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Sindrome di Down e vulnerabilità al coronavirus

Uno studio appena pubblicato sul Journal of American Medical Genetics suggerisce che tra le persone più vulnerabili a Covid-19 vi siano coloro che hanno la sindrome di Down. Serviranno altre analisi per saperne di più, ma intanto gli autori del lavoro evidenziano che alcune caratteristiche della sindrome (come l'essere associata a problemi della risposta immunitaria e l'invecchiamento precoce segmentale) potrebbero spiegare la maggior fragilità dei pazienti.

Nell'immagine: tabella di confronto fra i deceduti con e senza sindrome di Down pubblicata dai ricercatori italiani su American Journal of Medical Genetics.

Tempo di lettura: 5 mins

Sappiamo che alcune persone sono più fragili di altre di fronte a Covid-19. Tra queste sembrano esserci le persone con sindrome di Down, con una mortalità più alta della popolazione generale. Naturalmente è un dato da verificare con ulteriori ricerche, come sottolineano gli stessi autori dello studio italiano da cui emerge.

Quest'ultimo, appena pubblicato sul Journal of American Journal of Medical Genetics [1], ha preso le mosse dall’analisi delle cartelle cliniche di 3.438 persone morte negli ospedali italiani da febbraio a giugno 2020 con infezione da SARS-CoV-2 accertata. Una frazione scelta in modo casuale ma all’interno di quelle che presentavano una completezza di informazioni  degli oltre 30.000 deceduti in quei mesi. Tra di essi c’erano 16 persone con sindrome di Down: lo 0,5% del totale. Essendo noto che a livello nazionale la prevalenza delle persone con questa sindrome è dello 0,05%, lo studio osserva che ci sono più morti con sindrome di Down tra i deceduti per Covid-19 di quelli che ci si potrebbe aspettare: per la precisione circa dieci volte maggiore. Lo studio di altre cartelle cliniche ci dirà di più, ma intanto dall’analisi comparativa emergono anche altri elementi interessanti. Per esempio che le persone con sindrome di Down decedute avevano un’età più bassa delle altre (52 anni di media contro 78), che tutte hanno avuto sindrome da distress respiratorio acuto e che sono state più soggette a sovrainfezioni, ovvero infezioni batteriche che si sono sovrapposte a quella virale - come le infezioni del sangue (sepsi) e la polmonite batterica - che hanno colpito il 31% di queste persone contro il 13% della popolazione generale.

«La sindrome di Down è associata a problemi nella risposta immunitaria, per cui le persone che presentano questa condizione sono più soggette alle infezioni batteriche e le conseguenze delle infezioni possono essere nel loro caso particolarmente gravi», spiega Graziano Onder, direttore del Dipartimento di malattie cardiovascolari, endocrino-metaboliche e dell’invecchiamento dell’Istituto Superiore di Sanità e coautore dello studio. «Questo sicuramente è uno dei motivi della loro maggiore vulnerabilità».

Sappiamo infatti che le complicanze di Covid-19 possono essere proprio infezioni batteriche che si associano a quella virale. Dagli studi sulla malattia ormai sappiamo inoltre che il rischio di mortalità è associato anche all’età avanzata del paziente e alla presenza di comorbidità, ovvero alla preesistenza di malattie come malattie cardiovascolari, diabete, malattie respiratorie croniche, obesità e cancro. Ebbene, le persone con sindrome di Down sono soggette a un invecchiamento precoce segmentale, un invecchiamento che riguarda in particolare alcuni organi e sistemi, come la tiroide, le ossa, il cervello. Benché le persone adulte con questa sindrome si ammalino poco di malattie cardiovascolari o cancro, questo invecchiamento precoce le espone all’alto rischio di sviluppare una serie di comorbidità tra cui endocrinopatie, malattie neurologiche, reumatiche e muscoloscheletriche e alti livelli di stress ossidativo.

«Questo vuol dire che non c’è da temere di più per un trentenne con sindrome di Down, ma per un cinquantenne sì, perché si tratta di una persona già entrata nella terza età», afferma Emanuele Rocco Villani, dottorando in scienza dell’invecchiamento presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e primo firmatario dell’articolo.

Un elemento da prendere in seria considerazione è poi l’obesità, un’altra condizione legata alla sindrome di Down. Nel campione analizzato era infatti presente nel 38% dei casi, contro il 16% dei deceduti senza questa sindrome. «L’obesità dà luogo a esiti negativi per due motivi», prosegue Onder. «Il primo è che influenza negativamente la capacità polmonare dell’individuo e quindi aggrava la polmonite causata da SARS-CoV-2. Il secondo è che si associa a uno stato di aumentata infiammazione e noi oggi sappiamo che la tempesta infiammatoria è una delle caratteristiche di Covid-19».

Anche le malattie autoimmuni, come tiroidite di Hashimoto e psoriasi, erano significativamente più diffuse nel gruppo studiato (44% contro 4%), così come la demenza (38% contro 16%). Queste condizioni sono noti fattori di rischio, in quanto associate a uno stato proinfiammatorio che sembra avere un ruolo nell'insorgenza di gravi complicazioni di Covid-19. Infine, diverse anomalie anatomiche delle vie aeree superiori e l’atonia muscolare, assieme all’obesità, aumentano il rischio di ostruzione delle vie aeree, di disfagia e apnea ostruttiva del sonno nelle persone con sindrome di Down, tutti fattori che predispongono a una ipertensione polmonare, a sua volta un fattore di rischio che fa presagire un'infezione più grave.

Quali conclusioni trarre da questi dati? «In primo luogo che i pazienti con sindrome di Down devono essere tutelati di più, in particolare se hanno storie di polmoniti pregresse. Questo vuol dire che anche una sintomatologia sfumata deve far scattare l’allarme», risponde Villani. «Inoltre, che appena ci sarà un vaccino efficace e sicuro che abbia superato tutte le fasi di sperimentazione, nella lista delle persone vulnerabili a cui somministrarlo per prime, sarà importante che i policy-maker considerino di inserire anche quelle con sindrome di Down”.

Tiziana Grilli, presidente nazionale dell’AIPD (Associazione Italiana Persone Down), commentando i dati dello studio, ha precisato che “pur trattandosi di risultati rilevanti per richiedere l’attenzione delle Istituzioni Sanitarie su una possibile peculiare fragilità della sindrome di Down alle infezioni respiratorie e non solo, essi non hanno un significato tale da dover modificare il comportamento quotidiano e le abitudini dei nostri figli, rispetto alle misure anti-contagio consigliate per tutta la popolazione italiana”. Bisogna affrontare la pandemia senza allarmismi, dunque, ma “con la consapevolezza che la sindrome di Down è una condizione che comporta sintomi e rischio di contrarne altre, e quindi come tale dev’essere studiata, curata e seguita in Centri specialistici con percorsi dedicati».

Note
1. Emanuele Rocco Villani, Angelo Carfì, Antonella Di Paola, Luigi Palmieri, Chiara Donfrancesco, Cinzia Lo Noce, Domenica Taruscio, Paola Meli ,Paolo Salerno, Yllka Kodra, Flavia Pricci, Manuela Tamburo de Bella, Marco Floridia, Graziano Onder. The Italian National Institute of Health CoVID‐19 Mortality Group. Clinical characteristics of individuals with Down syndrome deceased with CoVID‐19 in Italy—A case series. American Journal of medical genetics. 12 September 2020 https://doi.org/10.1002/ajmg.a.61867

 


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