Chi potrebbe mai negare l’esperienza soggettiva di prendere una decisione, di scegliere quale vestito indossare, cosa mangiare, che farne della propria esistenza? Chi mai potrebbe negare l’esistenza del libero arbitrio? Eppure, scrive Giuseppe Trautteur nel suo Il Prigioniero libero, da poco uscito per Adelphi, «allungare una mano per prendere un bicchiere d’acqua potrebbe coinvolgere l’intero Universo». La recensione di Cristian Fuschetto.
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Il cervello è un pezzo di universo
Pensiamoci un attimo: se noi siamo il nostro cervello la libertà non esiste. «Il cervello è un pezzo normale, ancorché complesso, dell’Universo» osserva Giuseppe Trautteur nel suo Prigioniero libero, lasciando in fondo pochi margini alla possibilità di poter interpretare quelle che chiamiamo scelte come qualcosa di diverso da «accadimenti naturali perfettamente giustificati dalla situazione materiale del momento». Trautteur non è un determinista e nemmeno “solo” uno scienziato, è un uomo dalla vasta cultura e pertanto non privo di sospetti. È uno di quegli esseri umani cui molti altri umani tendono a dare credito anche se non ne capiscono bene il linguaggio e i problemi.
In qualche suo appunto Friedrich Nietzsche ebbe modo di annotare: «Tutti i libri scritti finora sono sospetti di apologia dell’umano». Si potrebbe dire lo stesso per il libero arbitrio. Cosa ne sarebbe dell’uomo se non fosse libero? E così, per paura della risposta, si tende a evitare la domanda o, tuttalpiù, a riporre l’interrogativo tra le bizzarrie della letteratura scientifica e l’incontinenza di quella filosofica.
“Emergenza”, “complessità” e altre scappatoie
Figura di spicco della teoria informatica, delle scienze cognitive e dei rapporti mente-macchina, Trautteur è consulente scientifico della Adelphi sin dagli anni Sessanta e, tra le altre cose, ha curato classici come Psiche e natura di Wolfang Pauli e Verso un’ecologia della mente di Gregory Bateson. È un uomo che sa di scienza e di filosofia, è appunto un uomo sospettoso, che non si lascia impressionare da paroline magiche come “complessità” ed “emergenza” che tanto piacciono a chi pretende di chiudere in fretta la questione di come dalla bruta materia possa nascere la libertà dello spirito.
«Molti uomini di scienza e di cultura - scrive Trautteur - aggirano il problema asserendo il determinismo di base del mondo e delle strutture elementari del cervello, ma inserendo tra il cervello e le loro esperienze artifizi, quali l’emergenza – magica parola – di entità reali (emergenza ontologica), a livelli intermedi che si vengono a creare convenientemente. Così i singoli neuroni sono cellule complesse, ma prive di libera volontà, mentre l’aggregato emergente dall’interconnessione di miriadi di neuroni – cervello, mente, mindbrain, ecc. – l’avrebbe acquisita». Più che una spiegazione è una scappatoia, così come quando si parla di complessità.
La scoperta del potenziale premotorio
Accanto alla tesi basata sull’intransigenza delle leggi fisiche, per cui se è vero che tutto quello che accade nella mente accade anche nel cervello e se il cervello obbedisce a leggi fisiche non c’è ragione di credere che la mente debba fare eccezione (con quel che ne consegue per la libertà così come comunemente la intendiamo), c’è un altro ostacolo che i fan del libero arbitrio sono da tempo chiamati a considerare: lo strano ritardo che passa dall’azione nervosa necessaria per compiere un’azione e la consapevolezza di aver deciso di compierla. Quando decido di prendere un bicchiere dal tavolo si attivano dei nervi che azionano il movimento. E fin qui tutto chiaro. Quello che forse è meno ovvio è che quei nervi si attivano prima di decidere di afferrare il bicchiere. Scoperto da due ricercatori tedeschi negli anni ’60, all’origine di questo paradosso c’è il cosiddetto «potenziale premotorio», un’attività elettrica localizzata nella corteccia premotoria che prelude a un movimento volontario. «Si tratta dell’attività centrale di programmazione del movimento che precede l’eccitazione delle aree motorie vere e proprie che attiverà il muscolo», spiega Trautteur.
Il corpo precede la mente
Chi più di tutti ha approfondito il nesso tra il potenziale premotorio e la scelta libera è stato il neurofisiologo statunitense Benjamin Libet, che negli anni ’80 in pionieristici studi sulla coscienza è riuscito a costruire un dispositivo in grado di rilevare l’istante in cui avviene l’esperienza dell’intenzione di voler muovere un dito. Molti ne hanno seguito la scia e, senza ora scendere nei dettagli cronometrici, da quegli esperimenti risulta sempre verificato il dato per cui il potenziale premotorio preparatorio del movimento di un dito precede l’esperienza cosciente di voler muovere il dito.
Negli ultimi anni sono stati fatti esperimenti anche su scelte puramente mentali, con risultati simili a quelli di Libet. Il corpo precede la mente? Di recente la neurofisiologia ha sviluppato un nuovo modello, lo Stochastic Decision Model, che nelle intenzioni degli autori dovrebbe mettere la questione sotto una nuova prospettiva in grado di superare la querelle tra determinismo e libertà, ma Trautteur fa notare come gli stessi autori finiscano con l’ammettere che sebbene «la decisione di iniziare un’azione non può avvenire prima che il soggetto ne sia consapevole, possiamo identificare l’evento neurale di partenza con una decisione di cui possiamo diventare consapevoli solo poco più tardi». Il corpo precede la mente (senza punto interrogativo).
Credo nella libertà, non ho scelta
Altro aspetto interessante è che tra i critici dei risultati di Libet, nessun autore, «dopo averne refutato i risultati neurofisiologici neganti il libero arbitrio, osi francamente affermarne la sussistenza, o almeno formulare qualche progetto di indagine o qualche ipotesi significativa in suo favore». Come se ci si potesse limitare a dire che non è fondata la critica al libero arbitrio, senza dover replicare con argomenti a favore del libero arbitrio. «Modeste litoti», commenta lo scienziato, che invece tra ipotesi di libertà quantistica, mind-wandering, fenomenologia della noia e disquisizioni teologiche registra con puntualità tesi e indizi a favore della libertà. La sensazione, tuttavia, è che la scelta per il libero arbitrio sia una forma di «apologia dell’umano». L’io è un parassita della libertà, dice Ian McEwan, formalizzando con efficacia come la rinuncia alla libertà non sia che un altro modo per rinunciare a sé stessi. Vengono allora in mente le parole di Isaac Bashevis Singer: «Credo nel libero arbitrio, non ho scelta».