi. È vero che le immunoglobuline (Ig) danno un’immunità passiva che non si protrae oltre 3-4 settimane; tuttavia, esse potrebbero costituire una difesa ponte, in attesa del vaccino.

Da dove arriva il sangue

L’obiettivo è, ancora una volta, l’autosufficienza. Anche al di fuori dell’attuale contesto emergenziale, infatti, il sangue del milione e mezzo di donatori volontari italiani (la metà dei quali abita in Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia), copre solo il 30% della necessità di emoderivati. Si pensi, per fare un esempio, che la totalità delle immunoglobuline antitetaniche è prodotta con sangue non italiano: in un momento di crisi globale, potrebbero non essere più disponibili.

L’importanza del sangue e dei suoi derivati nella terapia di molte malattie non è nota al grande pubblico e l’emergenza coronavirus può essere l’occasione per aumentare questa consapevolezza.

Chi può donare il sangue

Può donare qualsiasi persona di peso non inferiore a 50 kg e di età tra i 18 e i 65 anni, che verrà preliminarmente sottoposta a visita medica e ad analisi di controllo presso le strutture trasfusionali ospedaliere o i centri di raccolta gestiti dalle associazioni. La periodicità della donazione è una garanzia di affidabilità dell’approvvigionamento e dà al donatore il benefit del controllo clinico ed ematochimico regolare (vedi box).

È bene chiarire che ai volontari che si presentano per donare il sangue non viene fatto il tampone nasofaringeo che ricerca il coronavirus, quando non previsto dalla normativa regionale, dal momento che si può donare anche se si è portatori asintomatici di SARS-CoV-2, che non infetta per via ematica.

L’attuale legge prevede il prelievo di circa 450 ml di sangue, che cade dal braccio del donatore alla sacca di raccolta posta più in basso; a seconda del calibro della vena, la procedura si conclude in una decina di minuti. Si può donare sangue intero ogni 3 mesi (le donne in età fertile, ogni 6 mesi), plasma in misura di 10 litri/anno e piastrine 6 volte/anno.

Il ripristino spontaneo della parte liquida (circa il 90%) del sangue avviene entro poche ore; i fattori della coagulazione e il fibrinogeno si normalizzano in 24 ore e le immunoglobuline in 48 ore. Il recupero dei globuli rossi avviene entro 7-10 giorni, mentre la perdita di piastrine e globuli bianchi non è significativa.

La plasmaferesi

A partire dagli anni ottanta del secolo scorso, si è sviluppata l’aferesi (dal greco aphairéō = sottraggo), una tecnica che seleziona l’emocomponente voluto e restituisce gli altri al donatore: per mezzo di un separatore cellulare che funziona per centrifugazione o per filtrazione, viene tolta dal sangue la parte non corpuscolata, il plasma, mentre le cellule vengono re-infuse al donatore. Il separatore cellulare a flusso discontinuo prevede un’unica via di accesso alla vena, mentre il separatore a flusso continuo, che preleva e reinfonde in contemporanea, richiede due vie di accesso, una per braccio.


Durante l’aferesi, al donatore viene somministrato l’anticoagulante ACD–A (acido citrico e zucchero destrosio) che impedisce al sangue di coagularsi, otturando i circuiti.
 Per essere ammesso alla donazione di plasma in aferesi è sufficiente un’emoglobina ai limiti inferiori della norma, perché il prelievo non riduce le riserve di ferro, non includendo i globuli rossi.

Il tempo di donazione di plasma varia da 30 a 60 minuti, in rapporto al valore dell’ematocrito; al donatore viene infusa soluzione fisiologica durante la fase di restituzione delle cellule e viene dato da bere durante e dopo la donazione.


Con l’aferesi si possono isolare anche le piastrine, i globuli rossi, i globuli bianchi e le cellule staminali circolanti nel sangue periferico (staminoaferesi), adeguatamente stimolate con sostanze mobilizzanti (fattori di crescita) a spostarsi dal midollo al sangue periferico.

Donazione come partecipazione civica

“Dono” è la parola chiave del sistema trasfusionale, che rimanda sia alla normativa a tutela della sua gratuità sia alla filosofia condivisa dal volontariato territoriale, che ha appena fatto arrivare una risposta formidabile all’appello di urgente richiesta di sangue seguita all’inizio del lockdown: la raccolta di sangue era andata in crisi per le incertezze dei donatori sull’accesso ai centri, poi risolte da una capillare campagna AVIS d’informazione.

Lo spirito di servizio di chi dona il sangue emerge dalle parole di Ermanno Mazza, docente di Scienze dell’educazione dell’Università di Parma e direttore scientifico della Scuola permanente di formazione dell’Avis Regionale: “Abbiamo bisogno di essere riconosciuti, di contare per qualcuno, di sentirci parte-di, di essere confermati nel nostro esistere; ma abbiamo anche il bisogno di corrispondere alle aspettative degli altri, di ri-conoscere gli altri, di condividere la vita con gli altri, di sentirci responsabili degli altri (nel senso etimologico del termine: respondeo, rispondere)... E questo spirito ha richiami e rimandi che toccano corde cruciali dell’esperienza, quali quella della relazione, e quindi alterità e responsabilità, quella del futuro, e quindi progettualità e speranza, quella della libertà, e quindi la questione dei valori e delle scelte morali”.

 

Esami periodici pre donazione

Gli esami obbligatori per la protezione del ricevente sono: ricerca anticorpi anti HIV (Human Immunodeficiency Virus), anti HCV (Hepatitis C Virus), antigene di superficie del virus dell’epatite B (HBsAg), sierodiagnosi per la sifilide, HCV RNA. Gli esami raccomandati (obbligatori in alcune Regioni) sono: HIV RNA, HBV DNA. Gli esami eseguiti per verificare la salute del donatore sono: creatininemia, glicemia, elettroforesi proteica, emocromo, ferritinemia, ALT, colesterolemia, trigliceridemia.

Storia dell’emotrasfusione

Il plasma è la parte liquida del sangue che contiene la parte corpuscolata (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine) e altre componenti. I tentativi di trasfusione nell’uomo di sangue animale, ma anche di sangue umano, fallirono, finché, all’inizio del 1900, Karl Landsteiner (premio Nobel per la medicina nel 1930) scoprì che l’incompatibilità trasfusionale era dovuta all’esistenza di diversi gruppi sanguigni e del fattore Rh, trasmissibili secondo le leggi di Mendel.

Nel 1914 si capì che aggiungendo al sangue il citrato di sodio per non farlo coagulare e destrosio per poterlo conservare, si potevano fare trasfusioni indirette, in alternativa a quelle da braccio a braccio; nacquero, così, le banche del sangue, che divennero essenziali per l’enorme fabbisogno delle due guerre mondiali. In Italia, nel 1927, fu istituita l’AVIS (Associazione volontari italiani del sangue).

Nel 1948, la Croce rossa sancì il principio della donazione gratuita e volontaria, che, però, non fu applicato in tutti i paesi: in alcuni, come gli Stati Uniti, le donazioni del sangue erano pagate con le regole del libero mercato.

Negli anni 60 e 70 del Novecento fiorì il commercio internazionale del sangue dai paesi più poveri e la sua raccolta nei bacini a più basso costo come scuole, prigioni e quartieri poveri; il sangue veniva poi trasformato in emoderivati, di cui gli Stati Uniti erano il maggior esportatore.

Attraverso gli emoderivati si sono diffuse molte malattie trasmissibili, finché, nel 1975, l‘OMS ha diramato la prima di una lunga serie di direttive relative alla sicurezza del sangue, la cui importanza ha raggiunto l’apice con l’arrivo dell’HIV nel 1982. In Italia, la donazione di sangue è un atto deciso per scelta informata, compiuto volontariamente, che poggia sull’anonimato sia del donatore sia del ricevente e sulla gratuità: la raccolta di sangue a pagamento, eticamente riprovevole e rischiosa per la sicurezza trasfusionale, è perseguibile per legge in base all’art. 22 della legge 219/2005 della legislazione italiana. In questa stessa direzione si è mossa la Raccomandazione del 1989 del Consiglio d’Europa alle autorità sanitarie degli stati membri.

 
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