Il sovrappeso, e soprattutto l'obesità, sono associati a maggiore suscettibilità all'infezione da SARS-CoV-2 e a un decorso di Covid-19 più grave. Sono ormai molti gli studi che hanno evidenziato questa relazione: Simonetta Pagliani li ripercorre in quest'articolo.
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L'isolamento sociale è stato associato, in studi sull'essere umano e su animali, ad aumento dell'adiposità, perdita di massa magra e insulino-resistenza: i meccanismi sottostanti a queste conseguenze metaboliche del distanziamento fisico sono insieme fisiologici, mentali e comportamentali e riguardano la mancanza di attività fisica, uno stato ansioso o depressivo e attitudini alimentari scorrette.
Tra i guai portati dal lockdown si può annoverare, infatti, anche l'iperfagia, un'entità che ha precise basi molecolari verificate in esperimenti murini, che comprendono neurotrasmettitori responsabili del senso di fame, quali il neuropeptide Y, l'ormone melanotropo e altri responsabili del senso di sazietà, quali la serotonina e il peptide CART, Cocaine and Amphetamine-Regulated Transcript.
Il peso in eccesso, accumulato in seguito a rivalse alimentari e alcoliche da lockdown oppure preesistente all'epidemia, è motivo di una preoccupazione che va ben al di là dell'imbarazzo della "prova costume", ormai di stagione: il suo ruolo in una maggiore suscettibilità all'infezione da SARS-CoV-2 e in un decorso di Covid-19 più grave (soprattutto della sua forma più marcata, l'obesità), è stata ormai acclarato in moltissimi studi, prevalentemente statunitensi ma anche europei. A questi ultimi è più facile fare riferimento, vista la differente prevalenza dei soggetti obesi nel vecchio e nel nuovo continente.
La definizione di obesità non è uno stigma o un'opinione estetica, ma un calcolo aritmetico: l'indice di massa corporea (IMC, in inglese BMI) si ottiene dividendo il peso in chili di un individuo per il quadrato della sua statura in metri. Un IMC al di sotto di 19 kg/m2 definisce il sottopeso, uno compreso tra 19 e 24 il normopeso e tra 25 e 30 il sovrappeso; infine, con un IMC al di sopra di 30 si parla di obesità.
In uno studio presentato la scorsa settimana allo European Congress on Obesity, un gruppo di ricercatori israeliani ha indagato l'IMC di 26.000 pazienti del Chaim Sheba Medical Center, sottoposti al test diagnostico per SARS-CoV-2 in un periodo nove mesi, scoprendo che il sovrappeso dava un rischio significativamente maggiore di risultare positivi al SARS-CoV-2 rispetto al normopeso (odds ratio di 1,22) e che questo rischio cresceva del 2% per ogni aumento di 1 kg/m2 dell'IMC.
SARS-CoV-2 penetra nelle cellule umane legandosi all'enzima di conversione dell'angiotensina 2 (ACE-2); negli obesi, il frequente stato d'insulino-resistenza, insieme a un disfunzionamento del sistema renina- angiotensina- aldosterone, fa sì che l'espressione di ACE-2 nelle cellule del tessuto adiposo sia ancora maggiore che in quelle del polmone, costituendo una porta d'ingresso privilegiata per il virus.
L'obesità non aumenta solo la probabilità d'infettarsi: specie quando l'IMC arriva a superare i 35 kg/m2, essa è un fattore di rischio indipendente di sviluppare un'infezione grave, come hanno dimostrato oltre 600 studi. Le spiegazioni, ormai ben individuate, sono molteplici: nell'obesità, l'impedimento all'escursione diaframmatica comporta un'ipoventilazione che favorisce le infezioni polmonari; il deficit respiratorio è, poi, accresciuto dalla fibrosi polmonare e dall'alterazione dei livelli e della composizione del surfactant (dall'acronimo inglese SURFace ACTive AgeNT), la lipoproteina che impedisce il collasso alveolare. Inoltre, poiché gli adipociti rilasciano citochine che stimolano il fegato a produrre proteina C-reattiva e molti altri mediatori pro-infiammatori, l'obesità si accompagna a uno stato infiammatorio cronico di bassa intensità, che può modificare la risposta immunitaria al virus.
L'obesità è associata a disfunzione endoteliale dei vasi sanguigni che favorisce la formazione della placca, di per sé è sufficiente a causare trombi ed emboli e ad aumentare il rischio di complicanze cardiovascolari nel decorso di Covid-19. Le modificazioni dell'assetto "immunometabolico" (neologismo coniato nel 2011) portano con sé conseguenze cliniche che sono state evidenziate da uno studio condotto retrospettivamente su oltre 300 ricoverati nell'ospedale universitario di Amiens in Francia: il 38% dei pazienti ricoverati per Covid-19 era obeso e il 27% era sovrappeso; questi pazienti finivano in terapia intensiva una volta e mezzo più frequentemente dei normopeso; solo gli obesi, però, avevano un rischio di morte più alto.
Janelle Ayres, una ricercatrice del prestigioso Salk Institute for Biological Studies di La Jolla, in California, riassume in un recente lavoro le interconnessioni tra i processi metabolici, la patogenesi della malattia infettiva e la risposta adattativa e di difesa dell'ospite, sia a livello cellulare sia a livello di tessuti e organi e ipotizza che l'infezione (probabilmente con la complicità delle terapie per combatterla) potrebbero provocare danni collaterali metabolici che durano a lungo anche dopo la sua estinzione, come si è già visto accadere nei soggetti che si sono infettati con il precedente coronavirus della SARS, i quali presentavano iperglicemia, resistenza all'insulina e iperlipidemia ancora 12 anni dopo la guarigione.
Modificare in misura sostanziale un indice di massa corporea elevato è un processo lungo, che spesso non riesce a prescindere da un intervento chirurgico: la perdita di peso non è quindi proponibile come intervento preventivo o terapeutico per affrontare l'odierna ondata epidemica. Tuttavia, sarebbe dovere di ogni medico invitare i propri pazienti obesi a mettere in atto tutte le misure per ottenere il calo ponderale e sarebbe un impegno di buona sanità pubblica per ogni governo legiferare per ridurre l'alimentazione obesogena, a partire dall'infanzia, al fine sia di prevenire lo sviluppo di ipertensione, diabete e sindromi respiratorie croniche, sia di opporre organismi più sani e immunocompetenti a una futura, inevitabile, aggressione infettiva.
Negli Stati Uniti d'America, in cui la prevalenza delle obesità più gravi è preoccupante, molti pazienti hanno già recepito questo messaggio, amplificato dai dati di mortalità da nuovo coronavirus, tanto che si è notato un incremento del ricorso alla chirurgia bariatrica (che finora interessa l'1% dei soggetti che ne trarrebbero giovamento), come ha rilevato Matthew Hutter, presidente dell'American Society for Metabolic and Bariatric Surgery e professore di chirurgia all'Harvard Medical School di Boston.