Il ministro Manfredi promette 15 miliardi per università e ricerca nei prossimi 5 anni, sempre che il Recovery Fund si concretizzi. La notizia ridà anche speranze a coloro che da tempo propongono una riforma dell’università che la renda più moderna e inclusiva. Fra questi figura Marino Regini, professore emerito di sociologia economica all’Università degli Studi di Milano, e coordinatore, insieme a Roberto Cingolani, del capitolo dedicato a università e ricerca del Piano Colao. Il Piano, come noto voluto più dal presidente Mattarella che dal primo ministro Conte, è finito anzitempo nel dimenticatoio, ma qualche buona idea forse è il caso di riprenderla in vista di questa annunciata iniezione di risorse. Cosa che avverrà anche con una serie di discussioni via webinar organizzati da Unires e Università degli Studi di Milano (il prossimo, intitolato “Scenari socio-economici del Post-Covid: quale impatto sull’Università” il 14 ottobre - 17:30-19:00 a questo LINK).
“Per essere davvero motori dello sviluppo - esordisce Regini - università e ricerca devono essere in grado di rispondere alle domande della società, condurre progetti interdisciplinari, essere più internazionali, essere in grado di attrarre cervelli e dare più sbocchi occupazionali».
Vasto programma. Le nostre università in effetti sono ancora chiuse e tutto sommato riservate a pochi, a giudicare dal numero di iscritti.
Infatti l’altra sfida è l’inclusività. I pochi laureati rispetto ad altri paesi sembrano dipendere essenzialmente da due fattori: i fondi per il diritto allo studio sono ancora ampiamente insufficienti, e manca un canale terziario professionalizzante. Diciamolo: se altrove ci sono molti più laureati è anche perché ci sono percorsi terziari che preparano alle professioni, come le Fachhochschule tedesche. Noi abbiamo solo gli ITS (con circa 9.000 studenti), che però hanno un livello più basso rispetto alle università, le quali hanno pochissimi corsi professionalizzanti. In Italia si laureano relativamente in pochi anche per questo motivo: mancanza di sbocchi professionali e di un buon orientamento.
La responsabilità è tutta del mondo universitario?
Non solo. Diciamo che i due mondi - università e impresa - faticano a incontrarsi. Lo si vede anche dalla difficoltà e dagli ostacoli anche burocratici a far sì che ricercatori pubblici e privati possano lavorare insieme, e dal fatto che la (scarsa) domanda di capitale umano altamente qualificato fa fatica a incontrarsi con la (scarsa) offerta.
Che strategia si può seguire per avvicinare questi due mondi?
Serve ad esempio un intermediario efficiente. Sempre in Germania abbiamo istituti come il Fraunhofer che fa appunto questo: mette in contatto i due mondi e traduce le esigenze degli uni nel linguaggio degli altri. Bisogna superare il pregiudizio che cultura e formazione sia solo alta speculazione, ma nel contempo riconoscere che anche le applicazioni più concrete in campo industriale incorporano pensiero, creatività e ricerca fondamentale. Se ci fa caso gli articoli scientifici italiani che abbiano come coautori ricercatori accademici e ricercatori provenienti dall’industria sono molto pochi rispetto ad altre realtà.
Un primo passo quale potrebbe essere?
Per esempio aumentare i dottori di ricerca, che non necessariamente devono avere uno sbocco nell’università, ma anche nell’industria e nella pubblica amministrazione, che peraltro ne avrebbero un gran bisogno. Per far questo si può creare una nuova figura di Applied PhD (o figure analoghe) come si fa altrove.
Anche nella Pubblica amministrazione? Ma non è già elefantiaca?
Tutt’altro, statistiche alla mano abbiamo meno addetti degli altri paesi. Ma la PA ha molto bisogno di una dirigenza più qualificata (argomento avanzato anche nell’ultimo libro di Tito Boeri e Sergio Rizzo, “Riprendiamoci lo Stato: come l’Italia può ripartire”, Feltrinelli, 2020. ndr.). Al momento la grande maggioranza sono laureati in giurisprudenza, nella visione tradizionale che la PA debba solo interpretare e attuare le leggi, mentre ora servono soprattutto nuove figure professionali capaci di formulare politiche, attrarre investimenti, mediare interessi.
Abbiamo lasciato per ultimo il tema della ricerca, in realtà centrale per lo sviluppo del Paese. La ricerca in Italia è sotto-finanziata, con discreti risultati se si esaminano gli articoli pubblicati ma non esaltanti se si guardano i progetti vinti e la partecipazione a grandi iniziative internazionali. Siamo un po’ ai margini. Il Piano Colao propone di differenziare le università di ricerca da quelle specializzate in didattica. In questo modo non si rischia di creare università di serie A e di serie B?
Proprio per evitare questo rischio, il piano Colao propone di valorizzare le differenze interne ai singoli atenei, non di differenziare fra università. Detto questo, la didattica non è affatto serie B! È una componente fondamentale, la prima missione dell’università. E non c’è niente di male che alcuni dipartimenti storicamente deboli nell’attività di ricerca si specializzino nella didattica e vengano valutati e premiati per questo. D’altra parte la ricerca si nutre anche di competizione e ha bisogno di concentrazione di risorse finanziarie e umane. Non è un caso che nei ranking internazionali, in tutti i giustamente criticati, gli atenei italiani siano pressoché assenti fra i primi 100 ma ce ne siano un terzo fra i primi 500. Il livello dei nostri atenei è un livello medio alto, assolutamente rispettabile, ma per emergere bisogna puntare sui ricercatori migliori, che devono essere attratti anche dall’estero. Le differenze fra le università o meglio fra dipartimenti o aree scientifiche al loro interno, in altre parole, andrebbero valorizzate e non negate, sia nella ricerca che nella didattica.