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I migliori vaccini sono darwiniani

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Quest’anno il Darwin Day, che si avvicina (12 febbraio), dovrebbe essere l’occasione per ricordare, più del solito e di fronte al dispiegarsi sull’intero pianeta di una pandemia in tutto e per tutto darwiniana, che nessuno quanto l’autore dell’Origine delle specie ha reso possibile al pensiero raggiungere una comprensione oggi straordinariamente avanzata della natura della vita, dell’uomo e della conoscenza. Più di quanto lui stesso potesse immaginare. Non è un caso se, di norma, negazionisti, complottisti, suprematisti, fanatici religiosi, etc. sono anti-evoluzionisti, in quanto credono che il mondo e la nostra presenza in esso abbiano un senso prestabilito; ovvero costoro pensano che Darwin abbia sporcato di bruta mondanità un’intuitiva idea di perfezione dell’uomo o ridotta a mero caso una deflagrazione della creatività biologica disegnata in modo intelligente. A qualcuno parrà incomprensibile, ma anche le fesserie in cui costoro credono sono una conseguenza dell’evoluzione. Pensare in modo darwiniano è ostico, perché è contro-intuitivo. È difficile controllare le inclinazioni finaliste e antropomorfe del pensiero (lasciti della selezione naturale), ma c’è anche il rischio di essere troppo controintuitivi e di ricondurre i fenomeni evolutivi a problemi di statistica. Vecchia storia. Darwin e le idee scaturite delle sue teorie e dai suoi studi sono ancora oggi la più importante fonte da cui trarre ispirazione per ragionare sulle dinamiche della vita in generale (Richard Dawkins pensava addirittura quelle dell’universo, quando nel 1983 scrisse Universal Darwinism). Inclusa la fenomenologia che vede espandersi sul pianeta parassiti patogeni, che nella fattispecie trovano negli esemplari umani i loro ospiti d’elezione.

Come il borghese Jourdain di Molière, che si accorse di parlare in prosa da quarant’anni senza saperlo, da quando è iniziata la pandemia e in modi sempre più stringenti nelle ultime settimane, parliamo di evoluzione darwiniana. Anche se di norma non ce ne rendiamo conto. L’emergere e il diffondersi in diversi ecosistemi epidemiologici di nuove varianti di SARS-Cov-2 erano fatti più prevedibili, anche se non matematicamente, dei cambiamenti epidemiologici con aumento/diminuzione di casi o morti, che i modellisti matematici sfornano quotidianamente. Le domande ricorrenti sono se le nuove varianti siano più efficienti a replicarsi, a trasmettersi o nel causare danni all’ospite; ovvero se sfuggiranno, in quanto cambiate nelle conformazioni antigeniche, alle risposte immunitarie istruite naturalmente dall’infezione col virus o artificialmente dai vaccini.  Sono questioni, queste ultime, di vaccinologia darwiniana.

Darwin e Pasteur

Nella tradizione della medicina evoluzionistica o darwiniana, si contrappone Darwin a Pasteur, in quando quest’ultimo è stato, insieme a Claude Bernard e Robert Koch, il signore delle “cause prossime o immediate” delle malattie, quelle che si possono studiare sperimentalmente in laboratorio come i parassiti patogeni, mentre Darwin è il signore della “cause remote o evolutive” dei cambiamenti biologici, quelle che si scoprono studiando con metodi osservazionali, sperimentali/matematici la storia naturale delle specie viventi, cioè come e perché si sono modificati nel corso delle discendenze i loro tratti fenotipici e i genotipi/pool genici sottostanti. Peraltro, Darwin si potrebbe definire un laico, che seguiva d’appresso gli sviluppi della microbiologia, mentre Pasteur era un conservatore religioso, e non aveva alcuna simpatia per la teoria dell’evoluzione, che gli risuonava come l’aberrazione di credere che discendiamo dalle scimmie. A fine Ottocento alcuni microbiologi francesi sostenevano che in realtà Pasteur fosse per la medicina quello che Darwin era per la storia naturale, nel senso che le tecniche volte a sviluppare ceppi patogeni trasformati e da usare come vaccini, applicasse gli stessi principi del darwinismo o in qualche modo si trattasse di selezione artificiale. In realtà, non era così. L’idea che guidava Pasteur era che il terreno di coltura dei microrganismi inducesse lamarckianamente i cambiamenti ereditari (anche Darwin credeva all’ereditarietà dei caratteri acquisiti ma non a una spinta verso il cambiamento in senso adattativo) e facesse emergere nuove specie con virulenza attenuata. Pronte per i vaccini. Il microbiologo francese pensava che l’immunità non avesse una base fisiologica, ma fosse dovuta al mero esaurimento di fattori nutritivi nell’ospite, dopo che l’agente patogeno vi aveva albergato lasciando vivo l’ospite.

Il moderno concetto della vaccinazione, pastoriano, non è imparentato con il darwinismo, perché si inscrive in un’idea dell’immunità come fenomeno passivo e malgrado alcuni modelli fisiologi della risposta immunitaria che intuivano la natura attiva e dinamica del fenomeno, si è dovuto aspettare gli anni Cinquanta per cominciare a capire e poi dimostrare che l’immunità dipende da una complessa architettura genetico-molecolare, che governa le dinamiche di  dentro a popolazioni cellulari con diversi ruoli e dove la specificità delle risposte è governata dalla selezione clonale. Un’idea, quella di selezione clonale, che Frank Mcfarlane Burnet, a fine anni Cinquanta, collegava direttamente alla idea darwiniana di selezione naturale, che nel frattempo Salvator Luria, Max Delbrück e Joshua Lederberg avevano dimostrato applicabile alle dinamiche adattative delle popolazioni microbiche. 

I costruttori di vaccini sono stati a lungo degli artigiani, più che degli scienziati, e li non progettavano sulla base di una conoscenza controllata dell’immunità, bensì arrivavano al risultato procedendo per tentativi ed eliminazioni degli errori. La logica della invenzione, come capita per molte innovazioni e secondo Karl Popper anche per le teorie scientifiche, è comunque in parte evoluzionistica.

Origine ed evoluzione tecnologica dei vaccini

I vaccini sono una invenzione dell’ingegno umano e discendono da osservazioni e idee magiche. Ufficialmente il primo a osservare durante la pestilenza del 430 pev (prima dell'era volgare) che le persone che guarivano da una malattia infettiva non si ammalavano una seconda volta (immunità acquisita naturalmente) fu Tucidide. Di certo si era visto anche che esistevano forme più lievi di malattie contagiosa che proteggevano da altre forme gravi, per esempio Alastrim dovuto alla specie variola minor che immunizza contro il vaiolo umano classico, causato da variola major. La prima forma causava una mortalità di circa 1%, contro il 30%. Il principio magico largamente diffuso, per cui il simile cura il simile (similia similibus curantur), fu probabilmente una prima spiegazione intuitiva degli effetti naturalmente osservati. L’immunizzazione artificiale, usando Alastrim, o variolazione, secondo Joseph Needham era praticata in Cina intorno all’anno mille, e nel 1720-22 arrivò in Europa. Fu soppianta nel 1796 (vietata in UK nel 1840) dall’uso del vaiolo delle vacche. 

L’evoluzione dei vaccini e delle tecnologie è una storia risaputa, che non ha alcuna logica o senso finalistico. Come un processo evolutivo. Dopo Jenner e il vaccino antivaioloso, che proteggeva dal vaiolo umano per immunità incrociata, arrivò nel 1885 il primo vaccino umano con agenti vivi attenuati (contro la rabbia): entrambi prima della identificazione dell’agente causale della malattia. A partire dal primo vaccino contro il tifo, nel 1896, la scoperta dell’agente ha sempre preceduto la creazione del vaccino, con tempi variabili, che vanno da quasi un secolo per i vaccini contro la meningite meningococcica (1887-1970/5) e Haemophilus influenzae (1892-1985), a pochi mesi come nel caso del vaccino contro SARS-CoV-2. Pressioni sociali dovute all’impatto della malattia, disponibilità tecnologiche e caratteristiche biologiche del patogeno sono le variabili che influenzano lo sviluppo del vaccino. I primi vaccini inattivati, dopo quello contro la rabbia, furono contro peste, colera e febbre tifoide, mentre negli anni Venti entravano in campo i tossoidi (che insegnano al sistema immunitario a riconoscere le tossine batteriche) contro difterite e tetano, seguiti a vent’anni dal primo vaccino con polisaccaridi contro lo pneumococco. Dopo una teoria di vaccini vivi attenuati negli anni Sessanta, di grande impatto sanitario (polio, morbillo, parotite e rosolia), arrivava il primo vaccino costituito da subunità (componenti molecolari del patogeno), contro l’influenza altre infezioni virale tra cui in approvazione anche uno contro SARA-Cov-2. A metà anni Ottanta la tecnologia del DNA ricombinante era usata per il vaccino contro l’epatite B, e i successivi vaccini ricombinanti fino a quelli veicolati da vettori virali (come l’adenovirus usato per vaccinare contro SARS-CoV-2). Nello stesso decennio entravano in scena i vaccini a base di polisaccaridi coniugati (anti-H. influenzae b, anti-meningococco C, anti-meningococco ACWY). Il vaccino contro il rotavirus fu il primo vaccino riassortito geneticamente per arricchire il profilo di antigeni e oggi disponiamo dei primi vaccini ad acidi nuclidi approvati, cioè quelli a mRna contro il Covid-19. 

Incerta fortuna sociale delle vaccinazioni

I vaccini sono straordinariamente migliorati sul piano della sicurezza, in quanto dagli anni Sessanta passano per i trial clinici. Le reazioni avverse sono meno gravi o più prevedibili, e incidenti dovuti a recupero della virulenza dei vaccini vivi attenuati con esiti mortali meno probabili. Come mai, se sono più sicuri, i pregiudizi contro le vaccinazioni sono così persistenti o crescenti? È normale: non possiamo cambiare la nostra percezione del rischio sulla base solo di informazioni corrette. La psicologia umana si basa su meccanismi di difesa per cui, in alcune situazioni, ignora le informazioni vere e preferisce quelle false. Una conseguenza dell’evoluzione darwiniana. 

Storicamente, non risulta che la variolazione suscitasse un rifiuto nelle società asiatiche e africane che la praticavano, mentre quando arrivò in Europa non pochi teologi e illuministi si opposero. Per esempio, Rousseau e Kant su basi di innaturalità ed etiche. La vaccinazione antivaiolosa fu accolta anche nelle forme dell’obbligatorietà in diversi paesi continentali, meno democratici, ma non nella liberale Inghilterra. Per oltre un secolo, la vaccinazione dovette confrontarsi in Inghilterra con proteste sociali, che raffiguravano propagandisticamente l’inoculazione come una interferenza nella libertà personale e un atto disgustoso, fonte di minaccia alla vita umana. Il rifiuto o l’esitazione verso le vaccinazioni, che si poteva quasi comprendere nell’Ottocento dato che il materiale e i modi di vaccinare erano davvero abbastanza disgustosi, è riemerso negli ultimi decenni con preponderanza in tutto l’occidente, per motivi psicologici che probabilmente rimangono gli stessi. 

Sono state date molte spiegazioni dell’avversione alle vaccinazioni, alcune delle quali richiamano il fatto che la nostra mente non si è evoluta per fidarci di persone che non conosciamo (o di una entità astratta come lo Stato) e che ci dicono che ci potrebbe essere qualche minimo rischio nella vaccinazione. Se non studiamo la statistica, che non si insegnava nel Pleistocene, noi stimiamo i rischi in modo erroneo. Inoltre, la propaganda contro i vaccini recluta ancora l’emozione del disgusto verso una forma di contaminazione; disgusto che come dimostrano gli psicologi cognitivi serviva evolutivamente per difenderci ai parassiti, allo scopo di associare i vaccini a un pericolo. Paradossalmente, la scomparsa dei parassiti come minacce pervasive, ha consentito che le vaccinazioni, che introducono qualcosa di estraneo in persone sane e implicano che si creda sulla fiducia che sono sicure e protettive, possano essere percepite come minacce e pratiche inquinanti. Forse il modo migliore per controbattere l’anti-vaccinismo è far leva sull’origine innata del disgusto per le malattie e gli effetti dannose, deturpanti e letali che causano le infezioni.

Vaccini ed evoluzione microbica 

Dalla primavera scorsa ci si chiede se e quando SARS-Cov-2 attenuerà la sua contagiosità e diventerà simbiotico dell’uomo, ovvero se evolverà in un banale virus del raffreddore, Nessuno potrà dirlo, anche se è possibile. Una delle caratteristiche dei fenomeni darwiniani è che le variazioni che cambiano il comportamento di un virus non insorgono allo scopo di renderlo più contagioso, virulento, patogeno, etc. o il contrario. Emergono a caso, e il fatto di conservarsi ed esibire specifici tratti fenotipici dipende dal vantaggio replicativo (selezione naturale) nell’ambiente in cui si trovano. Punto. L’evoluzione della pandemia sta andando per suo conto, in barba alla presunzione umana di sapere cosa si dovrebbe fare per metterla sotto controllo. Il virus, moltiplicandosi in diversi contesti ecologici (Brasile, Sudafrica, immunodepressi britannici, etc.) e quindi a fronte di diverse pressioni selettive, emerge nella forma di diverse varianti. Probabilmente non le conosciamo tutte, dato che il numero di genomi selezionati a livello planetario è irrisorio. 

Ci si chiede quindi se le nuove varianti dannose saranno bloccate dai vaccini approvati o da quelli in arrivo, e se i vaccini, come sarà il caso per alcuni, non hanno una efficacia completa, come evolveranno i ceppi che sopravvivono, ovvero se diverranno benigni o se vi sarà una selezione a favore della virulenza. La prima risposta è facile: dipende da come le varianti risultano cambiate a livello di epitopi (antigeni) riconosciuti dal sistema immunitario. E non è un grave problema: se i vaccini attuali perderanno efficacia si potranno cambiare le informazioni da inviare alle cellule per fare esprimere nuovi epitopi immunogeni.

La seconda domanda non ha una risposta precisa. Da tempo ci si deve chiedere se esiste una resistenza ai vaccini, come ai farmaci, e nel caso come evolve. In effetti non è frequente. La resistenza ai farmaci, per esempio antibiotici o antitumorali, emerge tipicamente subito dopo l'introduzione di un nuovo principio attivo come conseguenza della selezione di varianti (cellule batteriche o tumorali per esempio) che sfuggono all’azione del trattamento farmacologico. Ma la resistenza ai vaccini è emersa raramente. Perché?

I vaccini tendono a funzionare in modo profilattico, mentre i farmaci sono terapie, ovvero i vaccini ottimali non consentono la replicazione e conseguente crescita di popolazioni di patogeni. Niente replicazione niente evoluzione. Inoltre, i vaccini tendono a indurre risposte immunitarie contro più bersagli su un patogeno, mentre i farmaci a colpire pochissimi bersagli. Di conseguenza, le popolazioni di patogeni generano meno variazioni per la resistenza ai vaccini di quanto non facciano per la resistenza ai farmaci, e la selezione ha minori opportunità di agire su tali variazioni. 

Per gran parte della storia siamo stati fortunati, nel senso che l’efficacia della maggior parte dei vaccini usati non è stata compromessa dall’evoluzione. La vaccinazione antivaiolosa ha eradicato il virus del vaiolo umano, senza che questa abbia tentato di evolvere. Il vaccino era certamente anche la miglior combinazione di stimoli antigenici, cioè la più vicina al vaiolo umano naturale, che peraltro non aveva serbatoi animali. Ma non è emerso nemmeno alcun ceppo del virus del morbillo, della rosolia, etc. in grado di aggirare l’immunità indotta dal vaccino. La vaccinazione antidifterica ha favorito il ceppo di batterio più benigno. Qualche eccezione però la conosciamo.

Vaccinologia darwiniana

Nel 2001 l’ecologo molecolare Andrew Read pubblicava su Nature un modello matematico da cui risultava che i vaccini imperfetti (molto imperfetti) allora in sperimentazione contro la malaria da falciparum, rischiavano di incrementare la virulenza del protozoo.  Nei due decenni che sono seguiti, il modello matematico ha trovano un certo numero di applicazioni nel mondo reale, spiegando per esempio l’aumento della virulenza favorita dalla vaccinazione nel caso della malattia di Marek dei polli, dovuta a un herpesvirus e che provoca perdite nell’industria del pollame per circa 2 miliardi all’anno. Il vaccino funziona come profilassi anti-malattia, e va a vantaggio della salute immediata dei polli, ma favorisce l’evoluzione nel tempo di ceppi più virulenti e implica la rincorsa con vaccini aggiustati da parte dei vaccinologi (i vaccini anti Marek finora sviluppati sono tre, dal 1970). Due casi simili si conoscono nel mondo dell’allevamento animale, e riguardano alcune infezioni nei salmoni da allevamento e un’infezione aviaria da metapneumovirus. 

I modelli matematici suggeriscono che i vaccini che sono protettivi per gli individui nei trial clinici possono nondimeno generare indesiderate conseguenze per la popolazione nel suo insieme. I benefici immediati dei vaccini anti-malattia o imperfetti nascondono un maggior rischio di evoluzione di ceppi più virulenti. Il vaccino acellulare contro la pertosse, rispetto a quello precedente che conteneva il batterio ucciso, conferisce una immunità più breve, per cui si sono avute diverse riprese della malattia, e la causa è stata probabilmente l’opportunità evolutiva. L’acellulare è preferito perché non ha alcun effetto collaterale. Diversi ceppi del virus dell’epatite B resistenti ai vaccini sono stati rilevati e il loro impatto sanitario è allo studio. La storia dei vaccini della serie Prevnar (7, 13) contro polmonite, otite, meningite, etc. da S. pneumonie nei bambini e negli adulti è un caso interessante, perché esistono 90 sierotipi distinti del batterio e i primi vaccini ne intercettavano 7 e 13. Prevnar 7 aveva ridotto i casi e le morti, ma aveva portato a una ristrutturazione evolutiva della popolazione batterica, cosa che sembra avvenire anche con 13. La ristrutturazione è continuamente in corso e l’evoluzione è favorita dal fatto che la vaccinazione si fa soprattutto negli Stati Uniti ma non in Europa e in altre parti del mondo.

A causa dell’evoluzione microbica, per malattie umane come la malaria, la tripanosomiasi, l'AIDS, etc. i vaccini sono difficili o impossibili da sviluppare perché i patogeni usano diverse strategie per cambiare le strutture antigeniche riconoscibili o non si fanno proprio vedere dal sistema immunitario. Nei contesti agricoli, dove si cercano soluzioni immediate e soddisfacenti economicamente, i vaccini animali sono minati dall'evoluzione microbica. La virulenza di un patogeno è direttamente collegata alla replicazione. In pratica, più patogeno uguale più malattia, per cui si dovrebbe fare il possibile per produrre vaccini che annullano la replicazione, e quindi la trasmissione.  

Darwin contro Covid-19

Se SARS-CoV-2 dovesse evolvere in risposta a un vaccino anti-COVID, potrebbe adottare la strategia del virus dell'influenza, cioè cambiare continuamente le molecole di superficie per cui gli anticorpi funzionano giusto per il tempo i cui gli epitopi rimangono gli stessi. Il virus presto sfuggirebbe al riconoscimento e si tratterebbe di aggiornare periodicamente, come per l’influenza, anche il vaccino anti-Covid. L'evoluzione potrebbe portare il virus a diventare, sotto la pressione del vaccino, invisibile e semi-innocuo, magari riproducendosi lentamente o nascondendosi in organi dove l'immunità è meno attiva. Agenti patogeni che causano infezioni croniche hanno intrapreso questa direzione e non sono rilevati perché non causano malattie acute. 

Una via più pericolosa per noi ospiti sarebbe se il virus sviluppasse un modo per replicarsi più rapidamente rispetto dell'immunità generata dal vaccino. Un'altra strategia sarebbe che il virus decidesse di colpire il sistema immunitario e smorzasse l'immunità indotta dal vaccino. Come nel caso del myxoma dei conigli. Andrew Read e il suo gruppo pensano che i vaccini veramente a prova di evoluzione sono quelli molto efficaci nel sopprimere la replicazione virale, per cui interrompono ogni ulteriore trasmissione.

Il vaccino ideale prevede: nessuna replica, nessuna trasmissione, nessuna evoluzione. Inoltre, per essere a prova di evoluzione un vaccino deve attivare risposte immunitarie che attaccano contemporaneamente diverse parti dell’agente patogeno. È normale che qualche parte del virus muti e sfugga al bersaglio, ma se molti siti vengono riconosciuti contemporaneamente, l’evasione immunitaria richiede che molte mutazioni elusive separate avvengano simultaneamente. Il che è altamente improbabile. In laboratorio SARS-CoV-2, ha sviluppato rapidamente una resistenza verso anticorpi monoclonali, ma ha fatto fatica a sviluppare resistenza contro un cocktail di anticorpi, mirati verso più siti diversi. I vaccini a prova di evoluzione proteggono da tutti i ceppi circolanti, in modo che nessun’altra variante possa riempire il vuoto quando i concorrenti sono eliminati. 

Almeno due centinaia di vaccini COVID sono allo studio o si trovano a vari stadi di sviluppo. Andrew Read ritiene che prima di scoprire quanti hanno le caratteristiche a prova di evoluzione, si potrebbe fare un piccolo sforzo ulteriore durante le sperimentazioni per capire se un vaccino sarà a prova di evoluzione. Eseguendo tamponi sulle persone che hanno ricevuto il vaccino sperimentale, si potrebbe stabilire dire fino a che punto vengono soppressi i livelli virali e analizzando il genoma dei virus nelle persone vaccinate, si potrebbe controllare se è in atto una fuga evolutiva. Infine, prelevando il sangue dai vaccinati, si potrebbe calcolare in laboratorio quanti siti del virus vengono riconosciuti dall'immunità indotta dal vaccino.

Accontentarsi di un sollievo parziale o temporaneo come effetto di una strategia di vaccinazione non è saggio, perché mentre si osservano benefici per i singoli, a livello di popolazione e sul lungo periodo le persone rimangono vulnerabili. E il problema viene solo spostato, con uno scambio non conveniente tra tempo e denaro. Dal dopoguerra conviviamo con la resistenza agli antibiotici, gli insetti resistenti agli insetticidi e le erbe infestanti che resistono agli erbicidi. Sarebbe segno di intelligenza agire per tempo in modo da non ripetere una storia che conosciamo bene.

 

Bibliografia

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