fbpx "Oceano urbano": rendiamolo sostenibile | Scienza in rete

Ripuliamo l'oceano urbano

Primary tabs

Secondo una stima recente, utilizziamo circa 32 mila km2 di mare in porti, piattaforme petrolifere, eolico offshore e altre infrastrutture; superficie destinata ad aumentare con gli anni. Come rendere sostenibile lo sfruttamento del mare? Con infrastrutture ibride tra ingegneria e natura, quindi, avendo coraggio e facendo investimenti.

Tempo di lettura: 5 mins

Oceano urbano. Tutti i mari e gli oceani del pianeta sono collegati in un’unica massa d’acqua ed è per questo che si parla di Oceano e non oceani. Ma perché urbano? Proprio perché indica quella parte di oceano che entra nelle nostre città, nella nostra vita quotidiana. A partire dalle coste su cui sorgono porti, spiagge e quartieri fino ad arrivare alle acque profonde dove estraiamo petrolio e gas, peschiamo o costruiamo parchi eolici offshore. Questo è l’oceano urbano ed è da sempre una parte integrante della nostra civiltà.

Lo spazio che la nostra società occupa sulla terraferma è facilmente misurabile. Ma nel mare? Alcune costruzioni non sono così visibili come i porti, possono trovarsi al largo come le piattaforme petrolifere o essere nascoste alla vista come le condutture o i cavi sottomarini. Conoscerne l’estensione è il primo passo per comprendere l’impatto che queste infrastrutture hanno sull’ambiente marino. Per questo alcuni ricercatori hanno provato a stimare l’estensione dell’oceano urbano e hanno pubblicato i risultati in un lavoro da poco uscito su Nature Sustainability1.

Il primo risultato che emerge dallo studio è quanto spazio occupano le costruzioni marine attualmente a livello globale: una superficie pari a 32 mila km2. Per fare un paragone è come se una zona più grande dell’estensione di Veneto e Trentino-Alto Adige assieme fosse interamente ricoperta di infrastrutture umane. Per arrivare a questa cifra i ricercatori hanno preso in considerazione opere a difesa delle coste, quartieri residenziali e commerciali, porti turistici o mercantili, attività di estrazione di energia dal moto ondoso, dalle maree, dal vento e dai giacimenti petroliferi o di gas ed infine le strutture per la pesca e l’acquacoltura.

Quasi tutte queste infrastrutture sono costruite nelle zone economiche esclusive, la porzione di mare che è appannaggio dello sfruttamento dei singoli stati e si estende fino a 200 miglia nautiche dalla riva. Questo significa che le coste sono soggette all’influenza di diversi tipi di infrastrutture marine con impatti diversi e complessi. Gli effetti delle infrastrutture, infatti, si estendono ben oltre lo spazio fisicamente occupato dalle costruzioni. Questo avviene in conseguenza dell’alterazione degli equilibri fisici, chimici ed ecologici nell’ambiente circostante, dovuti per esempio al cambiamento nella qualità dell’acqua, all’alterazione del flusso delle correnti, alla produzione di rumore e all’introduzione di specie non native. Gli effetti finali sono la degradazione degli ecosistemi e la perdita di biodiversità su ampia scala. I ricercatori stimano tra l’1 e i 3,4 i milioni di km2 di mare influenzati dall’urbanizzazione marina. Considerando una stima intermedia, 2 milioni di km2 è l’area coperta da Spagna, Francia, Germania, Austria, Italia e Polonia.

La situazione è destinata ad aggravarsi nel prossimo futuro. I ricercatori hanno calcolato l’estensione delle infrastrutture marine che saranno costruite entro il 2028 e stimano un aumento di circa un quarto, fino ad arrivare a quasi 40 mila km2. Laura Airoldi è docente di ecologia marina alle Università degli studi di Padova e di Bologna ed è tra gli autori dell’articolo pubblicato su Nature Sustainability. A questo riguardo commenta a Scienza In Rete che «questa stima si basa solo su progetti approvati e per i quali erano disponibili dati affidabili e precisi. Non è un modello o una previsione ma una stima e sicuramente è solo una sottostima». Infatti, è difficile prevedere per esempio quale sarà il tasso di crescita delle città costiere o quantificare quanto l’aumento del trasporto marittimo o dell’acquacoltura possano riflettersi in un aumento delle infrastrutture marine.

Ma quale sarà l’impatto di queste nuove infrastrutture sul mare? Sarà possibile applicare all’edilizia marina gli stessi principi di sostenibilità che applichiamo alle costruzioni sulla terraferma? In un secondo articolo pubblicato su Annual Review of Marine Science2  Airoldi espone, assieme ai colleghi, le possibili soluzioni per rendere più sostenibile lo sviluppo dell’oceano urbano. «Le nature-based solutions sfruttano proprietà della natura e hanno una capacità intrinseca di rispondere ai cambiamenti climatici».

Le soluzioni basate sulla natura

Le nature-based solutions, rappresentano una visione innovativa dell’uso del mare e delle infrastrutture marine. Possono andare dal ripristino di una barena o di una barriera corallina per difendere le coste dall’erosione e dalle onde, alla creazione di infrastrutture multifunzionali come ponti che simultaneamente producano energia dal moto ondoso e prodotti della pesca, fino all’uso di colonie di ostriche o altri molluschi per depurare l’acqua. In sostanza uniscono ingegneria e natura.

«Le opportunità offerte dalle soluzioni basate sulla natura sono molte» continua Airoldi. «Innanzitutto, potrebbero essere meno costose da realizzare, una volta superata la fase di ricerca. Ripristinare una barriera corallina per difendere le coste è molto meno costoso che costruire barriere frangiflutti in calcestruzzo. Inoltre, le infrastrutture ibride tra ingegneria e natura possono essere più resilienti, adattandosi autonomamente ai cambiamenti climatici, e sostenibili. E infine possono portare benefici anche ad altri settori economici come la pesca o il turismo».

Sviluppare progetti di ricerca è fondamentale per procedere in questo campo e riuscire ad applicare queste tecnologie nel prossimo futuro. «In realtà anche gli interventi tradizionali hanno un certo margine di incertezza. Bisognerebbe osare di più, testare di più, sapendo che ci saranno successi e fallimenti ma alla fine potremo avere un manuale che ci aiuti a capire come realizzare infrastrutture basate sulla natura. Siamo agli inizi, bisogna sperimentare ancora un po’ ma ci sono tecnologie e strategie molto promettenti. Sono tanti gli studi allo stadio pilota che sono pronti per essere trasferiti su grande scala ed essere applicati nel mondo reale ma questo richiede investimenti coraggiosi».

Il momento è propizio. Ci sono molte possibilità di investimento e vanno sfruttate al meglio. Anche perché, come conclude Airoldi, «le infrastrutture non sono eterne e molte di quelle marine sono state costruite negli anni Sessanta e Settanta. Quindi nei prossimi anni ci sarà la necessità di realizzare molti interventi di manutenzione e ripristino. Questa è una grossa opportunità per ristrutturare o ricostruire l’oceano urbano con criteri diversi e più sostenibili».

 

Bibliografia
[1] Bugnot A.B., Mayer-Pinto M., Airoldi L. et al., “Current and projected global extent of marine built structures”, Nat Sustain (2020): https://doi.org/10.1038/s41893-020-00595-1
[2] Airoldi L. et al., “Emerging Solutions to Return Nature to the Urban Ocean”, Annual Review of Marine Science (2020): https://doi.org/10.1146/annurev-marine-032020-020015

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Ostacolare la scienza senza giovare agli animali: i divieti italiani alla sperimentazione

sagoma di macaco e cane

Divieto di usare gli animali per studi su xenotrapianti e sostanze d’abuso, divieto di allevare cani e primati per la sperimentazione. Sono norme aggiuntive rispetto a quanto previsto dalla Direttiva UE per la protezione degli animali usati a fini scientifici, inserite nella legge italiana ormai dieci anni fa. La recente proposta di abolizione di questi divieti, penalizzanti per la ricerca italiana, è stata ritirata dopo le proteste degli attivisti per i diritti degli animali, lasciando in sospeso un dibattito che tocca tanto l'avanzamento scientifico quanto i principi etici e che poco sembra avere a che fare con il benessere animale.

Da dieci anni, ormai, tre divieti pesano sul mondo della ricerca scientifica italiana. Divieti che non sembrano avere ragioni scientifiche, né etiche, e che la scorsa settimana avrebbero potuto essere definitivamente eliminati. Ma così non è stato: alla vigilia della votazione dell’emendamento, inserito del decreto Salva infrazioni, che ne avrebbe determinato l’abolizione, l’emendamento stesso è stato ritirato. La ragione?