fbpx Il Regno Unito azzarda le riaperture, ma per l'Italia è ancora presto

Il Regno Unito azzarda le riaperture, ma per l'Italia è ancora presto

Primary tabs

Lunedì il Regno Unito procederà all'ultimo passo delle riaperture, revocando tutte le restrizioni imposte finora per contenere la diffusione di Covid-19. Nonostante l'appello di molti scienziati a rimandare ancora questo ultimo passo, soprattutto per via della maggiore trasmissibilità della variante Delta ormai dominante nel paese, altri lo ritengono un «azzardo che vale la pena compiere», considerata l'elevata percentuale di persone sopra i 50 anni che ha completato il ciclo vaccinale. Nel nostro paese le cose stanno diversamente, la copertura vaccinale degli over 50 è ancora indietro rispetto al Regno Unito e la letalità del virus non sembra ancora scesa sensibilmente rispetto al periodo pre-vaccinale. Per questo occorre una prudenza che vada anche oltre le misure di contenimento ancora obbligatorie in Italia.

Immagine da pixabay.

Tempo di lettura: 6 mins

Lo scorso 6 luglio la BBC ha pubblicato un'interessante analisi sulla situazione sanitaria d'oltremanica intitolata "Perché è ora di pensare al Covid in un modo diverso". L'articolo da un lato sostiene la politica britannica delle riaperture, ridimensionando i timori basati sulla diffusione della variante Delta, e dall'altro cerca di formulare un'ipotesi su quello che potrebbe diventare il "new normal", ovvero la convivenza con il virus SARS-CoV-2 nei prossimi anni.

Per spiegare come mai l'allentamento delle restrizioni previsto per il 19 luglio sia, con le parole di Neil Ferguson dell'Imperial College di Londra, «un azzardo che vale la pena compiere», la prima tesi dell'articolo è che il virus ormai non è più letale come nei mesi scorsi. In effetti, i dati forniti dal governo britannico sembrano confermare questa analisi. Anzitutto, il numero delle infezioni che portano al ricovero è diminuito: a gennaio 2021 si trattava di un contagiato su 10, invece nelle ultime settimane il numero è sceso a meno di un contagiato ogni 40. Inoltre, i pazienti si presentano con forme meno gravi di Covid e hanno bisogno di cure meno intensive. Anche il rischio di morte da Covid nel Regno Unito è molto inferiore rispetto allo scorso inverno: secondo i dati riportati dalla BBC, si è passati da una morte ogni 60 casi a meno di una ogni 1000.

Anche la distribuzione dei decessi per fasce di età può suggerire come ripensare la quarantena di chi è entrato in contatto con soggetti positivi al Covid. Nel Regno Unito, il 99% dei decessi ha riguardato gli over 50. Oggi più dell'80% di quelle persone ha già ricevuto due dosi di vaccino, cioè è completamente vaccinata. Di conseguenza, i britannici stanno già valutando l'ipotesi di non riproporre la quarantena per gli studenti che entrano in contatto con soggetti positivi al virus. Infatti, nell'anno scolastico 2020-2021 è stato stimato che, per ogni caso positivo, venti studenti sani siano stati allontanati da scuola per proteggere gli adulti più vulnerabili. Però, secondo l'analisi della BBC, una simile misura preventiva oggi non sarebbe più necessaria, vista la maggiore protezione offerta dai vaccini. A fronte di questi dati, nel Regno Unito diversi soggetti stanno spingendo per far rientrare al più presto gli studenti nelle aule.

Questo non significa che i britannici siano ormai fuori dal tunnel del Covid. Gli analisti prevedono già una terza ondata estiva che potrebbe tornare a riempire gli ospedali. D'altra parte, non è lecito aspettarsi che il vaccino faccia scomparire questa malattia, nemmeno su un orizzonte temporale di diversi anni. Nel corso della storia, infatti, solo pochissime malattie sono state eradicate grazie ai vaccini. Invece, Paul Hunter, epidemiologo alla University of East Anglia ed esperto di malattie infettive emergenti, ritiene che «Covid-19 non sarà mai debellato» e sarà «inevitabile che lo prenderemo ripetutamente nel corso delle nostre vite». Secondo il sociologo Robert Dingwall della Nottingham Trent University, è proprio da queste considerazioni che deve sfociare un nuovo paradigma per guardare a Covid-19: quando le cure e i vaccini saranno efficaci al punto da renderlo innocuo come la comune influenza (che nell'inverno del 2017-2018 ha ucciso ventimila persone solo in Inghilterra), dovremo trattarlo come una malattia qualsiasi.

Se questa è la situazione nel Regno Unito, come vanno le cose qui da noi? Qual è la copertura vaccinale delle fasce più vulnerabili alle forme gravi della malattia? E come sta evolvendo il numero di ospedalizzazioni e morti rispetto ai nuovi casi? Confrontiamo il mese di gennaio 2021 con quello di giugno 2021, tenendo conto della percentuale di persone che al 31 maggio avevano completato il ciclo vaccinale.

Nel rapporto pubblicato dall’ISS il 28 aprile scorso “Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione”, si dettaglia la composizione delle circa 118 600 persone decedute per Covid-19 fino a quel momento. Di queste, 1 312 avevano meno di 50 anni (1,1%) e solo 296 meno di 40 anni (0,2% del totale dei contagiati). Quindi anche da noi il 99% dei decessi ha riguardato la fascia degli over 50. A differenza di quanto accade nel Regno Unito, però, secondo i dati della Presidenza del Consiglio dei Ministri, i soggetti completamente vaccinati over 50 al 31 maggio erano circa il 36% del totale (nel gruppo degli over 70 questa percentuale è più alta, circa il 56%, mentre tra i 50 e 69 anni solo il 23% aveva completato il ciclo vaccinale).

Le percentuali di malati di Covid-19 ricoverati in ospedale o deceduti invece possono essere ricavate a partire dai dati messi a disposizione dall'Istituto Superiore di Sanità. Considerando i dati consolidati al 14 luglio, nel mese di gennaio 2021 sono stati diagnosticati 412 455 nuovi contagi e ricoverati 35 719 pazienti positivi all’infezione. Nel periodo tra il 14 gennaio e il 13 febbraio sono stati registrati 11 919 decessi. Occorre infatti considerare il tempo medio che intercorre tra diagnosi e decesso, in media pari a 13 giorni secondo diverse stime coerenti tra loro. Per quanto riguarda il ricovero, invece, non è necessario considerare alcun ritardo rispetto alla diagnosi. Un lavoro pubblicato di recente sulla rivista della Royal Society Philosophical Transactions B ha stimato che in media il ritardo tra inizio dei sintomi e ricovero è di circa 5 giorni ed è equivalente al ritardo che si osserva in media tra inizio dei sintomi e diagnosi. Nel mese di giugno, invece, sono stati diagnosticati 39 968 nuovi contagi a cui sono seguiti 3 353 ricoveri e 495 decessi. Per il mese di gennaio la stima è dunque di 1 ricovero ogni 11 casi e 1 decesso ogni 35 casi (8,7% e 2,8% rispettivamente), mentre a giugno di 1 ricovero ogni 12 casi e 1 decesso ogni 81 casi (8,4% e 1,2% rispettivamente). Siamo quindi ben lontani dal registrare i miglioramenti descritti poco fa per il Regno Unito.

Occorre osservare che si tratta di una stima orientativa, che non prende in considerazione due fattori importanti. Da una parte la sottostima dei contagi dovuta alla limitatezza del numero di test effettuati. Questo può distorcere la valutazione della mortalità, in particolare nei periodi di picco dell’epidemia, perché in quei periodi si tende a diagnosticare in proporzione più casi sintomatici che, in media, hanno un decorso clinico peggiore degli asintomatici. Dall’altra ci sono le incertezze sulla stima dei decessi attribuiti a Covid-19, che sappiamo essere state particolarmente grandi durante la prima ondata. Per avere una stima più accurata si dovrebbe guardare all’eccesso di mortalità registrato rispetto all’equivalente periodo degli anni precedenti, come ha fatto ISTAT in questo rapporto del marzo scorso.

È importante anche sottolineare che nell’ultimo mese e mezzo la copertura vaccinale della popolazione over 50 è notevolmente aumentata. Al 14 luglio gli over 50 completamente vaccinati erano il 67% del totale (81% degli over 70 e 67% della fascia 50-69 anni), rispetto al 36% registrato al 31 maggio. Quando queste percentuali avranno raggiunto dei valori simili a quelli del Regno Unito, anche in Italia potremo pensare alle riaperture che tra poco verranno sperimentate oltremanica. In quella fase non saremo più i capofila nella lotta al virus, ma potremo approfittare dell’esperienza britannica per pianificare al meglio come allentare le restrizioni. In altre parole, nel nostro caso non si tratterà di un azzardo, ma di scelte supportate dall’esperienza.

Tuttavia, per adesso, le stime di letalità e tasso di ricovero tra i contagiati confermano l'analisi dell'Associazione Italiana di Epidemiologia pubblicata il 9 luglio su Scienza In Rete, secondo la quale in Italia «finora non si è registrato un calo evidente della letalità delle infezioni e i decessi sono diminuiti in proporzione alla diminuzione dei casi». Di conseguenza, le previsioni ottimistiche sull'effetto delle riaperture del Regno Unito non si possono ancora applicare all'Italia. Nel nostro paese, oggi l'allentamento delle restrizioni non sarebbe ancora giustificato da una situazione epidemiologica significativamente migliorata rispetto all'inverno appena trascorso. In questo scenario sono estremamente opportune le raccomandazioni dell'AIE a mantenere le misure di prevenzione individuale per contenere la trasmissione del virus, nonostante alcune di esse non siano più obbligatorie. Solo quando avremo raggiunto livelli molto più alti di copertura vaccinale potremo pensare alla nuova normalità che i nostri vicini d'oltremanica sperimenteranno tra poche settimane.

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Addio a Giancarlo Comi, il clinico che ha rivoluzionato lo studio e la cura della sclerosi multipla

Giancarlo Comi

Il neurologo Giancarlo Comi, scomparso negli scorsi giorni, membro del Gruppo 2003 per la ricerca scientifica, ha rappresentato molto per il mondo scientifico ma anche per quello associativo per il suo straordinario contributo allo studio e il trattamento della sclerosi multipla, e il progressivo coinvolgimento delle persone colpite dalla malattia nella ricerca e nella cura. Pubblichiamo il ricordo del grande clinico da parte di Paola Zaratin, direttrice ricerca scientifica della Fondazione italiana sclerosi multipla, che con Comi ha intrapreso un lungo percorso di collaborazione.

È morto a 76 anni Giancarlo Comi, professore onorario di neurologia all'Università Vita-Saluta San Raffaele e direttore scientifico del progetto Human Brains di Fondazione Prada, scienziato di fama internazionale nel campo delle neuroscienze e delle malattie neurologiche, ed esperto di sclerosi multipla.