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Scienza tra etica e politica: una riflessione in ricordo di Carlo Bernardini

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È uscito in questi giorni il volume “Scienza tra etica e politica” dell’editore Dedalo. Una collettanea curata da Rino Falcone, Pietro Greco e Giulio Peruzzi. Lo scorso 22 giugno si è tenuto un webinar cui ha partecipato anche il Ministro dell’Università e della ricerca, Gaetano Manfredi. Riportiamo sotto l’intervento introduttivo di Rino Falcone. Crediti immagine: ErAnger/Pixabay. Licenza: Pixabay License

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La scienza ha improvvisamente occupato un posto di primo piano nel dibattito pubblico e nella coscienza attiva dei cittadini; anche di quelli che della scienza avevano una percezione e considerazione scarsa e confusa. Questo è ovviamente un effetto di risposta a seguito della pandemia COVID-19: agli sconvolgimenti, alle trasformazioni della vita individuale e sociale che ha prodotto in tutti noi. In particolare, all’esigenza che è prepotentemente cresciuta di identificare potenziali salvatori della nostra salute e della nostra convivenza civile e sociale.

La società quindi si rivolge alla scienza e da essa pretende, come è giusto che sia, soluzioni e conoscenza aggiornata per affrontare una aggressione nuova, sconosciuta per molti aspetti e capace di colpire non solo la nostra salute ma - obbligandoci a isolamenti e separazioni innaturali - l’essenza più intima della nostra civiltà e con essa le radici del suo sviluppo economico, culturale, sociale.

È bene sottolineare che veniamo da molti anni di periodo pre-COVID in cui l’immagine della scienza aveva subito un forte ridimensionamento a causa tanto delle politiche di investimento, orientamento e gestione del sistema della conoscenza, quanto (e sarebbe interessante cogliere le correlazioni) nella percezione pubblica generale. Rispetto agli investimenti e alla valorizzazione istituzionale di questo settore, un termometro evidente è rappresentato dalla scarsità di alcuni parametri (se rapportati a paesi analoghi); ad esempio la quantità di laureati, di ricercatori, di fondi per la ricerca e così via (la lista sarebbe assai lunga e ingenerosa). Da non trascurare poi le spinte burocratico-amministrative sempre in agguato nel nostro Paese che trovano spazio non appena si allenta la tensione strategica. E che possono fare danni enormi sulle motivazioni e ambizioni dei nostri ricercatori/scienziati. Insomma, per dirla in sintesi veniamo da una lunga fase pre-COVID in cui la visione politica di indirizzo del Paese non ha mai considerato, se non in marginali esperienze e singoli protagonisti, la scienza, la ricerca e l’innovazione tecnologica avanzata come il carburante essenziale del motore strategico della Nazione.

Rispetto invece al ridimensionamento della scienza riguardo alla percezione pubblica, non si tratta solo di evidenziare espressioni antiscientifiche eclatanti come quelle dei preoccupanti (per la salute pubblica) movimenti contro i vaccini (i cosiddetti no-vax) o dei preoccupanti (per la salute mentale di chi vi partecipa) movimenti dei “terrapiattisti”. Si tratta piuttosto di valutare come si sia stabilita una diffusa considerazione nell’opinione pubblica della competenza come bene separato dalla conoscenza. E come quest’ultima (ossia la conoscenza) sia stata sostanzialmente assimilata alla informazione. In questa visione semplificata: essere informati corrisponde anche ad avere acquisito conoscenza. Allo stesso modo e in tutti i domini.

Si compie in tal modo un doppio salto logico di semplificazione. Da una parte, l’idea che il sapere specializzato (la conoscenza più avanzata) sia sostanzialmente comprensibile e gestibile da chiunque senza alcuna mediazione, ossia senza il possesso di alcuni strumenti fondamentali (le competenze) acquisibili attraverso formazione e studio specifico. O, alternativamente, attraverso l’opera dei mediatori (i competenti) in grado di definire il contesto e le relazioni concettuali dentro cui quella conoscenza ha senso e applicabilità. D’altra parte, l’altro salto logico consiste nel ritenere che i pervasivi canali di informazione possano offrire la conoscenza specialistica e il suo utilizzo e gestione, alla stessa stregua e in tutti i domini (dalle informazioni sportive alle ultime terapie sull’autismo) senza che sia presente una adeguata verifica di attendibilità e una mediazione sulla relazione con il fruitore.

In un capitolo del libro da noi curato, Giorgio Parisi affronta il problema da un altro interessante punto di vista: quello della comunicazione della scienza. Come la scienza è in grado di comunicare se stessa. Insomma, un quadro pre-COVID preoccupante per la scienza.

Oggi però è intervenuta una novità importante. La pandemia ha introdotto una discontinuità evidente! Non sappiamo quanto intensa e duratura sarà questa inversione, ma è certamente cambiata la percezione del ruolo attribuibile alla ricerca e alla scienza anche aldilà della specifica funzione strumentale nei confronti del COVID-19 e della sua mitigazione e sconfitta. È evidente che la fiducia nella scienza e negli scienziati (tra l’altro varie indagini, tra cui una da noi svolta, lo confermano) ha fatto un balzo in avanti piuttosto consistente, rendendo più deboli e meno difendibili le posizioni sopra richiamate.

Ovviamente andranno seguiti con attenzione gli sviluppi di questo rapporto. E le possibili ulteriori torsioni che potranno verificarsi. Questa fiducia è stata, seppur parzialmente, minata da alcune contraddittorietà e ambivalenze evidenziati nell’affrontare le problematiche della pandemia da parte degli scienziati. In realtà, la scienza ha presentato in questo caso un suo volto che è naturale e autentico, ma perloppiù ignoto a chi non ne fa parte organicamente. Quello di un farsi in divenire.

La naturale dinamica di accrescimento di conoscenza sui nuovi fenomeni, prevalentemente biologici in questo caso, non si è svolta esclusivamente nel chiuso dei laboratori o nella sola sede di presentazione e confronto scientifico (il luogo per antonomasia della costruzione del sapere: i journal scientifici per cui si è soggetti alla verifica tra pari). Processi in cui si alternano ipotesi che mano a mano (anche attraverso passaggi che confutano ipotesi precedenti) determinano la definizione di una visione/teoria complessiva che alla fine emerge. Piuttosto, data la domanda di conoscenza sul fenomeno che veniva dal Paese, spesso queste ipotesi si sono fatte, a volte senza neppure seguire il metodo che la scienza impone, nei pubblici salotti televisivi. Con la conseguenza delle contraddittorietà cui pure abbiamo assistito.

Mi piace ricordare un episodio che è avvenuto in questo periodo e che mostra la rilevanza dei cosiddetti imperativi istituzionali nel definire l’ethos della scienza (universalismo, comunismo, disinteresse e scetticismo organizzato) introdotti dal sociologo Robert Merton (che rappresentano un caposaldo nella riflessione sociologica sul ruolo della scienza). L’episodio riguarda un premio Nobel (Luc Montagnier, Nobel per la Medicina del 2008) che in un'intervista televisiva offriva una sua interpretazione della natura del SARS-COV-2, ossia del cosiddetto coronavirus, affermando che sarebbe il risultato di un processo di laboratorio.

È possibile immaginare l’impatto di tali conclusioni sull’opinione pubblica (data la autorevolezza di Montagnier). Immediatamente (e per fortuna) ci sono state molte smentite da parte di altri studiosi e scienziati (la quasi totalità) che hanno ricondotto la discussione al solo possibile piano di confronto. Quali ipotesi scientifiche guidavano l’interpretazione di Montagnier: non risultava esserci alcuna pubblicazione su riviste specializzate da parte del premio nobel su questo argomento che avvalorassero la sua interpretazione, seguendo il metodo scientifico (ossia con tesi basate su evidenze sperimentali rese disponibili). Erano invece stati pubblicati, precedentemente alle dichiarazioni del nostro, e su riviste di alto prestigio, diversi studi che confermavano l’ipotesi contraria, ossia la natura non artificiale del virus. Era quindi una ipotesi “campata in aria”, per quanto quell’aria fosse di nobile (o nobel) natura.

I principi etici che Montagnier contraddiceva erano quelli che Merton definiva di scetticismo organizzato e di universalismo. Ossia, il primo (scetticismo organizzato) per cui: la conoscenza va messa alla prova, sempre. Non può esserci un’ipotesi senza il vaglio del metodo scientifico con riscontro delle evidenze da sottoporre alla validità della comunità di riferimento. E il secondo (universalismo) per cui i criteri di validazione della conoscenza scientifica sono indipendenti dalle caratteristiche personali o sociali di chi la propone.

L’universalismo rifiuta l’idea, su basi extra-scientifiche, sia di discriminazione quanto di accreditamento. Di discriminazione verso chi opera per la conoscenza (per cui la razza, il sesso, il censo e così via non possono essere tenuti in conto per avvalorare ipotesi scientifiche), ma anche di accreditamento inadeguato: è vero che il premio nobel qualifica una competenza scientifica di valore assoluto, ma relativamente a specifici risultati scientifici, quelli premiati. Quindi anche per un premio Nobel è richiesto, ogni volta che produce nuove ipotesi, di passare il vaglio di questo metodo, non si può avvalere di alcun accreditamento a prescindere.

Insomma, le ipotesi scientifiche, la nuova conoscenza che si propone deve essere “disincarnata”, valutata seguendo criteri oggettivi e impersonali. Una riflessione sui principi etici della scienza che Merton ha individuato, non può non chiamare in causa un’altra rilevante questione: il rapporto tra scienza e democrazia e come le varie interpretazioni e modulazioni (fino a vere e proprie distorsioni) di aspetti dei processi democratici e della cultura diffusa che ne deriva, possano influenzare in modo determinante sia il procedere della scienza che la sua percezione. Il caso della estremizzazione del concetto di equiparazione nelle opinioni di ciascuno aldilà del merito e della competenza, rappresenta un esempio.

Ma è vero anche il viceversa, alcuni sviluppi della scienza e della tecnologia strettamente conseguente, possono introdurre nella società strumenti e trasformazioni assai perniciose e a volte stravolgenti principi alla base della democrazia o persino diritti umanitari fondamentali. A questo può far da contrappeso solo un dialogo stretto e di ampia visione tra scienza, politica e società (i casi delle armi autonome o delle armi nucleari, piuttosto che un utilizzo dei big data per manipolare, controllare, restringere il potere di scelta autonoma degli individui -il cosiddetto capitale di sorveglianza- sono solo alcuni esempi analizzati anche nel volume e di particolare significato).

Il rapporto tra scienza e società, oggi così clamorosamente esploso, va quindi curato e attentamente seguito. È un rapporto complesso, in evoluzione continua, dalle variegate sfaccettature. Con fasi contraddittorie e problematiche. Bisognerà operare per fare in modo che la rivalutazione sostanziale che la scienza ha acquisito in questa fase, la sua valorizzazione etica, perché etici sono i pilastri fondamentali su cui opera e sviluppa la propria azione di beneficio per il progresso sociale, divenga sempre più intensamente patrimonio della comunità. Per questo un compito primario spetta alla politica, ma non solo. Gli scienziati devono sentire questo anche come un loro dovere.

È il compito da civil servant che Carlo Bernardini ha sempre assolto, con l’intelligenza e la creatività che chi lo ha conosciuto può testimoniare. Potrei dire che Carlo (fisico, divulgatore, professore, storico, politico) è un esempio di inter-professionalità, in analogia alla inter-disciplinarità, un lavoro di confine in cui le contaminazioni e le reciproche influenze tra le varie attività, risultano determinanti al corretto sviluppo di ciascun ambito.

E per comprendere il senso profondo che assegnava a questo suo sguardo ampio sulla conoscenza, sulla società e sulla politica mi piace richiamare una risposta che un’altra figura rilevante della nostra repubblica, Adriano Ossicini (medico, psichiatra, istitutore della prima cattedra di psicologia all’università di Roma, capo partigiano, senatore nel gruppo degli indipendenti di sinistra: lo stesso gruppo parlamentare cui ha aderito anche Carlo per un periodo), diede quando provocatoriamente gli imputarono di mescolare la politica con la professione. Rispose Ossicini: “

A coloro che da tanti anni in modo qualunquistico mi domandano come concilio il fare politica con l’attività professionale rispondo che l’unica inconciliabilità che conosco è quella di una seria attività professionale non collegata ad alcuna attività politica

Questa lucida affermazione fa perfettamente il paio con una frase di uno scrittore e poeta polacco Stanislaw Jerzj Lec, che Carlo teneva ben stampata e visibile sulla sua porta d’ingresso della stanza d’università (cui fa riferimento anche Luciano Maiani nel libro):

Aveva la coscienza pulita. Infatti, non l’aveva mai usata

 


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