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Equivoci virali

Alberto Zangrillo, San Raffaele di Milano.

Tempo di lettura: 7 mins

Mi è successo nella mia casa in campagna: entravano delle formiche da una trave del tetto nella stanza da bagno e per più giorni ho cercato di bloccarle con dell’insetticida. Giorno dopo giorno, si stavano diradando tanto da farmi credere di essere sparite e quindi che ormai fosse il caso di smettere con l’insetticida. Al ritorno dopo due weekend, ahimè, la brutta sorpresa: il bagno ne era totalmente invaso e ho dovuto fare un intervento ben più radicale nel sottotetto.

Mi è tornato in mente il fattaccio delle formiche ascoltando in televisione il professor Alberto Zangrillo comunicare con molta enfasi, sino ad affermare che “questa è la verità”, che “il virus è clinicamente sparito” dicendo di fondare la sua convinzione sulla osservazione dei pazienti positivi che si presentano in questi giorni al pronto soccorso del suo ospedale con una patologia minore che “non ha neppure bisogno del medico”. E già qui si contraddice, perché allora non è che il virus sia sparito ma lo sono, semmai, solo le patologie più gravi indotte dal virus. Zangrillo, ordinario di Anestesiologia e Rianimazione e prorettore dell’Università Vita-Salute San Raffaele, critica aspramente i ragionamenti degli epidemiologi affermando che l’unica verità sul coronavirus oggi la possono dichiarare i clinici, unici osservatori dell’evidenza. Anni di ricerca scientifica mi fanno avere una forte allergia per quanti affermano di avere solo loro la verità ma, pur scontando l’enfasi retorica e dando alla parola verità solo l’accezione di “propria convinzione basata sui fatti osservati”, mi permetto di avanzare molte perplessità pur assumendo con molto interesse le sue osservazioni ma anche altrettanto per quelle di altri operatori che in altri ospedali lamentano ancora degli ingressi di malati seri, pur con una frequenza di sicuro ridotta rispetto alle settimane passate.

Allora il quesito “scientifico” che ci si deve porre con molta serietà, e soprattutto con sobrietà, è il seguente: è il virus che “è sparito” o sono le misure di contenimento che lo stanno bloccando? E partiamo da un dato incontestabile: la frequenza non solo di malati ma anche di soggetti positivi è in chiara ed elevata diminuzione, ma questo è un regalo del virus o una conquista delle misure preventive importanti adottate? E magari usciamo dal nostro orticello e guardiamo anche il mondo: cosa succede causa virus negli USA, in Brasile, in Corea del Sud dove dopo gli incontestabili successi hanno ripreso il lockdown, eccetera?

La riduzione dei suscettibili

Sembra che il virus circolasse in Lombardia già dalla fine del 2019, ma non si erano viste tutte le manifestazioni gravi osservate invece a partire da fine febbraio. Una delle possibili ipotesi è che il virus si sia diffuso inizialmente tra la popolazione giovane dando malattie di minore gravità e da questa si siano poi diffuse anche nelle popolazioni più anziane soprattutto in ambienti sanitari, ambulatori ospedali e RSA, e questo abbia creato l’elevato accesso alle terapie intensive e la maggioranza dei deceduti.

Si potrebbe allora ipotizzare (uso il termine ipotizzare e non dimostrare) che il numero dei soggetti maggiormente suscettibili all’evoluzione più grave della patologia si sia ridotto, vuoi perché ci hanno lasciato, vuoi perché loro sono quelli che durante il lockdown si sono maggiormente protetti. Se così fosse, come mostrato nel grafico, anche se l’incidenza del contagio rimanesse costante, diminuirebbero molto le patologie gravi che si sono viste accedere ai pronto soccorso e a esitare in decesso.

Queste osservazioni, se confermate, darebbero l’indicazione dell’opportunità di limitare il lockdown alla popolazione meno fragile, rendendolo magari meno rigido agli altri.

La riduzione della carica virale

Una delle ipotesi accreditate è che la gravità della malattia nei contagiati dipenda anche dalla carica virale che hanno ricevuto. Nella fase iniziale dell’epidemia i soggetti infetti, soprattutto gli asintomatici, non erano riconosciuti e chi si contagiava aveva per lo più un rapporto con il contagiante continuo e massiccio. In molti casi proprio i malati, sia in casa che negli ospedali, non erano riconosciuti nelle prime settimane dell’epidemia come soggetti che potevano contagiare e così veniva trasmessa attorno a loro una carica virale molto elevata e comunque maggiore di quella che poi, durante il lockdown, poteva per lo più darsi durante le misure di distanziamento e l’uso di mascherine.

Anche il riconoscimento precoce di sintomi caratteristici del contagio ha permesso da una parte un trattamento migliore della malattia e dall’altra l’isolamento dei malati e quindi la riduzione della probabilità che essi potessero diffondere una importante carica virale nei loro contatti sociali.

La riduzione dei contatti e quindi dei contagi

Le misure di distanziamento hanno sicuramente avuto una elevata efficacia nella riduzione dei contagi, ottenuta appunto diminuendone la probabilità attraverso la riduzione dei contatti. Anche l’uso massiccio di mascherine, nonostante le note difficoltà del loro reperimento, ha sicuramente avuto un ruolo benefico nella riduzione dei contagi. I grafici evidenziano senza discussione che l’incidenza è diminuita in tutte le Regioni, anche nelle quattro “padane” che erano state tra le più colpite e mostrano che anche l’indice di replicazione diagnostica, l’RDt, è rimasto in tutto il mese di maggio sotto l’unità.

Questa riduzione importante dei contagi può però indurre l’equivoco che sia cambiato il quadro clinico che ne deriva. Infatti i soggetti campionati nella popolazione su cui effettuare i test molecolari orofaringei (tamponi) hanno avuto una frequenza simile giorno dopo giorno ma hanno riguardato via via sempre maggiori quote di asintomatici e di soggetti negativi. Se osserviamo per esempio il trend dei casi testati in Lombardia nel mese di maggio, vediamo che il loro numero è rimasto pressochè costante; nel grafico che li descrive le frequenze sono medie mobili delle frequenze di sette giorni calcolate per togliere la variabilità dovuta alle minori attività diagnostiche nei giorni di fine settimana. Non si può quindi dire che si trovano nuovi casi perché si fanno più tamponi.

A fronte di un numero di tamponi diagnostici rimasto giornalmente pressocché costante, la percentuale di test con esito positivo è diminuita sensibilmente da un 10% di inizio maggio a un 4% di fine mese. Questa diminuzione è sicuramente segno sia di una diminuzione del contagio nella popolazione sia di un allargamento della diagnostica a fasce di popolazione con minor rischio, ma è anche il segno inequivocabile che il virus è ancora circolante nella popolazione lombarda. Questo 4% di positivi non è certo una stima che può essere trasferita a tutta la popolazione lombarda e che porterebbe all’assurdo di quattrocentomila positivi attuali, ma pur sempre indica che il bacino dei positivi si è ancora tutt’altro che esaurito.

Un virus sparito perché sfinito?

Queste considerazioni portano a concludere che, se non ci saranno altre evidenze microbiologiche e sperimentali, l’affermazione che il virus sia sparito perché sfinito non è l’unica spiegazione possibile della diminuzione delle patologie più gravi! E sicuramente l’osservazione che si può effettuare in alcune corsie non può semplicemente essere estesa all’universo e portare a dimostrare che la situazione che si è venuta a presentare non sia magari la faticosa e positiva conseguenza di una buona attività di contenimento, bensì solo una fortunata graziosità del virus che è diventato con tutti noi più buono.

Di sicuro non possiamo neppure essere sicuri del contrario e cioè che il virus sia rimasto quello che era tre mesi fa, ma in mancanza di evidenze scientifiche dobbiamo accettare di dover ragionare nell’incertezza, e nell’incertezza si deve mantenere come principio guida il principio di precauzione.

Quindi?

Quindi ricordiamoci che un'ondata epidemica, sia la prima sia la successiva, ha sempre un inizio subdolo dove i primi casi non si riconoscono e quando l’incendio si vede è ormai molto difficile intervenire per spegnerlo senza chiamare i pompieri, e di pompieri che lavorano nelle terapie intensive vorremmo rivederne il meno possibile.

Precauzione significa che distanziamento, protezione con mascherina, igiene delle mani e forse anche delle superfici devono essere continuate senza che il venir meno dell’allarme porti a rifiutare la sopportazione di questi relativamente piccoli disagi. Ritorniamo alle attività produttive, ritorniamo alle attività sociali, ritorniamo anche ai divertimenti, ma rinunciamo a tutto ciò che può innescare nuovamente il processo epidemico. E soprattutto rendiamoci conto che lo strumento che avevamo individuato come essenziale per evitare l’innesco dei nuovi focolai, cioè in contact tracing, la tracciatura del contatti dei contagiati, non si è ancora compiutamente attivato in tutti i dipartimenti di prevenzione, sia nelle Regioni del nord considerate più a rischio sia in quelle del centro sud che oggi forse devono essere considerate ancora più a rischio perché la popolazione, e gli operatori sanitari, sono meno all’erta nel cogliere subito eventuali segnali di pericolo.

E mi si permetta di osservare, da vecchio docente della facoltà di medicina da tempo in pensione, come purtroppo nella formazione di molti ottimi clinici di oggi, eccellenti nelle loro mansioni diagnostiche e terapeutiche, è del tutto mancata, anche per colpa nostra, ai tempi dei loro studi sia in facoltà che nelle scuole di specialità, la cultura epidemiologica e preventivistica. Auspico che come un epidemiologo non dovrebbe mai permettersi di criticare, senza averne competenza, le affermazioni di un clinico, cosi dovrebbero fare i clinici nei riguardi degli epidemiologi mentre tutti loro dovrebbero lavorare insieme nella stessa battaglia perchè è solo così che si potrebbe ottenere realmente la vittoria.

 


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