Uno studio di ISPRA ha misurato la variazione della concentrazione di sostanze inquinanti nelle acque marine costiere alle foci di 4 fiumi del centro-nord Italia nei mesi del primo lockdown, riscontrando acque più limpide e utilizzando un metodo di indagine innovativo che, se usato di routine, potrebbe migliorare la gestione delle acque
Crediti immagine: Cristiano Bottarelli, CC BY-SA 4.0 Wikimedia Commons
Il lockdown del 2020 passerà sicuramente alla storia come un momento di forte cambiamento delle nostre vite, ma anche come una sorta di inaspettato esperimento degli effetti delle nostre attività sull’ambiente. I tre mesi bloccati in casa, con una forte diminuzione di tutte le attività hanno comportato una riduzione delle emissioni gassose, e migliorato la qualità dell’aria, come confermato da studi e rapporti. Ma cosa è successo invece alle acque? Spulciando tra le notizie apparse in questi mesi, si legge di acque cristalline, delfini in laguna, un mare che torna pulito. Ma è davvero così?
Si e no, ce lo dice un rapporto appena pubblicato dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) che illustra gli esiti di “Lockdown 2020” un monitoraggio intensivo volto a verificare l’effetto sulla qualità delle acque marino costiere della chiusura, a causa della pandemia da COVID-19, e della successiva riapertura, della maggior parte delle attività produttive. Lo studio ha riguardato i tratti di mare prospicenti le foci di quattro fiumi: Brenta-Adige, Po, Metauro e Tevere, che sono già soggetti a un monitoraggio di routine condotto da ISPRA in collaborazione con la Guardia Costiera, che ha fornito supporto anche per questo studio.
«Da fine aprile, è stato effettuato un campionamento delle acque a settimana, in contemporanea per tutte le quattro foci monitorate. La durata complessiva del campionamento è stata di cinque settimane e ha abbracciato l’intero periodo di chiusura totale delle attività del primo lockdown» spiegano le autrici dello studio, le tecnologhe ISPRA Nicoletta Calace e Daniela Berto. «Il lockdown ha posto delle complicazioni anche per svolgere la ricerca, per le questioni di sicurezza legate al Covid-19 non è stato possibile iniziare il campionamento prima di aprile, e anche per la scelta dei parametri da misurare perché anche i laboratori erano chiusi e quindi non è stato banale ricevere e analizzare i campioni» spiega Daniela Berto.
«Abbiamo scelto di misurare le principali pressioni, i nutrienti legati agli impatti civili, l’agricoltura, acquacultura quindi nello specifico i composti azotati, i fosfati, la clorofilla e i solidi sospesi, uno dei parametri più sensibili alle variazioni nelle pressioni. I solidi sospesi sono il particolato in sospensione e dipendono quindi dal trasporto di solidi dai fiumi verso il mare» racconta Calace. «Poi, considerato il significativo aumento del consumo di disinfettanti abbiamo deciso di monitorare l’eventuale presenza di residui nelle foci e nel mare» prosegue Berto. La scelta dei tratti da studiare è stata indirizzata dall’intensità della diffusione di Covid-19, che nei primi mesi era concentrata al centro-nord. «Abbiamo campionato nelle stesse stazioni che vengono campionate nel corso del monitoraggio ordinario (che prevede dai due ai quattro campionamenti all’anno) previsto dalla Direttiva quadro sulle acque, per riuscire ad avere un dato pregresso da poter comparare. Sostanzialmente non abbiamo osservato grandissimi cambiamenti, tra la qualità ordinaria delle acque e il periodo del lockdown, se non una significativa riduzione dei solidi sospesi. Questo può essere spiegato sia dalle caratteristiche meteo dei mesi del primo lockdown, caratterizzati da un clima secco e poche precipitazioni, ma anche e soprattutto dal fatto che sono diminuite in modo drastico le imbarcazioni» spiegano le tecnologhe. Non sono stati invece trovati, fortunatamente inquinanti legati all’utilizzo di disinfettanti, mentre in alcune stazioni è stato rilevato un aumento dell’azoto ammoniacale dovuto a un’elevata pressione dei depuratori.
Per lo studio è stata utilizzata una tecnica innovativa di indagine che permette di capire qual è l’origine degli inquinanti: «il monitoraggio va a misurare il contenuto e la distribuzione isotopica di alcuni elementi nelle acque. In particolare il laboratorio di Chioggia è specializzato nell’individuazione di carbonio, zolfo e azoto e stiamo lavorando a un nuovo strumento che ci permetterà di lavorare sull’ossigeno. Il valore aggiunto di questo tipo di analisi è appunto poter comprendere qual è la fonte dell’emissione di un determinato elemento chimico» afferma Calace. «Grazie agli isotopi stabili siamo riusciti a discriminare che l’effetto della pressione civile era quello più elevato. Un risultato che ci aspettavamo, dato il confinamento, ma comunque confermato da dati quantitativi» spiega Berto. La tecnica degli isotopi stabili ha diverse applicazioni, e in particolare è stato inserito anche nei monitoraggi previsti dalla Marine strategy, perché permette di indagare il livello trofico, è una tecnica fine e anche sensibile, che riesce a dare risultati in termini immediati. Un monitoraggio che secondo le tecnologhe sarebbe importante estendere anche nei monitoraggi di routine, per avere un dato importante per la gestione ambientale: comprendere qual è la fonte di un determinato inquinante permette di fornire indicazioni precise per diminuire la pressione sulle acque. L’analisi di routine prevista dalla Direttiva acque infatti si limita alla misurazione della presenza e concentrazione di un inquinante, ma si tratta di un dato un po’ incompleto, perché non permette di capire le sorgenti.