fbpx Il "Covid-19" delle api | Scienza in rete

Una specie di covid delle api

Una malattia virale che provoca nelle api un forte tremore, incapacità di volare e morte certa in una settimana si sta diffondendo con una crescita esponenziale nel Regno Unito. A rivelarlo uno studio appena pubblicato su Nature Communications.
Crediti immagine: dife88/Pixabay

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Una volta contratto il virus non resta molto da vivere, una settimana al massimo, poi la malattia si diffonde pian piano attraverso i contatti, mietendo centinaia, migliaia di vittime. Si tratta di un virus a RNA, il virus della paralisi cronica delle api (chronic bee paralysis virus, CBPV) che provoca gravi morie negli sciami di questi insetti. CBPV è in realtà una vecchia conoscenza, ma secondo uno studio appena pubblicato su Nature Communications si starebbe verificando un significativo aumento dei casi, che potrebbe configurare la malattia da esso provocata come emergente.

Il mal nero e il mal della foresta

Lo studio, svolto in Inghilterra e Galles, analizza i dati di monitoraggio degli alveari dal 2007 a oggi: c’è stato un aumento esponenziale dei casi di CBPV e una progressiva estensione dei focolai sul territorio britannico. Nel 2007 la malattia era stata osservata in una sola contea, il Lincolnshire, nel 2017 era presente in 39 contee inglesi (83% del totale) e in 6 gallesi (75% delle contee). La malattia colpisce in focolai con un’estensione di circa 40 chilometri, configurandosi quindi come epidemica.

Il problema non riguarda solo il Regno Unito: negli Stati Uniti la prevalenza è passata dallo 0,7% nel 2010 al 16% nel 2014; in Cina, nel corso di pochi anni si è passati da una prevalenza del 9% al 38%. «Questa grave virosi si diffuse dieci anni fa nel nord Italia, in particolare in Lombardia, Veneto e Trentino, e ha provocato morie negli alveari colpiti», racconta l’entomologo Paolo Fontana, ricercatore presso la Fondazione Edmund Mach di Trento. «È una malattia molto seria. Generalmente si sviluppa verso la fine dell’estate-inizio autunno, uno dei fattori scatenanti è l’affollamento delle colonie. La cosa interessante dello studio britannico è che non c’è un’endemicità, ma l’epidemia tende a colpire territori interi, con un raggio molto al di là del raggio di volo delle api». Infatti il raggio dei focolai è di 40 chilometri, mentre l’area di foraggiamento tipica di un’ape ha un raggio massimo inferiore ai 10 chilometri.

La scoperta dei virus delle api risale agli inizi del Novecento; oggi, solo per Apis mellifera, se ne conoscono una ventina. CBPV è stato uno dei primi a essere isolato, nel 1963. «Prima che venisse identificato il virus, in Italia questa patologia era conosciuta come due diverse malattie: il mal nero e il mal della foresta. Una delle manifestazioni della malattia è la perdita della peluria dell’addome, quindi le api assumono un aspetto simile a quello di un moscone, nere e lucide», racconta Fontana. «La perdita del pelo non è un’alopecia, ma è dovuto al fatto che le altre api mordono con le mandibole quelle malate e quindi le privano della peluria superficiale. In taluni casi possono farsi a pezzi tra di loro».

Le api affette dal virus CBPV manifestano paralisi degli arti, non sono in grado di volare, perché le ali si accartocciano, e hanno un tremore diffuso, dovuto alla diffusione del virus nei centri nervosi. Le api malate si raggruppano all’ingresso dell’alveare e vengono appunto respinte dalle api guardiane. «La malattia colpisce le api adulte e si trasmette attraverso i contatti diretti, gli scambi di cibo, le feci. Nel giro di al massimo sei giorni le api muoiono. Questo comporta il rapido decesso di un numero elevato di api, perché generalmente dal primo contatto alla manifestazione dei sintomi possono passare sei giorni e poi in 5-7 giorni l’ape malata muore. Quindi quando si manifesta la malattia si ha un rapido collasso delle colonie. In più di un mio apiario in Veneto, quando si diffuse la malattia dieci anni fa, ho osservato nel giro di due mesi la perdita del 40% delle colonie».

Un insetto prezioso, tante minacce

Le api sono popolari soprattutto per la bontà e l’utilità dei loro prodotti. Non tutti sanno che hanno un ruolo centrale anche per la biodiversità floristica, in quanto impollinatori. Quindi una diminuzione di questi insetti comporta effetti a catena sulla vegetazione. Gli insetti impollinatori non solo forniscono un servizio ecosistemico, ma danno anche un contributo fondamentale per l’agricoltura: secondo la FAOcirca l’80% della produzione alimentare in Europa dipende dalla presenza di insetti impollinatori, incluse le api. Il valore economico dell’impollinazione è fino a dieci volte superiore al valore del miele che producono. L’UE stima che il valore della produzione agricola annua direttamente legata agli insetti impollinatori sia 15 miliardi di euro. Con la diminuzione delle api e degli insetti impollinatori in genere, in alcuni Paesi nei frutteti si è dovuto ricorrere all’impollinazione meccanica o manuale.

In Europa circa il 9% delle specie di imenotteri (l’ordine di insetti che include le api, le vespe, i calabroni, i bombi) sono minacciate di estinzione, secondo la European Red List. Le specie in declino sono 150, mentre sono 13 quelle che mostrano un trend di crescita demografica. La maggior parte degli insetti in declino sono endemici. Nel 2018 è stata avviata la EU Pollinators Initiative, un programma di monitoraggio su scala unionale per sviluppare conoscenze scientifiche sul declino degli imenotteri e sull’identificazione delle cause.

In Italia sono stati intrapresi, a partire dal 2009 diversi piani di monitoraggio su scala nazionale, l’ultimo dei quali è BeeNet2. In realtà, le cause del declino, almeno per le api, sono piuttosto note, e sono legate alle attività antropiche. Si tratta di una serie di fattori che si sovrappongono: in primis il passaggio all’agricoltura intensiva e l’utilizzo massiccio di pesticidi ed erbicidi, che provocano un avvelenamento diretto, in particolare i neonicotinoidi che provocano danni al sistema nervoso. A questo si sommano la diminuzione della diversità floristica agricola dovuta al passaggio a monocolture intensive e alla semplificazione del paesaggio agricolo, il consumo di suolo per l’espansione delle aree urbane, il riscaldamento climatico, l’arrivo di predatori alieni esotici, come il calabrone asiatico Vespa velutina.

Indebolite e stressate, le api sono più suscettibili ai patogeni, e questo spiega in parte anche la diffusione del virus CBPV descritto nel Regno Unito. Tra le minacce più temute, c’è l’acaro Varroa destructor, parassita dell’ape asiatica, che, grazie ai commerci internazionali di sciami di api, ha fatto un salto di specie e ha iniziato a parassitare la comune ape del miele, Apis mellifera. Il commercio internazionale degli sciami comporta tra l’altro il passaggio di diverse altre patologie, e si pensa sia connesso anche all’epidemia di virus della paralisi cronica descritta nell’articolo di Nature.

Soluzioni sostenibili

Varroa destructor provoca la varroatosi delle api, un incubo per gli apicoltori perché provoca ingenti perdite economiche. L’acaro Varroa è un ectoparassita che attacca le api adulte e le pupe, cui succhia l’emolinfa con il suo apparato buccale pungente. Indebolisce le api ed è implicato nella trasmissione di patogeni: ad esempio, pare abbia un ruolo nella trasmissione di virus come quello della paralisi cronica. Per garantire la sopravvivenza delle colonie si devono fare dei trattamenti, ma spesso gli stessi prodotti farmacologici impiegati vanno a colpire le api stesse.

«L'Italia è forse il Paese leader nel mondo per l’utilizzo di tecniche molto sostenibili, mentre all’estero quasi tutti trattano lavarroatosi con sostanze chimiche di sintesi. In Italia sono state messe appunto diverse tecniche apistiche da abbinare all’uso di una sostanza pochissimo tossica per le api, naturalmente presente nel miele e altri prodotti, che è l’acido ossalico», racconta Paolo Fontana. «L'acido ossalico va unito a tecniche apistiche biologiche, come l’ingabbiamento dell’ape regina, la rimozione della covata… Insomma una serie di manipolazioni per mettere l’alveare nelle condizioni ideali affinché l’acido ossalico abbia la massima efficacia. In Italia la tecnica è adottata ormai in modo diffuso da piccoli, medi e grandi agricoltori, biologici e non. È un metodo con una massima efficacia e non comporta alcuna contaminazione dei prodotti delle api. Quindi, con queste tecniche Varroa è passato dall’essere un problema grave a un problema risolvibile. O meglio: è il principale problema dell’apicoltura, ma se un apicoltore sa applicare le scelte giuste, senza cercare scorciatoie chimiche. e si applica per il benessere delle proprie api e per la salubrità dei propri prodotti, può con pazienza gestire in modo sostenibile il problema».

Pensa locale

Lo studio pubblicato su Nature Communications mostra che il virus della paralisi cronica colpisce più le aziende apistiche, rispetto agli apicoltori amatoriali o le piccole realtà. I ricercatori hanno analizzato i dati relativi alle importazioni di api, raccogliendo 130.000 casi. Le aziende apistiche importano soprattutto l’ape regina, che viene sostituita circa ogni due anni, quando diventa meno produttiva. Le api sono state importate da 25 diversi Paesi. Il rischio di contrarre la malattia nelle aziende che hanno importato gli alveari è il doppio di quello degli apicoltori che non importano. Inoltre la malattia è legata alla densità delle api, e aziende più grosse corrono maggiori rischi che questo possa succedere.

Le importazioni hanno già avuto serie conseguenze per le api e per l’apicoltura. Come abbiamo visto, Varroa destructor, naturale parassita dell’ape asiatica Apis cerana, è passato con successo alla nostra Apis mellifera, che era più vulnerabile all'infezione, non essendoci stato un processo naturale che porta allo sviluppo di equilibri ospite-parassita. Lo stesso vale per il fungo unicellulare Nosema ceranae, anch’esso (come suggerisce il nome scientifico) associato all’ape asiatica e confinato naturalmente a quell’area geografica. Nell’UE i primi casi sono stati registrati nel 1998. Oggi è diffuso in Europa, America del Nord e del Sud e Oceania. Il fungo causa disturbi intestinali alle api, una minore ovodeposizione della regina, una riduzione generale delle attività, irrequietezza delle api ormai incapaci di volare, e in ultimo, spopolamento e morte dell’alveare.

Le importazioni internazionali andrebbero quindi ripensate, limitate alla commercializzazione dei prodotti, più che delle api. L’OIE, l’organizzazione mondiale per la salute degli animali, raccomanda di ridurre le importazioni, e di seguire strette regole di quarantena nel caso di commercializzazione di api vive o di materiale genetico. Quindi sarebbe opportuno pensare locale il più possibile.

Oltre a questo bisogna ripensare il modello di produzione agricola, favorire un uso sostenibile del territorio, la diversificazione delle colture, la riduzione delle sostanze di sintesi chimica in agricoltura. Infattibile perché comporterebbe ridurre i profitti? Pensiamoci: gli insetti impollinatori quali le api, come abbiamo visto, giocano un ruolo fondamentale per la nostra esistenza e per la salute degli ecosistemi. La perdita di questi insetti ha un costo non trascurabile dal punto di vista economico e ha ripercussioni sulla nostra salute. Vale la pena agire prima che non sia troppo tardi.

 


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