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Cinquanta sfumature di greenwashing

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La pratica del greenwashing rappresenta ancora uno dei principali ostacoli alla transizione ecologica: è stato ed è usato da molte aziende che vogliono nascondere le loro attività ambientalmente dannose - soprattutto quelle legate ai combustibili fossili - sotto uno strato di apparente e quindi solo superficiale sostenibilità.

Immagine: Pixabay License.

Tempo di lettura: 13 mins

Gli esordi del greenwashing

Il greenwashing rappresenta la pratica aziendale di mostrarsi attenti alla sostenibilità per nascondere un discutibile impegno per la salvaguardia ambientale. L’articolo «The troubling evolution of corporate greenwashing» del quotidiano britannico The Guardian ne ripercorre alcune tappe mettendone in luce gli aspetti più torbidi.

Negli anni Sessanta, il movimento antinucleare metteva in dubbio l’affidabilità delle centrali nucleari, la loro sicurezza e il loro apparentemente basso impatto ambientale. Il colosso americano Westinghouse, e in particolare la sua divisione nucleare, ribatteva con una serie di annunci che proclamavano la pulizia e la sicurezza delle centrali nucleari, avvalendosi di immagini evocative come quella di una centrale nucleare adagiata sulla riva di un lago incontaminato. Alcune delle affermazioni degli spot erano vere: nel 1969, le centrali nucleari della Westinghouse producevano grandi quantità di elettricità a basso costo con un inquinamento atmosferico molto inferiore rispetto alle centrali a carbone concorrenti. Tuttavia le pubblicità sembravano ignorare che solo qualche anno prima si erano verificati due episodi di meltdown nucleare: uno interessò la centrale SL-1 in Idaho nel 1961 e il secondo la centrale Fermi 1 in Michigan nel 1966. Gli annunci della Westinghouse tralasciavano anche le preoccupazioni sull'impatto ambientale delle scorie nucleari, che continuano a essere un problema.

Si potrebbe pensare che le cose nel tempo siano migliorate, ma nel 2013, in mezzo alle preoccupazioni per la disoccupazione e per la sostenibilità energetica, la Westinghouse ha lanciato un nuovo spot. «Lo sapevate che l'energia nucleare è la più grande fonte di energia per l'aria pulita del mondo?», ha chiesto agli spettatori poco prima di affermare che le sue centrali nucleari «forniscono aria più pulita, creano posti di lavoro e aiutano a sostenere le comunità in cui operano».

Anche in questo caso l’azienda sembrava sperasse nella breve memoria dei consumatori. Solo due anni prima, infatti, la Westinghouse era stata citata dalla U.S. Nuclear Regulatory Commission – agenzia indipendente che ha lo scopo di garantire l'uso sicuro dei materiali radioattivi per scopi civili benefici – per aver nascosto delle falle nei progetti dei suoi reattori e aver fornito informazioni false alle autorità di controllo. Inoltre, nel febbraio 2016, un altro impianto che utilizza i reattori della Westinghouse, l'Indian Point di New York, ha rilasciato materiale radioattivo nelle acque sotterranee dell'area circostante. Un articolo del The Guardian sulla vicenda riporta che in una località colpita i livelli di radioattività erano aumentati di quasi il 65.000%, passando da 12.300 pCi/L (picocurie per litro) a oltre 8.000.000 pCi/L. Il livello massimo di contaminazione di trizio nell'acqua potabile stabilito dall'Environmental Protection Agency (EPA) è di 20.000 pCi/L, anche se Entergy, la società proprietaria dell'impianto, ha sottolineato che solo le acque sotterranee, e non l'acqua potabile, erano state contaminate.

Un'altra tappa emblematica nella storia del greenwashing fu la campagna pubblicitaria lanciata dalla compagnia petrolifera Chevron a metà degli anni ’80. L’azienda commissionò una serie di costosi spot per convincere il pubblico della sua attenzione verso l’ambiente: il titolo era «People Do». Uno spot in particolare mostra un grizzly andare in letargo in una incontaminata grotta di montagna, mentre la voce fuori campo racconta di come i loro dipendenti avrebbero eseguito esplorazioni di petrolio nel sottosuolo, per poi provvedere a ripristinare eventuali danni ambientali in tempo per il risveglio dell’orso.

Molti dei programmi ambientali che la Chevron ha promosso nelle sue pubblicità, come in questo caso, erano stati in realtà imposti dalla legge. Erano anche relativamente poco costosi se confrontati con il budget pubblicitario della Chevron. L'attivista ambientale Joshua Karliner1 ha stimato che, a esempio, la realizzazione della campagna di tutela delle farfalle della Chevron richiedeva 5.000 dollari all'anno, mentre la produzione e diffusione degli annunci pubblicitari per promuoverla costarono milioni di dollari.

Inoltre, nel periodo in cui veniva lanciata la campagna «People Do», la Chevron violava il Clean Air Act, il Clean Water Act, le leggi federali che regolano le emissioni atmosferiche e gli scarichi di sostanze inquinanti nelle acque degli Stati Uniti, in vigore rispettivamente dal 1970 e 1972, e rilasciava petrolio in rifugi dedicati alla fauna selvatica. Gli spot tuttavia furono molto efficaci, come ricorda il Guardian, tanto da vincere il premio pubblicitario Effie advertising award nel 1990, e successivamente essere utilizzati come caso di studio alla Harvard Business School. Ma non passò molto prima che diventassero famosi anche tra gli ambientalisti, che li proclamarono il gold standard del greenwashing.

Da dove nasce la parola Greenwashing

Il termine «greenwashing» è la sincrasi tra «green» e «washing»: una lavata di verde, per nascondere con il marketing attività tutt’altro che sostenibili. Ma quando e come nasce la parola «greenwashing»? Quando, nel 1983, Jay Westerveld – ci ricorda il Guardian – ebbe per la prima volta l’idea del termine greenwashing, non stava pensando all'energia nucleare, ma agli asciugamani. Studente universitario in un viaggio di ricerca a Samoa, si fermò alle Fiji per fare surf. Trovandosi nell’immenso resort Beachcomber, vide un biglietto che chiedeva ai clienti di ritirare i loro asciugamani. In sostanza diceva che gli oceani e le scogliere sono una risorsa importante, e che il riutilizzo degli asciugamani ridurrebbe i danni ecologici e finiva dicendo qualcosa del tipo: «Aiutateci ad aiutare il nostro ambiente». Westerveld in realtà non alloggiava nel resort, ma in una pensione modesta nelle vicinanze, e si era appena intrufolato per rubare degli asciugamani puliti. Rimase colpito dall'ironia della nota: mentre sosteneva di proteggere l'ecosistema dell'isola, infatti, il Beachcomber – che oggi si definisce «la destinazione più ricercata del Pacifico meridionale» – si stava espandendo.

Tre anni dopo, nel 1986, Westerveld stava scrivendo una tesina sul multiculturalismo quando si ricordò della nota. Un suo compagno di corso che lavorava per una rivista letteraria gli fece scrivere un saggio al riguardo e, dato che la rivista aveva una grande affluenza di lettori nella vicina New York City, non passò molto tempo prima che il termine prendesse piede nei media più ampi. Il saggio di Westerveld uscì un anno dopo il lancio della campagna «People Do», ma la Chevron non è stata l'unica azienda a cavalcare l’onda del greenwashing.

Questi possono sembrare casi isolati, tuttavia oggi, come afferma Michela Melis intervistata da Asia Moretti – Research Fellow presso GREEN (il Centre for Geography, Resources, Environment, Energy and Networks della Bocconi) – «le strategie di green marketing non sono più, come è capitato in passato, delle strategie di nicchia che si rivolgono a dei segmenti di mercato molto specifici e puntuali, ma stanno diventando sempre più pervasive, lo si vede soprattutto nei mercati dei beni di largo consumo».

Il caso DuPont

Nel 1989 – come raccontava nel 1991 il The Multinational Monitor l'azienda chimica DuPont presentò le sue nuove petroliere a doppio scafo con una pubblicità che mostrava animali marini battere le pinne e le ali sulle note dell'Inno alla Gioia di Beethoven. Tuttavia, come ha sottolineato l’associazione non-profit Friends on Earth nel suo rapporto «Hold the Applause», la società è stata la più grande inquinatrice degli Stati Uniti. La decennale battaglia legale tra la multinazionale DuPont e l’avvocato Robert Bilott è descritta nell’articolo del New York Times Magazine «The Lawyer Who Became DuPont’s Worst Nightmar», pubblicato nel gennaio del 2016. La vicenda ha inizio nel 1998 quando l’avvocato valuta la condotta dell’azienda dopo la richiesta di un contadino sicuro che questa stesse contaminando i suoi terreni: dopo diverse ricerche, Bilott trova rimandi al PFOA, un composto chimico allora sconosciuto anche all’EPA.

Si stima che tra il 1951 e il 2003 la DuPont abbia riversato quasi 7100 tonnellate di PFOA-C8 nei corsi d’acqua limitrofi al suo stabilimento di Washington Works, fino a contaminare il vicino fiume Ohio. Grazie al report compilato da Bilott e inviato al Dipartimento di giustizia di Washington e all’EPA, nel 2005 l’ente ambientale multò la DuPont per 16,5 milioni di dollari – una cifra irrisoria rispetto al fatturato annuale dell’azienda – per aver insabbiato i rischi legati allo smaltimento del PFOA. Dopo la sentenza Bilott decide di non fermarsi e organizza una class action collettiva che coinvolgesse tutte le almeno 100mila persone entrate in contatto con l’acqua contaminata da PFOA.

Dopo 7 anni di ricerche nel dicembre del 2011 arrivano i risultati, i ricercatori parlano di «probabili legami» tra il PFOA e l’insorgere di cancro ai reni e ai testicoli, disfunzioni della tiroide, picchi del colesterolo e ulcere intestinali. Quando il nesso è evidente, la DuPont cerca di limitare i danni portando in tribunale uno alla volta gli oltre 3500 contenziosi intentati nei suoi confronti. Dopo la vittoria di Bilott nei primi tre contenziosi e i risarcimenti milionari imposti alla DuPont, nel 2017 l’azienda chimica ha deciso di accettare la class action guidata dall’avvocato e di accordarsi per una maxi multa da 671 milioni di dollari. Come si legge nel sito dell’AIRC, l’EPA «ha affermato che i dati oggi disponibili suggeriscono un possibile legame causale tra PFOA (e altri composti simili) e il cancro; l’American Conference of Governmental Industrial Hygienists (ACGIH) ha classificato il PFOA come cancerogeno confermato negli animali, con rilevanza ancora incerta per gli esseri umani». Nel 2016, la stessa AIRC «ha classificato il PFOA nel gruppo 2B, del quale fanno parte le sostanze possibilmente cancerogene per l’uomo».

Anche alla luce di questi accadimenti, dice Michela Melis, «il fenomeno del greenwashing è sotto la lente dell'attenzione anche dalle istituzioni ed è evidente che ci sia un interesse crescente a normare l'utilizzo di questi termini, perché l'abuso e l’uso scorretto da parte delle aziende si traduce da un lato nel danneggiamento dei competitor, e dall’altro in un'informazione misleading sul mercato».

Una sanzione per ENI

La pubblicità ENI Diesel+, che ha circolato tra il 2016 al 2019, può essere considerato il primo caso di greenwashing in Italia, sanzionato, il 15 gennaio 2020, con una multa da cinque milioni di euro. Sentenza arrivata dopo una denuncia da parte di Legambiente, dal Movimento Difesa del Cittadino e da Transport & Environment (T&E) ed erogata dall’Autorità Antitrust. Come si legge nel comunicato stampa pubblicato il 15 gennaio 2020 dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), ENI è stata sanzionata «per la diffusione di messaggi pubblicitari ingannevoli utilizzati nella campagna promozionale che ha riguardato il carburante Eni Diesel+, sia relativamente all’affermazione del positivo impatto ambientale connesso al suo utilizzo, che alle asserite caratteristiche di tale carburante in termini di risparmio dei consumi e di riduzioni delle emissioni gassose».

Il carburante in questione viene definito dalla multinazionale biodiesel o anche semplicemente green diesel perché promette più attenzione all’ambiente e una riduzione dei consumi e delle emissioni rispettivamente del 4% e del 40%. Secondo l’AGCM «nei messaggi si utilizzavano in maniera suggestiva le qualifiche “componente green” e “componente rinnovabile”, e altri claim di tutela dell’ambiente, quali “aiuta a proteggere l’ambiente. E usandolo lo fai anche tu, grazie a una significativa riduzione delle emissioni”, sebbene il prodotto sia un gasolio per autotrazione che per sua natura è altamente inquinante e non può essere considerato green». Questi green claim deriverebbero dalla presenza, nella sua versione di biodiesel, di una componente di

HVO (Hydrotreated Vegetable Oil) che in questo caso provengono dall’olio di palma grezzo. Oltre a questo, ENI giustificherebbe l’aumento del prezzo di questo carburante del 10%, proprio perché sostenibile, bio e rinnovabile.

L’Italia è, al momento, il secondo produttore in Europa di biodiesel da olio di palma. Nel 2018 il 54% di questo olio è stato utilizzato proprio per produrre questo tipo di carburante, utilizzato soprattutto per camion e auto. La maggior parte dell’olio di palma sul mercato, deriva da piantagioni dell’Indonesia e della Malesia, due Paesi in cui il tasso di deforestazione è schizzato alle stelle negli ultimi dieci anni. È quindi da considerare come una delle principali cause della distruzione di foreste pluviali e della perdita di fauna selvatica. Nonostante le campagne e le petizioni di successo per ridurne l’utilizzo nei prodotti alimentari, continua ad aumentare l’utilizzo di olio di palma nei biodiesel. In un rapporto di Legambiente, intitolato «Enemy of the Planet», si legge che «gli studi internazionali hanno dimostrato che il 30% delle nuove coltivazioni di palma e l’8% di quelle di soia, utilizzati per la produzione di biocombustibile poi importato nel nostro Paese per le bioraffinerie di ENI, hanno comportato distruzione di foreste vergini, di brughiere e di praterie. Si stima che un litro di olio di palma determini emissioni indirette di CO2 pari al triplo dell’equivalente di petrolio e un litro di olio di soia il doppio».

La Commissione europea ha quindi deciso di modificare i criteri di sostenibilità dei biocarburanti di prima generazione con la Direttiva Rinnovabili che prevede un congelamento della produzione di biodiesel ai livelli del 2019, per il periodo 2021 – 2023, con l’obiettivo di abbandonare definitivamente l’utilizzo di olio di palma entro il 2030.

Generalizzando la vicenda di ENI, «se comunichi male ti esponi ad una serie di rischi – ricorda Michela Melis – il primo è quello sanzionatorio, che potrebbe anche tradursi in un esborso monetario non previsto che in alcuni casi non impatta troppo sul bilancio dell'impresa; il secondo si porta dietro un inevitabile danno d’immagine e reputazione che è molto più difficile da colmare. A questo bisogna aggiungere che oggi, i consumatori, sono molto più attenti e precisi nelle loro richieste alle aziende rispetto alle loro performance ambientali».

L’Italia è tra i primi paesi al mondo a rendere obbligatorio l’insegnamento annuale alcune ore di educazione allo sviluppo sostenibile. Risulta paradossale che l’Associazione nazionale dei presidi abbia chiesto proprio a ENI di formare i docenti, visto che il core business dell’azienda rimangono ancora i combustibili fossili. Le prime a mobilitarsi sono state le insegnanti di Teachers for Future (un gruppo che fa riferimento ai Fridays for Future) che hanno dichiarato in una lettera che «come Teachers for future Italia non possiamo che prendere le distanze da questa iniziativa che coinvolge una delle grandi aziende mondiali che causano cambiamento climatico e contaminazione del Pianeta attraverso l’estrazione senza limiti dei combustibili fossili, che è già stata riconosciuta responsabile di immani disastri ambientali, corruzione, sfruttamento dei Paesi poveri e che tenta di dipingere di verde la sua anima nera attraverso costante e pressante attività di greenwashing».

Solo nell’ultimo anno, ENI ha prodotto 1,9 milioni di barili di petrolio al giorno e ha speso, nel 2019, 73 milioni di euro in pubblicità e attività di comunicazione; secondo il rapporto Enemy of the Planet, «nel 2018 ha investito solo 143 milioni di euro per investimenti tecnici in sviluppo di progetti rinnovabili, economia circolare e digitalizzazione».

L’azionariato attivo

All'inizio degli anni Novanta, i consumatori erano consapevoli delle preoccupazioni in materia di sostenibilità: i sondaggi hanno mostrato che la condotta ambientale delle aziende ha influenzato la maggior parte degli acquisti dei consumatori. Un sondaggio Nielsen del 2015 ha mostrato che il 66% dei consumatori globali è disposto a pagare di più per prodotti sostenibili dal punto di vista ambientale. Tra i millennial (ovvero le generazioni nate tra il 1981 e il 1996), questo numero salta al 72%. Molte aziende hanno adottato la strategia della sensibilizzazione con lo scopo di coinvolgere i clienti nei loro sforzi di sostenibilità, anche quando il loro modello di business principale rimane insostenibile dal punto di vista ambientale.

Questo interesse per l'ambiente ha portato a una maggiore consapevolezza del greenwashing; alla fine del decennio, la parola è entrata ufficialmente nella lingua inglese con l'inserimento nel dizionario inglese di Oxford. Da allora, la tendenza è solo aumentata. Grazie all’identificazione e alla conoscenza del fenomeno, il consumatore ha aguzzato lo spirito critico e quando nel 2010 la stessa Chevron ha proposto una nuova campagna pubblicitaria dal titolo «We Agree», gli attivisti dell’associazione The Yes Man hanno prontamente risposto. Per screditare la Chevron hanno creato una finta versione della stessa campagna con tanto di sito internet e comunicato stampa, che i giornalisti hanno prese per vere.

I consumatori hanno inoltre sviluppato strategie per riuscire a imporre alle aziende il peso della loro opinione. In molti Paesi, infatti, è nata una nuova forma d’intervento: l’azionariato attivo (o critico). Grazie all’acquisto di azioni (anche in quantitativi simbolici), gli attivisti hanno iniziato a intervenire alle assemblee annuali delle imprese come azionisti, portando all’attenzione dei consigli di amministrazione di grandi società multinazionali le controversie ambientali nelle quali sono coinvolte. L’azionariato attivo ha già dato risultati significativi. Le grandi imprese, molto spesso sorde alle proposte dei consumatori, delle campagne e dei movimenti, sono generalmente più attente alle richieste provenienti dagli azionisti che, in quanto «comproprietari», acquistano il diritto di partecipare alla vita delle società e di ottenere risposte su questioni ambientali o sociali. «È quello che ha fatto Follow This, un’organizzazione che invita chiunque abbia a cuore l’ambiente ad aderire con una quota minima di 32 euro, sufficiente per diventare azionista di Shell», si legge su Lifegate. Il colosso dell’energia ha annunciato che si sarebbe impegnato a dimezzare la propria impronta di carbonio entro il 2050, ma Follow This ha sottoposto a Shell una risoluzione per chiedere obiettivi climatici più ambiziosi.

Il Greenwashing ha sicuramente cambiato forma nell’ultimo decennio, in parallelo alla crescente consapevolezza del consumatore, e non tutto il merketing verde può essere certo esser tacciato di Greenwashing, come spiega bene questo articolo.  Eppure, il greenwashing resta un fenomeno molto diffuso e che è bene conoscere per imparare a tutelarsi.

 

Bibliografia:
[1] Karliner J., The Corporate Planet, Sierra Club Books, 2002

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