A differenza di quanto avvenuto in altri Paesi dove l’organizzazione della comunicazione tra scienziati e governi è stata organizzata con team interdisciplinari che raccolgono esperti di diversi campi scientifici e che in alcuni casi prevede la figura del consigliere scientifico, in Italia la pandemia è stata trattata come un problema esclusivamente medico. È l'effetto di un sistema che concepisce la scienza come un insieme di silos: ogni ricercatore è incasellato e la sua attività è valutata solo per la sua congruenza con un settore disciplinare definito in modo restrittivo; una maledizione per università e ricercatori e che ha avuto una parte anche nella gestione della pandemia.
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Due notizie di tenore opposto mi hanno colpito nelle ultime due settimane. La prima, mercoledì 3 marzo: stando agli analisti di Quacquarelli-Symonds, che compilano il famosissimo QS University Ranking, la ricerca italiana su Covid-19 è al quinto posto mondiale come impatto, subito dietro ai titani anglosassoni. Naturalmente il fatto di essere stati il primo paese occidentale travolto da Covid potrà parzialmente spiegare questo exploit, ma certamente si tratta di un riconoscimento alla dedizione e al talento degli scienziati che operano nel nostro paese.
La seconda notizia è di pochi giorni fa: le statistiche ufficiali hanno registrato oltre 100.000 decessi di Covid-19 nel nostro paese. Non solo, circa due terzi dei decessi sono avvenuti dopo ottobre 2020, ossia quando gran parte della ricerca eccellente italiana su Covid-19 era già pubblicata. Come è possibile che un paese che ha prodotto ricerca di primissimo piano abbia fallito così miseramente nella gestione pratica della pandemia?
Naturalmente la politica ha le sue colpe, ma penso che una riflessione si imponga anche alla comunità scientifica nazionale. Mentre la ricerca italiana mieteva successi nella comunità scientifica, la comunicazione con il potere decisionale non ha funzionato. Eppure, lo sforzo di comunicazione non è mancato: moltissimi scienziati hanno dedicato grandi energie a comunicare la scienza della pandemia e, a parte l’insofferenza di alcuni politici che vorrebbero silenziare gli scienziati, i media italiani e la popolazione in genere hanno prestato moltissima attenzione al mondo della scienza.
Conviene forse a questo punto guardarsi intorno e vedere come si sono comportati altri paesi simili all’Italia. Mentre l’attivismo degli scienziati è stato un tratto comune, l’organizzazione della comunicazione tra scienziati e governi mostra differenze fondamentali. Paesi come la Francia e la Gran Bretagna hanno raccolto team interdisciplinari che includevano fisici, matematici, sociologi, data scientist, oltre a medici e virologi. Inoltre, in molti paesi vige la figura del consigliere scientifico, tipicamente scienziati di primo piano che vengono regolarmente consultati (anche se non sempre ascoltati). Anche grazie a queste strutture, altri paesi hanno “mobilitato” i loro scienziati, non solo i medici e i virologi: si veda ad esempio il programma RAMP (Rapid Assistance in Modelling the Pandemic), patrocinato dalla Royal Society britannica, che ha mobilitato fisici, matematici e data scientist per fornire analisi di dati a supporto dei medici e dei decisori.
In Italia no. In Italia la pandemia è stata trattata come un problema esclusivamente medico: il nostro comitato tecnico-scientifico è composto per la quasi totalità da medici (va notato che il 16 marzo il governo ha fatto entrare nel CTS due membri con competenze tecnico/matematiche, di cui uno però - l'ingegnere Alberto Gerli - già dimissionario a poche ore dalla nomina), e tutta l’azione di supporto scientifico è intestata all’Istituto Superiore di Sanità, che guarda gelosamente i dati su cui si basano le analisi e raccomandazioni fornite ai decisori. Ci sono ovviamente state analisi a grande impatto mediatico sui dati della protezione civile anche da parte di non-medici: cito fra i tanti le analisi dei fisici Battiston, Marinari e Parisi che diverse volte hanno formulato con largo anticipo predizioni che si sono rivelate accurate. Ma si tratta di attività esterne al processo di supporto delle decisioni: quasi hobby di questi illustri scienziati, largamente ignorati dall’establishment.
Non ci troviamo di fronte a una particolare pervicacia di un gruppo di scienziati (i medici in questo caso). È il sistema italiano che concepisce la scienza come un insieme di silos: ogni ricercatore è accuratamente incasellato, e la sua attività è valutata solo per la sua congruenza con un settore disciplinare definito in modo restrittivo. Questa camicia di forza è da lungo tempo una maledizione per le università italiane, che spesso si trovano impossibilitate ad agire negli ambiti più moderni e trasformativi della scienza, dall’intelligenza artificiale, ai nuovi materiali, alle energie rinnovabili. È una maledizione per i giovani ricercatori in questi ambiti intrinsecamente interdisciplinari, che sovente si ritrovano senza opportunità in Italia perché i loro interessi non entrano facilmente in un silos. E adesso è una maledizione che, a mio parere, ha avuto una parte nella più grande tragedia italiana del dopoguerra.
Cosa possiamo fare? Come comunità scientifica, abbiamo il dovere di cercare di cambiare questa situazione. Il momento potrebbe essere propizio, vista la stagione di riforme che si annuncia. Ma dobbiamo impegnarci attivamente a formare il dibattito, individualmente e tramite i nostri organi istituzionali. In primis le accademie: bisognerà che istituzioni come i Lincei diventino più simili alla Royal Society, non solo illustri consessi ma anche gruppi di pressione efficaci per fare sì che il meglio della ricerca porti a decisioni informate che beneficiano tutta la società. La presidenza attivista di Giorgio Parisi ha già visto mosse importanti in questa direzione: speriamo che siano i primi passi verso una scienza più moderna e più connessa con la società. E che i maledetti silos spariscano per sempre.