fbpx Vaccini: tra scienza, politica ed economia | Scienza in rete

Vaccini: tra scienza, politica ed economia

Primary tabs

Con una corsa che non ha precedenti nella storia della scienza, in meno di un anno si è arrivati dalla scoperta di un nuovo patogeno, il SARS-CoV-2, ad avere a disposizione diversi vaccini per combattere l’infezione. Adesso però inizia un’altra corsa, non meno complessa e delicata: passare dal vaccino alla vaccinazione effettiva, superando ostacoli, distorsioni di mercato, esitazioni e dubbi dei cittadini, nazionalismi e interferenze economiche e geopolitiche. Se ne è parlato nel corso di un webinar organizzato dall’Istituto Nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma e svoltosi Il 27 novembre scorso, nell’ambito della quindicesima notta europea dei ricercatori, con la partecipazione di Giuseppe Ippolito, Franco Locatelli e Rino Rappuoli. Ne ripercorriamo gli aspetti principali.

Immagine: Aly Song.

Tempo di lettura: 19 mins

E dunque il traguardo è vicino: le sperimentazioni cliniche hanno fornito risultati promettenti e, sulla base di questi dati e dell’assenza di rilevanti reazioni avverse nel corso di tutte le fasi di sperimentazione, le società produttrici di due candidati vaccini – Moderna e BioNTech-Pfizer – hanno richiesto alle autorità regolatorie negli USA e in Europa l’autorizzazione all’uso emergenziale. La Gran Bretagna ha già concesso il 2 dicembre l’autorizzazione al vaccino Pfizer con una procedura che ha avuto tempi sorprendentemente brevi, entro la fine dell’anno si pronuncerà la FDA americana e tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 l’EMA europea. In sintesi, con il 2021 potranno partire le vaccinazioni della popolazione, in base alle priorità che saranno stabilite nazione per nazione seguendo però una logica comune: operatori sanitari, residenti nelle case di riposo, addetti ai servizi essenziali, persone anziane e/o con gravi patologie sono quasi dappertutto le categorie in cima alla lista.

Dunque, ci siamo? Possiamo metterci alle spalle questo incubo durato un anno intero e tornare alla nostra vita di sempre? Calma e gesso. Avere un vaccino è un conto, vaccinare le persone – e averle tutte o quasi tutte vaccinate, in modo da creare una immunità di gruppo – è una cosa completamente diversa e soprattutto ci vuole tempo. Il 14 agosto scorso, in un articolo pubblicato su Repubblica dal titolo Il vaccino della fiducia, parlavamo di questo e di altro: del prezzo dei vaccini, per esempio, o delle strategie per vaccinare le popolazioni dei paesi più poveri. Già allora era evidente che l’ingrediente principale di questa grande sfida è la fiducia, e che solo un dibattito aperto e trasparente che non nasconda i problemi e le difficoltà può creare le condizioni migliori per il successo di una operazione – la vaccinazione di massa dell’intera popolazione – che non è mai stata realizzata in Italia dopo la campagna di vaccinazione contro la polio.

Un anno vissuto intensamente

Diceva Lenin: «Ci sono decenni in cui non accade nulla; e ci sono settimane in cui accadono decenni». Proviamo a riavvolgere il film e torniamo a quel 31 dicembre 2019, quando le autorità sanitarie cinesi rendono nota la presenza di un focolaio di sindrome febbrile, associata a polmonite di origine sconosciuta, tra gli abitanti di Wuhan, una città industriale di circa 11 milioni di abitanti situata alla confluenza tra il Fiume Azzurro e il fiume Han. Da lì è partita una corsa che non si è ancora conclusa, che vede attualmente quasi trecento candidati vaccini, oltre sessanta dei quali già in fase di sperimentazione sull’uomo, e una dozzina abbondante giunti alla fase 3, l’ultima prima della richiesta di approvazione da parte delle agenzie regolatorie.

È strabiliante la velocità con la quale gli scienziati di tutto il mondo sono saltati su questo treno e strabiliante è stata la quantità di ricerche effettuate: non solo sui vaccini, ma anche sulla diagnostica, sulla clinica, sull’uso dei farmaci, sull’epidemiologia. Il metodo scientifico, l’arrivare ai risultati partendo dalla discussione dei dati e dal confronto delle opinioni, ha dimostrato tutta la sua validità. I numeri parlano da soli: a oggi sono quasi 80.000 le pubblicazioni disponibili sulla banca dati Pubmed, più di 4.000 i trial clinici censiti sul database clinicaltrials.gov, oltre 200.000 le sequenze genomiche depositate che permettono di ricostruire l’albero genealogico di questo virus che alla fine del 2019 ha fatto il salto di specie innescando l’epidemia.

Un obiettivo, tanti approcci

I vaccini puntano a creare artificialmente nell’organismo umano la risposta del sistema immunitario ad un agente patogeno, che può essere un virus o un batterio. Nel caso del coronavirus, tutti i gruppi di ricerca impegnati nella messa a punto di vaccini contro il SARS-CoV-2 hanno scelto lo stesso bersaglio: la proteina S o spike, che si trova sulle punte della «corona» che circonda il virus. Il motivo di questa scelta è semplice: è la proteina spike che si aggancia ai recettori delle cellule umane, li «apre» come farebbe un ladro con un mazzo di chiavi false, e fa penetrare in questo modo il virus all’interno della cellula umana. A quel punto il virus prende i comandi della cellula ed inizia a moltiplicarsi al suo interno. Gli anticorpi prodotti naturalmente dall’uomo si attaccano alla proteina S e le impediscono di forzare la serratura dei recettori cellulari, rendendo così impossibile per il virus l’ingresso nella cellula e la propria riproduzione.

Ma se l’obiettivo di tutti i candidati vaccini è lo stesso, e cioè far produrre al corpo umano una risposta immunitaria contro la proteina spike, diverse sono invece le strategie che si utilizzano. Il sistema più tradizionale e consolidato è quello di inoculare il virus stesso, inattivato o attenuato: è quello che si fa per esempio con il vaccino contro il morbillo o la poliomielite. In alternativa si inocula l’involucro virale, svuotato del materiale genetico: sono i VLC (virus-like particle o particelle virus-simili), utilizzati per esempio per il vaccino contro il papillomavirus. Infine si possono iniettare solo le specifiche proteine del virus contro le quali si vuole ottenere la risposta immunitaria, di solito insieme ad una sostanza adiuvante che potenzia la risposta immunitaria dell’organismo. I vaccini contro la pertosse e contro le epatiti A e B sono realizzati con questa tecnologia.

Queste tecnologie ampiamente collaudate sono alla base di molti candidati vaccinali contro il coronavirus. Tra quelli già in fase 3, ci sono tre vaccini cinesi e uno indiano basati su virus inattivato, un vaccino canadese basato su VLC, un vaccino cinese e uno americano basato su proteine. Ma l’enorme progresso che hanno compiuto negli ultimi anni le tecnologie bioingegneristiche in campo medico ha reso possibili nuovi approcci alla creazione di vaccini. È il caso dei preparati basati sugli acidi nucleici (RNA o DNA), come quelli messi a punto da BioNTech/Pfizer e da Moderna, con i quali viene inserito nelle cellule umane il codice genetico della proteina S. In questo modo è il corpo umano stesso a produrre la proteina contro cui deve essere attivata la risposta immunitaria. Nei vaccini a vettore virale, infine, si utilizza un virus innocuo per l’uomo, per esempio un adenovirus umano o dei primati, si «taglian» dal suo genoma le istruzioni per la replicazione e le si sostituiscono con quelle che codificano la proteina spike. Attualmente ci sono quattro vaccini di questo tipo in fase 3: uno cinese, uno americano, uno russo e uno anglo-svedese. Questa è anche la tecnologia usata dal candidato vaccino ReiThera, che è in corso di sperimentazione presso lo Spallanzani di Roma e che utilizza come vettore l’adenovirus del gorilla.

Figura 1 – Le piattaforme vaccinali utilizzate per la realizzazione di vaccini contro il SARS-CoV-2. Fonte Akiko Iwasaki, Saad B. Omer, Why and How Vaccines Work. Cell, Volume 183, Issue 2, 15 October 2020: https://doi.org/10.1016/j.cell.2020.09.040DOI

Sarà solo il tempo a dirci quale è la tecnologia migliore, ma forse non ci sarà un solo vincitore, e un tipo di vaccino potrebbe rivelarsi più adatto di un altro per determinate fasce demografiche o etniche, o per persone con specifiche patologie o con il sistema immunitario compromesso.

Sono ancora tantissime le domande alle quali solo col tempo potremo dare una risposta: la più importante è se il vaccino protegge dal virus, ma subito dopo ne viene un’altra: quanto dura la protezione? Gli anticorpi che neutralizzano la proteina spike, non importa se prodotti dall’organismo in risposta all’infezione o a quella «simulazione» di infezione che è il vaccino, tendono a ridursi nel tempo, man mano che l’evento infettivo si allontana. Per garantire una immunità di lunga durata occorre quindi la memoria delle infezioni passate: accanto alla «immunità umorale» garantita dagli anticorpi neutralizzanti prodotti dai linfociti B, ovvero le truppe di prima linea contro le infezioni, ha grande importanza anche la «immunità cellulo-mediata», garantita da un altro tipo di globuli bianchi, i linfociti T, che quando l’infezione si ripresenta tirano fuori gli «stampi» usati nel passato e, in sinergia con i linfociti B, favoriscono la rapida produzione di nuovi anticorpi. Un vaccino che stimola una risposta robusta e ben coordinata del sistema immunitario ci garantirebbe una immunità a lungo termine e l’assenza di infezioni, mentre una risposta più debole o meno coordinata renderebbe possibile la reinfezione ma si spera ridurrebbe comunque i sintomi e la severità della malattia. Solo il tempo e il follow-up sulle vaccinazioni ci dirà quale vaccino, o quale tipo di vaccino, attiva al meglio questa sinergia virtuosa tra i linfociti B e i linfociti T e garantisce la copertura più estesa e duratura contro l’infezione. È evidente però che più vaccini avremo, e di più tipologie, maggiore sarà la probabilità di ottenere una immunizzazione consistente e duratura.

Figura 2 – La risposta immunitaria umana è un meccanismo estremamente complesso, nel quale agisce un tipo di risposta più immediata (immunità umorale), azionata dagli anticorpi neutralizzanti prodotti dai Linfociti B, ed una immunità cellulo-mediata, garantita dai linfociti T i quali svolgono la duplice funzione di sopprimere le cellule infette e di conservare la “memoria” delle infezioni passate.

Dal laboratorio al prodotto finito

Non esiste alcun farmaco privo di effetti collaterali: il principio in base al quale si assume una medicina è che i suoi benefici devono essere maggiori dei rischi o degli effetti indesiderati. Nel caso dei vaccini, vanno attentamente pesati i benefici della vaccinazione e i rischi che ci si assume vaccinandosi o non vaccinandosi. Su un milione di vaccinati contro la polio da uno a tre sviluppano una polio paralitica da vaccinazione, ma in numero infinitamente inferiore a quelli che riporterebbero danni permanenti o addirittura la morte non vaccinandosi. Chi si vaccina contro il morbillo ha un rischio di contrarre l’encefalomielite post-morbillosa compreso tra un caso su centomila e un caso su un milione; per chi non si vaccina, il rischio è di un caso su duemila.

È vero dunque, come ha scritto su Science Meredith Wadman, che il vaccino più rischioso è quello che non viene somministrato, ma nel caso dei vaccini il rapporto tra benefici e rischi va valutato con particolare attenzione, perché si tratta dell’unico tipo di medicinale che viene somministrato ai sani. Ci vuole una prima fase della sperimentazione, nella quale si valuta sicurezza e immunogenicità su un numero limitato di persone, e si mette a punto la dose che garantisce il bilanciamento ottimale tra efficacia e possibili effetti collaterali; quindi nella seconda fase si allarga l’inoculazione a un numero più ampio di persone, e infine nella terza fase il vaccino viene somministrato a decine di migliaia di volontari, e contemporaneamente ad altrettanti volontari viene somministrato un placebo; dal rapporto tra il numero di persone che sviluppano l’infezione o la malattia nell’uno o nell’altro gruppo si ricava la percentuale di efficacia del vaccino. A quel punto le agenzie regolatorie analizzano nel dettaglio i dati e decidono se concedere l’autorizzazione definitiva secondo regole e procedure ben definite a livello internazionale. Successivamente alla fase di registrazione, il vaccino entra nella rete di farmacovigilanza, che valuta tutte le possibili associazioni tra vaccinazione e potenziali effetti collaterali, consentendo di acquisire informazioni più ampie su tutta la popolazione trattata e sulla eventuale presenza di reazioni, e di mettere così a punto eventuali azioni di correzione.

Di solito il processo di realizzazione di un vaccino, dagli studi in vitro sino all’approvazione, richiede in media tra i cinque e i dieci anni; nel caso del SARS-CoV-2, questi tempi sono stati accorciati a sei-dodici mesi. La fretta è nemica del bene, dicevano i nostri nonni: è questo anche il caso del vaccino contro il coronavirus? La risposta è no, per una serie di motivi. Il primo è l’enorme interesse che si è concentrato sul virus e sulla pandemia da parte degli scienziati di tutto il mondo, che si sono tuffati nello studio di questo virus in una quantità e con una intensità mai viste prima di oggi, trasferendo nella ricerca sul vaccino tecnologie e metodi messi a punto per altri campi. La tecnologia del RNA messaggero, per esempio, sino a oggi era finalizzata prevalentemente alla messa a punto di farmaci oncologici. Anche i progressi della tecnologia, è ovvio, hanno giocato un ruolo importante: i sistemi bioinformatici che consentono il sequenziamento del virus oggi sono quasi una routine di laboratorio, e le tecniche di ingegneria genetica, tanto avversate da chi studia solo sui social media, hanno aperto orizzonti impensabili solo pochi anni fa.

Un altro fattore che ha reso più rapida la ricerca sui vaccini è stata la condivisione del sapere tra gruppi di ricerca di tutto il mondo, che hanno messo a fattor comune le proprie conoscenze, in una competizione virtuosa che ha permesso la costruzione di evidenze sempre più solide su un patogeno che all’inizio del 2020 era totalmente sconosciuto. Il 10 gennaio, dieci giorni dopo la prima notifica fatta all’OMS dalla Cina dei primi casi di polmonite a Wuhan, il virus era già stato isolato e il suo genoma sequenziato; passati altri 42 giorni dalla pubblicazione della sequenza, le prime fiale del vaccino Moderna erano già disponibili per la sperimentazione clinica.

Ma la ragione più importante di questa accelerazione è di natura squisitamente economica. I governi dei paesi più ricchi e potenti, Cina, USA, Russia, Unione Europea, hanno investito sul vaccino tantissimi soldi, finanziando a fondo perduto le società biotecnologiche che avevano i candidati più promettenti, e impegnandosi ad acquistare miliardi di dosi di vaccino prima ancora di sapere se le sperimentazioni sarebbero andate a buon fine e se quei vaccini sarebbero mai esistiti: la sola Unione Europea ha firmato contratti di opzione per quasi due miliardi di dosi di vaccino, mentre il governo americano con la sua «Operation Warp Speed» a fine ottobre, secondo quanto riportato da Bloomberg, aveva già erogato 10,75 miliardi di dollari a sei società farmaceutiche e ulteriori 1,6 miliardi a fornitori di fiale, siringhe e altri prodotti e servizi strategici per la produzione dei vaccini.

Nel tradizionale ciclo di messa a punto di un vaccino ogni fase (ricerca preclinica, prove sugli animali, produzione dei primi lotti, fase 1, fase 2, aumento della capacità produttiva, fase 3, autorizzazione, creazione dell’infrastruttura industriale, produzione su larga scala, commercializzazione) viene effettuata in sequenza, e spesso tra una fase e l’altra ci si ferma, o perché si ha bisogno di ulteriori risorse economiche, o perché emergono altre priorità, o perché ci sono passaggi burocratici da adempiere con le autorità regolatorie. Nel caso del coronavirus invece le società farmaceutiche hanno potuto attrezzarsi per la produzione di massa prima di sapere se il vaccino avrebbe mai funzionato, grazie al fatto che il rischio di impresa era coperto dai finanziamenti statali a fondo perduto; e dal canto loro, le agenzie regolatorie hanno deciso di velocizzare le procedure di approvazione utilizzando il metodo della cosiddetta rolling review, ovvero analizzando i dati delle sperimentazioni cliniche man mano che venivano prodotti e non alla fine della sperimentazione. Le varie fasi non si sono quindi svolte in sequenza ma in parziale sovrapposizione: inizio della sperimentazione clinica durante i test sui modelli animali, contemporaneità tra fase 1 e 2, e spesso anche con la fase 3; e messa a punto degli impianti di produzione su larga scala già nelle prime fasi della sperimentazione clinica. Le società che a fine novembre sono arrivate a chiedere alle agenzie regolatorie di tutto il mondo l’autorizzazione per l’utilizzo in emergenza dei vaccini hanno già disponibili milioni di dosi, e continuano a produrne a pieno ritmo.

L’efficacia dei vaccini: chi offre di più?

Il mese di novembre è stato punteggiato dagli annunci delle società farmaceutiche più avanti nella sperimentazione. Hanno iniziato Pfizer/BioNTech il 9 novembre, comunicando una efficacia superiore al 90% del proprio candidato. L’11 novembre DRIF, il fondo sovrano controllato dal governo russo che finanzia il vaccino a vettore virale Sputnik, pubblica un comunicato nel quale attesta una efficacia del 92%. Il 16 tocca a Moderna: la biotech di Boston comunica che il proprio vaccino, che utilizza la stessa tecnologia di quello Pfizer/BioNTech, è efficace al 94,5%. Poteva finire qui? Certo che no: passano due giorni e Pfizer controbatte: a conclusione della fase 3 l’efficacia del suo vaccino è stata pari al 95%. E il 23 arriva anche il comunicato di Astra-Zeneca, il cui vaccino a vettore virale sviluppato in collaborazione con l’Università di Oxford era sembrato a lungo il più avanti nella corsa verso l’approvazione. La multinazionale anglo-svedese comunica che dai risultati parziali dello studio di fase 3 emerge una efficacia del 90% per un dosaggio e del 62% per un altro dosaggio, con una media complessiva del 70%.

La scienza, però, non si fa con i comunicati stampa. Fornire i risultati degli studi ai giornali prima che siano stati sottoposti alla peer review e pubblicati su riviste indicizzate non è una pratica scientificamente accettabile e rischia di minare la fiducia del pubblico nei vaccini. La fretta di fornire risultati, e di fornirli i più positivi possibile, può fare più danni del silenzio. Dopo la pubblicazione del comunicato nel quale AstraZeneca annunciava l’efficacia del 70% come media tra il 62% di un gruppo e del 90% di un altro, i giornalisti sono andati più a fondo alla storia, e alla fine è emerso che l’efficacia del 90% era stata ottenuta in un gruppo al quale per errore era stata somministrata una dose più bassa di quella prevista nel protocollo, peraltro composto da un numero limitato di volontari (circa 2.800) tutti di età inferiore ai 55 anni. Per di più, nel comunicato erano stati messi insieme i risultati di due studi clinici diversamente disegnati, condotti l’uno in Gran Bretagna e l’altro in Brasile: una deviazione rispetto alla prassi comunemente seguita. Il comunicato ha aperto dubbi sullo studio, ed è probabile che questi dubbi ritarderanno il percorso del vaccino verso l’approvazione, dal momento che le autorità regolatorie potrebbero chiedere la realizzazione di nuovi trial clinici per verificare l’efficacia del nuovo dosaggio. Naturalmente anche il titolo ne ha risentito: nella settimana successiva al comunicato stampa del 23 novembre, il titolo AstraZeneca ha perso circa il 4%, mentre quelli di Pfizer e di BioNTech sono cresciuti rispettivamente del 5% e del 17%.

Mettiamo le cose in prospettiva. Tutti questi comunicati stampa per i diversi vaccini indicano una potenzialità promettente, ma solo con i dati di dettaglio, resi disponibili su riviste scientifiche oltre che nei dossier per le agenzie regolatorie, si potrà conoscere l’efficacia stratificata per gruppo di età, sesso, descrizione del caso (asintomatico, lieve, grave), trasmissibilità del virus dopo l'immunizzazione, durata della protezione. I comunicati non ci indicano quale sia la potenzialità dei vaccini di salvare vite umane, né la capacità di prevenire l'infezione, né l’efficacia in sottogruppi importanti (ad es. anziani fragili). I risultati riportati in questi comunicati si riferiscono inoltre ad un periodo di tempo di poco seguente alla vaccinazione: nulla sappiamo ovviamente delle prestazioni del vaccino a 3, 6 o 12 mesi. E infine, i bambini, gli adolescenti e gli individui immunocompromessi sono stati in gran parte esclusi dai trial clinici, quindi ci mancano ancora dei dati su queste importanti popolazioni, che in alcuni casi sono quelle che più hanno bisogno del vaccino.

Figura 3 – Andamento dei titoli azionari Pfize, BioNTech, AstraZeneca e Moderna tra il 4 novembre e il 3 dicembre 2020 (Fonte: finance.yahoo.com)

Vaccini e geopolitica

Come se non bastasse, ad accentuare la pressione sulle agenzie regolatorie che devono autorizzare l’utilizzo dei vaccini ci si mettono anche i governi, che hanno investito montagne di denaro sullo sviluppo dei vaccini e vedono finalmente la possibilità di riscuotere i dividendi politici di questo investimento, cioè il merito dell’uscita dalla pandemia. Donald Trump, la cui amministrazione ha messo in piedi l’operazione Warp Speed per velocizzare lo sviluppo dei vaccini, ha accusato Pfizer e gli altri produttori di non aver voluto dare l’annuncio dell’efficacia dei vaccini prima delle elezioni presidenziali del 3 novembre proprio con l’obiettivo di danneggiarlo, ed ha scritto in un comunicato ufficiale: «La verità è che, se il presidente fosse Joe Biden, non avreste il vaccino per altri quattro anni, né la FDA lo avrebbe mai approvato così rapidamente».

Il vaccino come arma per regolare rivalità politiche: è successo anche in Brasile, dove a fine ottobre l’agenzia regolatoria federale Anvisa ha sospeso il test del vaccino cinese Sinovac in corso nello Stato di San Paolo, il cui governatore João Doria è un avversario politico del presidente federale Jair Bolsonaro. Anvisa ha attribuito la sospensione al verificarsi di un «grave evento avverso», ma in realtà, secondo quanto hanno dichiarato le autorità sanitarie dello Stato di San Paolo, si sarebbe trattato del suicidio di uno dei volontari, un evento del tutto estraneo alla sperimentazione. Bolsonaro, che ha una posizione molto critica nei confronti della Cina e sembra preferire il vaccino realizzato dall'Università di Oxford e da AstraZeneca, ha scritto sulla sua pagina Facebook: «Morte, disabilità, anomalie... questo è il vaccino che Doria vuole imporre alla gente di San Paolo».

E la Cina? Il gigante asiatico è leggermente indietro rispetto all'Europa e agli Stati Uniti nello sviluppo dei vaccini Covid-19, anche se ha già cinque candidati vaccini in fase 3, ma ha un vantaggio consistente nella capacità produttiva e distributiva, grazie alla enorme capacità della sua industria manifatturiera e alla capacità dello Stato di indirizzare le risorse dove è richiesto dalle esigenze economiche o politiche. Si tratta di un fattore decisivo, perché non meno importante dell’efficacia di un vaccino è la capacità di produrlo su larga scala, soprattutto quando si tratta di raggiungere i paesi in via di sviluppo, dove la vaccinazione sembra destinata a diventare uno strumento chiave di quel soft power che ormai da parecchi anni Pechino esercita con discrezione in vaste aree del globo. La Cina, che negli ultimi decenni ha innestato un potente meccanismi di promozione della ricerca biomedica con grandi risultati in termini sia qualitativi che quantitativi, sta attualmente conducendo trial clinici in una dozzina di paesi di quattro continenti: il primo ministro degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Rashid Al Maktoum, si è fatto fotografare su Twitter mentre riceve il vaccino Sinopharm. E mentre la politica americana sui vaccini è rimasta fedele al motto isolazionista trumpiano «America First», la Cina ha fatto della «diplomazia del vaccino» uno strumento per estendere il proprio raggio di influenza. Prima di tutto ha assicurato il proprio sostegno al programma COVAX dell’OMS per l’equa distribuzione dei vaccini in tutti i paesi in via di sviluppo, poi ha garantito 46 milioni di dosi al Brasile, 35 al Messico e 50 alla Turchia, ha autorizzato l’infialamento decentrato in Indonesia, ha garantito l’accesso prioritario ai propri vaccini a Cambogia, Myanmar, Laos, Thailandia, Vietnam, Afghanistan, Malesia, ha concesso un prestito di un miliardo di dollari per l’acquisto dei propri vaccini ai paesi dell’America Latina e dei Caraibi, e ha promesso ai paesi africani, nel corso di un video-summit svoltosi a giugno, che saranno tra i primi ad avere il vaccino non appena il suo sviluppo sarà completato. All’aeroporto internazionale di Shenzen è stata allestita un’area dedicata nella quale saranno stoccati i vaccini che, una volta ottenuta l’approvazione, verranno spediti in giro per il mondo.

Conclusione

In un editoriale pubblicato il 21 novembre scorso sulla prestigiosa rivista The Lancet con il titolo «Vaccini COVID-19: non è il momento dell’autocompiacimento», si legge «La prospettiva di prevenire malattie e morte, e di evitare i danni e le sofferenze dei divieti e delle restrizioni, ci dà motivi di ottimismo. Ma anche se è giusto essere fiduciosi e speranzosi, dobbiamo essere consapevoli che siamo ben lontani dall’aver messo fine al Covid-19 come problema di salute pubblica». Troppe sono le domande alle quali non abbiamo ancora una risposta, ad alcune delle quali abbiamo accennato nei paragrafi precedenti: quale sarà la tipologia e la durata della risposta immunitaria? L'infezione può fornire un'immunità sterilizzante? Quanto rapidamente si riduce l'immunità protettiva? Quanto grave potrebbe essere la reinfezione? Come varia l'immunità in base a sesso, etnia ed età? Avremo una stagionalità annuale dei focolai oppure periodi più lunghi di tranquillità con periodica riemergenza? Come dovranno adattarsi e adeguarsi i sistemi sanitari?

E c’è poi il problema per nulla secondario della paura del vaccino. I sondaggi in tutto il mondo mostrano che un numero consistente di persone rifiutano il vaccino o semplicemente pensano che non sia ancora sicuro e non sono intenzionati a vaccinarsi, almeno all’inizio. E quando, come è avvenuto in molti paesi tra cui gli Stati Uniti, il semplice indossare la mascherina viene visto come un atto politico anziché una misura di salute pubblica, diventa essenziale una leadership responsabile e una comunicazione attenta ed efficace. Più che la costrizione conta la convinzione a vaccinarsi, e quindi è fondamentale una campagna di comunicazione pubblica che spieghi chiaramente quali sono i vantaggi e i rischi: minimi, ma ci sono anche quelli. Ben vengano quindi le discussioni pubbliche e anche le polemiche sulla necessità di maggiore trasparenza nella comunicazione dei dati clinici, sui meccanismi di distribuzione, sulle priorità da seguire nella vaccinazione, sull’opportunità o meno di derogare, in una fase così particolare, alla disciplina sulla tutela della proprietà intellettuale. Sono temi che, anche se spesso molto tecnici, riguardano tutti, e vanno discussi apertamente e pubblicamente, soprattutto in un paese come il nostro dove nel recente passato molte forze politiche anche di governo hanno apertamente e sciaguratamente avversato questo fondamentale strumento di salute pubblica.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Generazione ansiosa perché troppo online?

bambini e bambine con smartphone in mano

La Generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli (Rizzoli, 2024), di Jonathan Haidt, è un saggio dal titolo esplicativo. Dedicato alla Gen Z, la prima ad aver sperimentato pubertà e adolescenza completamente sullo smartphone, indaga su una solida base scientifica i danni che questi strumenti possono portare a ragazzi e ragazze. Ma sul tema altre voci si sono espresse con pareri discordi.

TikTok e Instagram sono sempre più popolati da persone giovanissime, questo è ormai un dato di fatto. Sebbene la legge Children’s Online Privacy Protection Act (COPPA) del 1998 stabilisca i tredici anni come età minima per accettare le condizioni delle aziende, fornire i propri dati e creare un account personale, risulta comunque molto semplice eludere questi controlli, poiché non è prevista alcuna verifica effettiva.