Parlare genericamente di COVID-19 e migranti è errato, in quanto il tema è sfaccettato e può essere strumentalizzato per presentare i migranti come “pericolosi” e dunque giustificare misure restrittive. Interpretando i dati di ISPI e di ECDC si può capire meglio quale sia la situazione dei vari sottogruppi migranti, considerando non solo la loro origine, ma anche le loro condizioni di vita nel paese ospitante.
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Parlare genericamente di COVID-19 e migranti è errato, in quanto il tema è sfaccettato e può essere strumentalizzato – come in effetti viene fatto, per esempio, da Orban – per presentare i migranti come “pericolosi” e dunque giustificare misure restrittive. Come mostra il caso della raccolta dei prodotti agricoli, abbiamo bisogno di migranti per numerose attività produttive. Purtroppo, sono poche le informazioni che consentono di analizzare nel dettaglio le varie sottopopolazioni dal punto di vista COVID-19 e produrre tali informazioni sta diventando urgente.
La categoria su cui si sono incentrate le prese di posizione politiche è quella dei clandestini che arrivano con i barconi e poi vengono smistati nelle diverse Regioni secondo un sistema di quote. Una stima disponibile, da parte dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), ci dice che in questa categoria la prevalenza di infezione è dell’1.5%, molto più bassa cioè di quella della popolazione italiana del Nord (nonostante il viaggio in condizioni di estremo sovraffolamento). Questo tasso è stato calcolato su circa 7.000 migranti giunti in Italia tra marzo e metà luglio. I riscontri recenti di positività al test (fino al 10%) sono su popolazioni molto piccole e pertanto affetti da una alta variabilità. Inoltre, riguardano migranti che hanno già trascorso un periodo di permanenza nei centri di prima accoglienza in condizioni di sovraffollamento e quindi a maggiore rischio di contagio. Si noti che ogni migrante che giunge in Italia è sottoposto a tampone e posto in isolamento se positivo e in quarantena se negativo. Prima di essere trasferiti e distribuiti tra le regioni, tutti sono sottoposti a test sierologico. All’arrivo a destinazione sono nuovamente sottoposti a tampone e posti in isolamento fino a quando giunge il risultato. Dunque, questo sottogruppo è lungi dal rappresentare al momento un pericolo.
La seconda categoria è costituita dalla popolazione immigrata residente. Presto l’indagine campionaria Istat di sieroprevalenza nella popolazione ci fornirà una stima della prevalenza di infezione anche tra i lavoratori stranieri; il loro ritorno dalle vacanze nel paese di origine, in qualche caso luogo di risorgenza dell’epidemia, deve essere oggetto di particolare sorveglianza. Per il resto, i problemi di prevenzione di questa ormai numerosa componente della popolazione nel nostro paese sono simili a quelli del resto della popolazione residente più socialmente svantaggiata (sovraffollamento, deprivazione, professioni più a rischio, ecc.).
Non ci risultano attive rilevazioni sistematiche della prevalenza di infezione nei sottogruppi più rilevanti per la diffusione dell'infezione: ospiti di centri di accoglienza e lavoro stagionale e precario. L’European Centre for Disease Control (ECDC) ha pubblicato dati sporadici basati su singole esperienze. È lecito pensare che il problema del contagio in questi casi non sia rappresentato dalla frequenza di infezione importata dai paesi d’origine (tranne i paesi dell’Est, per i quali vi sono attualmente restrizioni), ma piuttosto a causa delle condizioni di vita all’interno dei campi di raccolta e dei centri di accoglienza. Le sistemazioni collettive di lavoratori stagionali sono a priori situazioni ad alto rischio di contatto non controllato e quindi di trasmissione; ma, appunto, a causa delle condizioni di vita piuttosto che per un’alta prevalenza di infezione in origine. Non c'è in ogni caso nessuna prova scientifica che per il controllo della diffusione dell’infezione alla popolazione ospite servano protocolli diversi da quelli normalmente raccomandati per la popolazione generale, e in particolare non vi sono prove che serva l’istituzione di zone rosse per questi centri di accoglienza. È, d’altra parte, inderogabile la garanzia che sia effettuato per tutti, autoctoni e migranti, un rigoroso controllo del rispetto delle prescrizioni di isolamento e quarantena. Ogni servizio sanitario regionale e locale dovrebbe essere pronto per tempo a creare condizioni di accoglienza adeguate all’applicazione delle raccomandazioni di igiene e di distanziamento fisico e, al tempo stesso, ad applicare i programmi di tracciamento e isolamento di casi e contatti. I focolai che si sono verificati in queste circostanze potevano probabilmente essere evitati con l’applicazione tempestiva delle stesse misure previste per la popolazione generale.
Dobbiamo insomma stare attenti a non confondere la causa con l’effetto: non sono gli stranieri in quanto tali a creare situazioni di rischio, ma è piuttosto la condivisione di spazi ristretti in condizioni precarie e di scarsa igiene a facilitare la diffusione del contagio. Queste sono anche le considerazioni svolte da ECDC. L’unico intervento efficace di controllo dei focolai è la sorveglianza attiva dei casi e dei contatti, e la sorveglianza attiva richiede che si possano identificare e rintracciare le persone. Questo implica che, per il bene di tutti, nativi e immigrati, occorre non esasperare minacce di misure di ordine pubblico e stigmatizzazioni sociali che spingano gli immigrati a rendersi irreperibili.