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Rivoltiamoci contro la finitudine

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Pietro Greco recensisce Finitudine. Un romanzo filosofico tra fragilità e libertà, l'ultimo libro del filosofo della biologia Telmo Pievani: un dialogo tra Albert Camus e Jacques Monod in cui s'intrecciano scienza e filosofia.

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Ora lo sappiamo, ora la scienza ce lo dice: non solo ciascuno di noi è destinato a finire, ma lo stesso destino - sia pure con modalità e in tempi diversi - toccherà all’intera umanità, alla vita, al pianeta Terra, all’intero universo.

Ora lo sappiamo, ora la scienza ce lo dice: l’immortalità non può esistere. Né per gli umani, né per la Terra, né per l’universo stesso. La finitudine è l’essenza del mondo. E tutto ciò non ha un senso. Nella vicenda di noi umani, della vita, del pianeta Terra e dell’intero universo non c’è un senso. Di tutto ciò si può constatare semplicemente che avviene non possiamo dire perché avviene.

La vicenda cosmica, appunto, non ha un senso. È una vicenda tragica. Ancor più per noi umani, portatori di una finitudine consapevole. Ne deriva che la morte resta per noi uno scandalo, un mistero inaccettabile. E tuttavia l’amara verità della finitudine dell’universo mondo ci restituisce allora libertà, la tragica libertà di chi non crede più nei migliori mondi possibili, ma nemmeno si lascia intrappolare nel nihilismo più angoscioso. Proprio perché si intravede la libertà, per quanto vincolata, che la tragedia si trasforma in epica.

Possiamo (dobbiamo) rivoltarci contro questa conseguenza perversa della finitudine.

A ben vedere è questo il nucleo centrale del dialogo che si è consumato tra uno scrittore, Albert Camus, e un biologo, Jacques Monod, a partire dal 10 gennaio 1960, presso il Centre Hospitalier di Fontainebleau. Il dialogo è stato ricostruito da Telmo Pievani, filosofo della biologia in forze all’Università di Padova e comunicatore di scienza in giro per l’Italia intera, in un libro appena pubblicato da Raffaello Cortina: Finitudine. Un romanzo filosofico tra fragilità e libertà (2020, p.280, euro 16,00).

Il dialogo è immaginario. E non potrebbe essere diversamente, non fosse altro perché in quell’ospedale, nella cittadina a meno di 70 chilometri da Parigi, Albert Camus era morto il 4 gennaio 1960, in seguito a un incidente stradale. Telmo Pievani, con il passo dello storico – notevole la sua capacità di ricostruire le vicende politiche e le conoscenze scientifiche di quel tempo – fa intrecciare un dialogo filosofico e scientifico a quei due campioni del sapere e (quindi) della libertà.

Entrambi sono stati partigiani conto il nazifascismo, entrami si sono poi esposti in prima persona contro le falcidie di libertà nei regimi comunisti dell’Est. Sì, la libertà è un elemento essenziale – forse l’elemento essenziale – in questo nuovo libro di Pievani, il suo primo romanzo filosofico. La libertà è l’unica consolazione che gli umani hanno davanti al mistero inaccettabile della morte. E non è un caso, probabilmente, che questa considerazione tradotta in opera letteraria sia nata nella mente di Telmo Pievani come strumento di consolazione nel pieno del primo attacco del coronavirus SARS-CoV-2 all’inizio del 2020.

La trama del romanzo filosofico è semplice. I due, Camus e Monod (il biologo vincerà il premio Nobel per la Medicina nel 1965, dunque dopo l’epoca in cui si svolge il dialogo immaginato da Pievani – si incontrano in ospedale dopo l’incidente d’auto che ha coinvolto lo scrittore. Nel romanzo, Camus sopravvive all’impatto. E Monod, che lo conosce, lo va a trovare in ospedale. I due decidono così di scrivere un libro in cui, alla luce delle conoscenze scientifiche, si analizza la vicenda umana e la sua acquisita consapevolezza della finitudine cosmica. Il tutto alla luce della teoria dell’evoluzione biologica di Charles Darwin e delle recenti acquisizioni biologiche, compresa la scoperta della struttura a doppia elica del DNA avvenuta solo qualche anno prima, nel 1953, a opera di James Watson e Francis Crick. La trama prevede, ancora, che Jacques Monod scriva e poi, in ospedale, discuta della bozza con Albert Camus.

Il testo, come dicevamo, riassume le conoscenze scientifiche del tempo. Ma anche quelle politiche, segnate dall’incubo atomico: l’umanità ha appena acquisito la (tragica) capacità di distruggere sé stessa con quelle decine di migliaia di ordigni atomici che URSS e USA stanno accumulando nei loro arsenali. E pertanto discutono, i due, non solo di filosofia della scienza ma anche di filosofia della figlia di sua figlia, la tecnica.

Quello che scorre per pagine e pagine è un ordito opprimente: alla finitudine naturale gli umani – la Terra è vecchia, sostiene Monod con parole che sembrano un ammonimento, e anche la vita è vecchia –, grazie alla scienza e alla tecnica, hanno aggiunto una consapevole finitudine tessuta di sua propria mano. Sembra non esserci scampo. La conoscenza, invece di cercare una via d’uscita, sembra stia accelerando la consapevolezza.

I due si chiedono persino se la coscienza sia da considerarsi un vantaggio evolutivo o piuttosto una gravosa perché impotente palla al piede. Non è forse un accumulatore di angoscia la consapevolezza dell’asimmetria tra umani e (resto della) natura: lei, la natura, può ben essere indifferente alla sorte degli umani, gli umani non possono essere indifferente alle sorti della natura. Anzi, gli umani devono assumersi in carico le sorti della natura che stanno contribuendo a degradare.

Ma ecco che alla fine la tela della tragedia si squarcia. Bisogna insorgere contro la pena di morte generalizzata, proprio come i partigiani sono insorti conto la pena di morte decretata dai nazisti contro popolazioni inermi (a iniziare da ebrei, ma anche tsigane - rom e sinti  - e portatori di handicap) e contro la stessa civiltà europea.

La consapevolezza della finitudine di tutte le cose non dove consegnarci al nichilismo e al pessimismo cosmico. Dobbiamo usare la leva della libertà per lottare contro la morte e contro il male senza senso del mondo. Anche se non c’è in natura, il senso gli umani possono darselo, rivoltandosi contro la tirannia termodinamica, sfidando la finitudine con il progresso. Il modo più razionale e insieme empatico per dare un senso alla propria vicenda è di dare un corpo e un’anima alla propria libertà e lottare per diminuire le sofferenze e migliorare le condizioni di vita dei propri simili, presenti e futuri.

La storia umana, scrive Pievani, non è un destino già scritto. Possiamo spenderla, questa nostra precaria eppure preziosa esistenza, per costruire insieme un futuro desiderabile. Non siamo forse noi esseri finiti che conoscono l’infinito? E non è forse questo messaggio più di una consolazione, uno sprone ad agire anche in queta vicenda pandemica che altrimenti ci apparirebbe solo come una oscura conferma della nostra finitudine?

 


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