Elon Musk all'inizio della conferenza di aggiornamento su Neuralink ad agosto del 2020. Foto di Steve Juvertson (CC BY 2.0).
Dall’età di 18 anni Nathan Copeland è confinato su una sedia a rotelle. Mentre guidava verso il campus della Fayette, una filiale della Penn State University 50 miglia a sud di Pittsburgh, è uscito di strada. L’impatto contro il guardrail lo ha lasciato paralizzato dal collo in giù. Conserva solo un parziale movimento delle spalle che gli permette di articolare i polsi e sfruttare un trackpad con la parte laterale dei pugni per usare un computer. Ma la sua capacità di interagire col mondo digitale e fisico è aumentata quando nel 2014 un gruppo di ricercatori dell’Università di Pittsburgh coordinati da Andrew Schwartz ha installato nella sua corteccia motoria due interfacce neurali che gli permettono di manovrare un braccio meccanico. Si tratta di dispositivi dotati di un centinaio di elettrodi ciascuno che penetrano all’interno del tessuto cerebrale e registrano i segnali elettrici che attraversano i neuroni e poi li trasmettono tramite cavi a un computer. Lì, un algoritmo li decodifica e li traduce in istruzioni di movimento di un arto robotico o di un cursore su uno schermo. Altre due interfacce sono state installate nella parte somatosensoriale della corteccia e gli hanno restituito una sensazione simile al tatto.
Per questo, quando ad aprile del 2021 Neuralink, la società fondata nel 2016 dal magnate statunitense Elon Musk, ha pubblicato un video in cui mostrava un macaco rhesus giocare al videogioco Pong senza utilizzare le mani ma solo grazie ai segnali nella sua corteccia motoria raccolti da un’interfaccia wireless, Copeland ha fatto sapere che avrebbe voluto sfidare Pager, questo il nome del macaco.
Per certi versi, una sfida tra il macaco Pager e Nathan Copeland riassumerebbe bene le reazioni della comunità accademica agli annunci di Elon Musk sui progressi di Neuralink.
Poco dopo la pubblicazione del video del macaco Pager, Miguel Nicolelis, uno degli scienziati più noti nel campo delle neuroprotesi e direttore di un laboratorio sul tema alla Duke University, ha risposto piccato che il suo gruppo aveva già dimostrato il funzionamento di una interfaccia wireless tra cervello e computer ben sette anni fa, guadagnandosi la copertina di Nature Methods. Altri, come Paul Nuyujukian, direttore del Brain Interfacing Laboratory a Stanford, hanno commentato positivamente le caratteristiche tecnologiche dell’impianto sviluppato da Musk. Di dimensioni simili a quelle di una moneta, 24 millimetri di diametro e 8 di spessore, il Link ha bisogno di un bassissimo voltaggio per essere ricaricato (in modo wireless come gli smartphone che sfruttano la tecnologia dell’induzione elettromagnetica) e ospita circa un migliaio di elettrodi, un ordine di grandezza superiore a quello del dispositivo che finora è stato usato in ambito clinico e pre-clinico, lo Utah array. Gli elettrodi che penetrano nel tessuto neurale sono flessibili, mentre quelli dello Utah array più rigidi.
«Dal punto di vista tecnologico sono molto impressionato, sia perché la dimensione del dispositivo e l’utilizzo di trasmissione wireless consentiranno impianti che non necessitano di connettori esterni e quindi con minor rischi di infezione e impatto estetico di fatto nullo, sia perché il numero di canali di registrazione è notevolmente aumentato» commenta Zoccolan, che dirige il laboratorio sulla visione alla SISSA di Trieste, commenta Zoccolan, che dirige il laboratorio sulla visione alla SISSA di Trieste, «ma riguardo le conoscenze sulla neurofisiologia del cervello che vengono sfruttate per decodificare i segnali raccolti da Neuralink, non ci sono novità rispetto a quello che sapevamo già. L’ingresso di Musk in questo settore può però rappresentare un acceleratore importante, soprattutto per la durata nel tempo di queste protesi».
Il rischio di infezione posto dalle interfacce utilizzate finora ha in effetti limitato la sperimentazione negli esseri umani.
Jan Scheuermann è stata la prima paziente a manovrare un braccio robotico complesso nel 2012. I suoi progressi sono stati riportati prima nel 2013 sulla rivista The Lancet (controllo di sette gradi di libertà) e l’anno successivo sul Journal of Neural Engineering (dieci gradi di libertà). Scheuermann, che oggi ha 60 anni, ha perso la capacità di movimento dal collo in giù vent’anni fa a causa di una malattia rara chiamata atassia spinocerebellare. Da quel momento il suo corpo è in grado di percepire gli stimoli ma non di eseguire le istruzioni che arrivano dal cervello. Quando Scheuermann è stata intervistata, ha raccontato che partecipare allo studio di Schwartz e dei suoi collaboratori è stato estremamente emozionante e le ha permesso per la prima volta dopo dodici anni di muovere oggetti nel suo ambiente, addirittura di alimentarsi autonomamente portando alla bocca una barretta di cioccolato.
Tuttavia, nell’ottobre del 2014, l’impianto è stato rimosso dal cervello di Scheuermann perché il cuoio capelluto intorno ai due impianti aveva cominciato a staccarsi e il rischio di sviluppare gravi infezioni era troppo elevato secondo i suoi medici. Il rischio di questi impianti cablati è infatti quello di causare infezioni, poiché lasciano un contatto aperto con l’esterno. Per questa ragione, la Food and Drug Administration pone un limite massimo alla partecipazione dei pazienti a questo tipo di sperimentazione. Alla fine della partecipazione, gli impianti vengono rimossi, non senza conseguenze emotive e pratiche per i pazienti, come anche Nathan Copeland ha raccontato.
Un altro limite alla durata di questi dispositivi è rappresentato della perdita di segnale per effetto della formazione di tessuto cicatriziale intorno agli elettrodi.
Scheuermann ha raccontato che manovrare il braccio robotico era diventato progressivamente più difficile e che nel tempo aveva perso la capacità di eseguire i gesti più complessi che aveva compiuto poco dopo l'impianto perché, andando avanti nel tempo, il chip era in grado di captare i segnali da un numero sempre minore di neuroni. «Le cellule della glia reagiscono alla presenza di un corpo estraneo presente nel tessuto cerebrale e costruito con materiali dalle proprietà meccaniche "poco flessibili" e molto diverse da quelle del tessuto biologico circostante» spiega Michele Giugliano che dirige il laboratorio di dinamica neuronale alla SISSA di Trieste. «È proprio la flessibilità del materiale usato a contatto con il tessuto cerebrale ad attivare in modo più o meno intenso la risposta infiammatoria e cicatriziale: da un lato c'è il silicio usato per gli "aghi" dello Utah array, assai rigido. Dall'altro c'è la poliammide, molto flessibile, che è stata impiegata già da tempo come materiale alternativo» continua Giugliano e aggiunge «se il Link di Musk è promettente sul fronte delle infezioni, non sappiamo come il tessuto cerebrale reagirà agli elettrodi, più flessibili e sottili rispetto a quelli di uno Utah array ma rivestiti di un materiale non dissimile», conclude.
Il problema della cicatrizzazione è meno rilevante nel caso delle protesi visive e uditive perchè basate su un principio di funzionamento differente. In questi casi, infatti, i pazienti hanno perso delle capacità di percezione e dunque i dispositivi hanno il compito di stimolare la corteccia imitando gli input visivi o acustici con segnali elettrici artificiali. «Posso contrastare la formazione del tessuto cicatriziale intorno agli elettrodi, aumentando il “volume” degli stimoli elettrici», dice Giugliano «mentre nel caso delle protesi motorie non ho strumenti per aumentare il volume del segnale biologico che viene generato dai neuroni e captato dagli elettrodi dell’impianto».
Le protesi visive, e ancora più quelle uditive, sono più mature dal punto di vista tecnologico e sono diventati oggetti commerciali. Secondo i National Institutes of Health, a dicembre del 2019 erano stati registrati circa 740 000 impianti cocleari nel mondo. Per la visione, la compagnia statunitense SecondSight ha sviluppato e commercializzato il dispositivo Argus II, anche noto come occhio bionico, che è stato impiantato in 350 persone nel mondo. Si tratta di un impianto retinico destinato alle persone colpite da retinite pigmentosa. Una telecamera registra le immagini nel campo visivo della persona, le invia in modo wireless a un processore che le traduce in stimoli elettrici inviati tramite un cavo all’impianto subretinico.
Nel 2015 la compagnia SecondSight si è spostata nel campo delle protesi corticali per la visione, che sarebbero utili anche per coloro che hanno danni al nervo ottico e non beneficerebbero di un impianto retinico (questa è la condizione della maggior parte delle persone non vedenti nel mondo). In questo tipo di impianti le immagini raccolte dalla telecamera sono processate e inviate a un dispositivo impiantato nella corteccia visiva della persona, come nel caso di Bernadeta Gómez che ha partecipato a uno studio clinico organizzato in collaborazione con Eduardo Fernandez, direttore del laboratorio di neuroingegneria dell’Università Miguel Hernandez in Spagna.
La sfida maggiore in questo campo è però rappresentata dalla “traduzione” degli stimoli esterni in pattern di attivazione della corteccia visiva che restituiscano al paziente la sensazione di vedere una certa immagine.
«Il problema è prima di tutto di natura dimensionale, un’immagine è estremamente ricca di informazioni e per riprodurre un’esperienza visiva naturalistica un impianto deve essere in grado di stimolare decine di migliaia se non milioni di unità nervose nella retina o nella corteccia», commenta Zoccolan e prosegue «questo da una parte richiede l’utilizzo di un numero molto maggiore di elettrodi dall’altro pone un problema algoritmico. Infatti, non abbiamo ancora una comprensione sufficiente del funzionamento della corteccia visiva, soprattutto dei suoi strati di alto livello. Abbiamo capito come è organizzata l’attivazione dei neuroni della corteccia visiva primaria. Per esempio, sappiamo che certi gruppi di neuroni si attivano in risposta alla visione di spigoli orizzontali e altri in risposta a spigoli verticali, ma non sappiamo ancora riprodurre la cascata di elaborazioni che avviene negli strati più alti della corteccia visiva che ci permettono di interpretare ciò che vediamo.»
Per questo, le protesi visive che esistono oggi, sia a livello della retina che della corteccia permettono di generare nei pazienti la sensazione di vedere dei mosaici di puntini luminosi, chiamati fosfeni, che riproducono forme semplici, come quelle delle lettere. Lo ha dimostrato recentemente un gruppo di ricercatori olandesi che ha impiantato 16 Utah array nella corteccia visiva di un macaco. «Tuttavia, siamo ancora molto lontani dal permettere di percepire, per esempio, il volto di una persona» dice Zoccolan e aggiunge «mi aspetto importanti sviluppi in tal senso dall’applicazione di metodi di apprendimento automatico, soprattutto le reti neurali artificiali profonde, che in recenti studi sui macachi, hanno mostrato di sapere interpretare il codice neurale delle aree visive corticali di alto livello.»
Ad aver generato scalpore però non sono state solo le prospettive di utilizzo di Neuralink nel campo delle protesi neurali, ma anche gli annunci di Musk sugli obiettivi di lungo termine della società, descritti in un product update ad agosto del 2020.
Nelle parole di Musk, Neuralink intende mettere a punto un dispositivo in grado di curare moltissime malattie legate al cervello, dalla depressione all’insonnia, dalla perdita di memoria all’ansia, fino alla cecità e alla sordità. Il messaggio è stato ribadito da Musk venerdì 24 settembre, durante un dialogo con l’imprenditore italo-statunitense John Elkann, intervistati dal direttore di Repubblica Maurizio Molinari alla Italian Tech Week a Torino.
«Quello che mi preoccupa non è tanto il mancato riconoscimento dei risultati della comunità accademica, quanto il pericolo che le tante persone colpite da una patologia neurologica ripongano troppe speranze nel nuovo progetto di Musk», commenta Giugliano e aggiunge «dal punto di vista tecnologico è un progresso importante, ma dal punto di vista della possibilità di sfruttare queste protesi per la cura di patologie neurodegenerative complesse, è tutto da dimostrare. Il cervello oltre a essere una macchina elettrica è una macchina chimica e questo aspetto non è affatto trascurabile».
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