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Gli studi inglesi sulla letalità della variante B.1.1.7

Sono diversi gli studi di natura osservazionale incentratisi sulla “variante inglese" o, più propriamente, lineage B.1.1.7, che raggiungono la medesima conclusione: esiste un incremento di letalità che va dal 30% al 60% con la nuova variante, rispetto al virus originale. Tuttavia, al momento non ci sono spiegazioni biologiche riguardo le caratteristiche di questa mutazione che possano spiegare la maggiore aggressività del virus osservata dagli studi statistici.

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Era il 22 gennaio 2021. Durante una conferenza stampa, il premier inglese Boris Johnson annunciava che la nuova variante - come gli inglesi chiamano quella che noi in Italia chiamiamo variante inglese, ma più propriamente chiamata VOC 2020/01 o lineage B.1.1.7 -, «potrebbe essere più letale». Johnson aveva utilizzato il condizionale potrebbe perché le incertezze sulla stima erano molte. Anche Sir Patrick Vallance, il suo consigliere scientifico, avrebbe insistito sull’incertezza dei dati e spiegato che c’era bisogno di maggiori studi per confermare la dichiarazione del primo ministro, ma che l’evidenza al momento disponibile era preoccupante. Il Regno Unito era in lockdown duro dal 6 gennaio e la campagna vaccinale era iniziata l’8 dicembre. Dopo aver contato centinaia di decessi giornalieri avrebbero dovuto aspettare il 29 marzo per vedere le misure restrittive alleggerirsi e il numero di morti raggiungere le due cifre.

Le evidenze sulla maggiore letalità della nuova variante a cui Johnson si riferiva erano riassunte in un report del Nervtag (New and Emerging Respiratory Virus Threat Advisory Group), un sottogruppo del SAGE, il comitato tecnico scientifico britannico, dove confluivano le analisi dei dati epidemiologici effettuati da diversi gruppi di ricerca del Paese. La prima versione del report conteneva gli studi della London School of Hygiene and Tropical Medicine (LSHTM), dell’Imperial College e dell’Università di Exeter. In un secondo report, presentato il 12 febbraio 2021, si sono aggiunti anche gli studi di Public Health England (PHE), Public Health Scotland (PHS), dell’Università di Oxford, di cui faccio parte, insieme al Centro di ricerca nazionale sulle terapie intensive (ICNARC), dell’Istituto Nazionale di Statistica (ONS) e qualche altro ancora. Tutti questi studi raggiungevano la medesima conclusione: esiste un incremento di letalità che va dal 30% al 60% con la nuova variante, rispetto al virus originale.

Tutti questi studi sono di natura osservazionale. In altre parole si osserva chi si è già infettato e si confronta con chi è stato infettato con virus originale.

Elementi confondenti

Il processo di competizione che ha portato la nuova variante a diventare dominante, sostituendosi gradualmente a quella storica, è avvenuto mentre la curva epidemica accelerava la sua salita per via della maggiore trasmissibilità della B.1.1.7.

Come risultato, le persone infette dalla nuova variante sono concentrate nel punto del picco della curva e questo prospetta due spiegazioni alternative: la maggiore letalità che si registra è attribuibile alla nuova variante perché questa è in effetti più letale biologicamente o perché il picco epidemico porta inevitabilmente più decessi?

Esistono degli elementi, detti confondenti, che possono distorcere l'associazione tra la B.1.1.7 e la letalità da Covid-19 ed è importante isolarne il contributo. A tale fine, gli studi riportati nel report del Nervtag utilizzano due metodi, il matching e l’adjusting per elementi confondenti.

Il matching è stato usato dallo studio condotto dall’Università di Exeter che, a partire dai dati disponibili, ha creato coppie di pazienti nelle quali uno/a era positivo/a alla nuova variante e l’altro/a alla variante originale. I pazienti in ogni coppia dovevano essere identici rispetto a quelle variabili giudicate come confondenti: cioè sesso, etnia, indice di deprivazione, regione geografica e giorno in cui il test è stato effettuato. Quindi una donna indiana residente a Londra appartenente a una determinata fascia socio-economica che avesse effettuato il test il 12 gennaio 2021 e fosse risultata positiva alla nuova variante doveva esser messa in coppia con una donna con stesse caratteristiche, ma che il 12 gennaio avesse fatto il test che ha determinato la sua positività alla variante originale. Così facendo i ricercatori intendono escludere eventuali distorsioni, dovute ad esempio alla capacità di posti letto negli ospedali, che varia da regione a regione, dal momento epidemico in cui il paziente si è scoperto positivo o alle caratteristiche del virus, che sembra essere più aggressivo per gli uomini e per i più anziani.

Diverso l’approccio utilizzato dal nostro gruppo all’Università di Oxford e dai ricercatori della LSHTM che, invece di ricreare uno studio randomizzato attraverso il matching, inseriscono le variabili confondenti nella fase di modellazione. L’obiettivo è lo stesso, isolare l’effetto della nuova variante dai fattori non dovuti alla biologia del virus, ma questa volta viene fatto in un momento diverso dell’analisi e con un metodo diverso. I possibili elementi confondenti sono gli stessi usati dai ricercatori di Exeter per entrambi gli studi, con l’aggiunta di diverse comorbidità, come asma, diabete I e II, ipertensione e broncopneumopatia cronica ostruttiva che sono state inserite nel modello di Oxford.

Come si distingue la nuova variante dalla vecchia

Nel Regno Unito, solo una piccola parte dei casi di B.1.1.7 viene identificata attraverso il sequenziamento del genoma. Invece, per monitorare la prevalenza della nuova variante e studiarne le caratteristiche, si sfrutta il fatto fortuito che una delle mutazioni del gene S dell’RNA virale presente nella B.1.1.7 ma non nella variante storica fa sì che i il test RT-PCR commercializzato dalla società ThermoFisher e utilizzato nella maggior parte dei laboratori non riconosca il gene S e restituisca un risultato cosiddetto “discordante”.

Per valutare l’affidabilità di questa approssimazione sono stati considerati 31.284 tamponi positivi per i quali si conosceva sia la sequenza genomica del virus sia la presenza o meno dell’errore del test RT-PCR sul gene S. Di questi 12 720 erano dovuti alla nuova variante e 18.564 a quella storica. Il 99,6% dei campioni riconducibili geneticamente alla variante B.1.1.7 presentavano anche risultato discordante al test RT-PCR, viceversa solo lo 0,05% dei campioni riconducibili geneticamente alla variante storica davano risultato discordante al test PCR.

In tutti gli studi citati, si è utilizzata questa tecnica per identificare la nuova variante. Si tratta di un’approssimazione. Infatti, può accadere che si ottenga un risultato discordante anche per pazienti infetti con il virus originale, ma ci si aspetta accada raramente. Lo studio della LSHTM considera questa eventualità, creando un modello per stimare la probabilità di errore di questo tipo, così da tenerne conto quando si studia il rischio di letalità della nuova variante.

La necessità di sfruttare il risultato dei test RT-PCR sul gene S ha imposto di limitare la nostra analisi, come quella degli altri gruppi, ai tamponi effettuati nell’ambito del cosiddetto Pillar 2, quello che comprende solo per pazienti che hanno effettuato il test fuori da ospedali o ambienti sanitari. Solo per i test del Pillar 2, infatti, è noto il risultato dei test sul gene S. La popolazione che ne risulta è una popolazione mediamente più sana e più giovane, dato che tutti i pazienti ospedalizzati prima di fare un tampone, o quelli che hanno fatto il tampone come risultato di un’infezione grave vengono esclusi.

I dati

Nel Regno Unito, i dati sulla situazione epidemiologica sono diversi e raccolti da diversi enti. L’HES (Health Episode Statistics) è il database dell’NHS (sistema sanitario nazionale) che raccoglie dati sulle ospedalizzazioni e terapie intensive. PHE (Public Health England) raccoglie i dati sul sistema di tracciamento, fornendo dati sui test effettuati, positivi e negativi. L’ONS (ufficio nazionale di statistica) ha iniziato diversi progetti di raccolta dati dall’inizio della pandemia, tra cui una dettagliata raccolta dei dati di mortalità e il Covid-19 Infection Survey (il sondaggio sull’infezione), che viene condotto settimanalmente e raccoglie dati su chi ha contratto il virus e sviluppato gli anticorpi. E questi sono alcuni esempi, i più importanti. Questi dati vengono messi a disposizione dei diversi gruppi di ricerca del paese interessati allo studio dell’epidemia e quando possibile uniti a campioni di dati già esistenti.

QResearch è un database che contiene i dati clinici anonimizzati di più di 45 milioni di pazienti, registrati dai medici di base elettronicamente. Circa il 20% dei medici di base britannici partecipa alla creazione di questo database. I dati dei medici di base sono stati usati per studiare l’attuale epidemia, uniti con i database nazionale di monitoraggio dell’epidemia, permettendo così di avere lo storico clinico dei malati da Covid-19. Per lo studio sulla nuova variante, QResearch è stato unito ai dati dell’ICNARC (Centro di ricerca nazionale sulle terapie intensive), permettendo così di stimare il rischio di ricovero in terapia con la nuova variante, rispetto a quella originale e il rischio di mortalità per chi ha bisogno di cure intensive per le persone infettate dalla nuova variante rispetto al rischio dovuto alla variante originale.

La nuova variante è più letale, ma manca una spiegazione biologica

Tutti gli studi qui citati hanno stimato il rischio di morte con la nuova variante rispetto a quella originale. La LSHTM ha stimato un aumento del rischio del 55% con la B.1.1.7. L’Università di Exeter e PHE di circa il 65% entrambi. Il gruppo di cui faccio parte, avendo a disposizione i dati nazionali sulle terapie intensive, ha stimato un aumento di circa il 60% (intervallo di confidenza al 95%: 25% - 100%) di mortalità con la B.1.1.7, ma anche un rischio raddoppiato di ingresso in terapia intensiva. Si è invece visto che per i pazienti che stanno già ricevendo cure intensive, il rischio di mortalità non dipende dalla mutazione del virus. Probabilmente questo è dovuto ai protocolli di ingresso nelle terapie intensive, che fanno sì che i pazienti che necessitano di cure intensive siano a un simile stadio della malattia, indipendentemente dalla mutazione del virus.

Lo studio dell’Università di Exeter mostra che il ciclo soglia (Ct) per i geni N in test con risultato discordante sul gene S è generalmente più basso. Il Ct rappresenta il numero del ciclo di una PCR in cui viene letta la fluorescenza che indica la presenza del virus. Più basso è il valore del Ct maggiore è la carica virale. I ricercatori hanno fornito due motivazioni alla base di questa osservazione.

Potrebbe accadere che i pazienti con la nuova variante vengano testati in un momento in cui la carica virale sia più alta rispetto a quelli con la variante storica. Se così fosse, si potrebbero verificare degli effetti di selezioni che invaliderebbe le stime. Per scongiurare questa possibilità, un’ulteriore analisi in cui il ciclo soglia viene inserito come elemento confondente è stata condotta, con risultati concordanti a quelli descritti in precedenza.

Alternativamente, la maggiore mortalità attribuita alla B.1.1.7 potrebbe essere associata a questa maggior carica virale nei pazienti con risultato del test RT-PCR discordante e questo permetterebbe di spiegare i risultati osservati.

Ma questa è solo una supposizione. Al momento non ci sono spiegazioni biologiche riguardo le caratteristiche di questa mutazione che possano spiegare questa maggiore aggressività del virus osservata dagli studi statistici. Se la statistica ci aiuta a leggere i dati con rigore, anch’essa ha i suoi limiti.

 


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