fbpx Quanto dura la protezione offerta dai vaccini contro Covid-19? | Scienza in rete

Quanto dura la protezione offerta dai vaccini contro Covid-19?

Immagine di Sergio Cima per Scienza in rete.

Tempo di lettura: 12 mins

Un elemento determinante per cercare di capire in quale direzione stia procedendo l’epidemia di Covid-19, soprattutto nei paesi occidentali che hanno vaccinato percentuali elevate della popolazione, è la durata dell'immunità conferita dai vaccini. La domanda è ancora aperta dal punto di vista scientifico e i ricercatori stanno provando a rispondere sulla base dei dati epidemiologici raccolti sul campo da una parte e di quelli immunologici raccolti in laboratorio dall’altra. 

Le infezioni post-vaccinali sembrano aumentare, soprattutto tra gli anziani

Il primo a suonare un campanello di allarme è stato Israele, che all’inizio di agosto ha stimato che l’efficacia del vaccino Pfizer-BioNTech nell’evitare le forme gravi della malattia nei cittadini sopra i 65 anni che avevano ricevuto la seconda dose a gennaio e febbraio era passata dal 95% al 60% circa. Questo significa che se all’inizio i vaccinati avevano un rischio di infettarsi e sviluppare una forma grave della malattia circa 25 volte inferiore a quello dei non vaccinati, a sei mesi il rischio era ridotto “solo” di 2,5 volte. Sulla scorta di questi dati, il governo israeliano ha avviato la campagna per la somministrazione del richiamo a tutta la popolazione, partendo dagli anziani.

A metà settembre l’Agenzia di salute pubblica britannica ha stimato che tra gli over 65 l’efficacia del vaccino Pfizer-BioNTech nell’evitare il ricovero è del 98% da 2 a 9 settimane dopo la seconda dose e scende al 91% dopo 20 settimane. Più accentuato è il declino per AstraZeneca, che passa dal 92% al 77%. «Nonostante questa sia una diminuzione apparentemente contenuta, a livello di popolazione è probabile che si traduca in un numero significativo di persone che avranno bisogno di cure ospedaliere per Covid», ha dichiarato al Financial Times Penny Ward, farmacologa del King’s College di Londra.

Pfizer ha poi finanziato uno studio retrospettivo sui clienti di un grosso fornitore di servizi sanitari in California che ha riguardato quasi 3,5 milioni di persone e i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista The Lancet all’inizio di ottobre. L’efficacia verso infezione, sintomatica e asintomatica, passa da 88% a 47% dopo cinque mesi, ma quella verso il ricovero rimane stabile intorno all’88%. Lo studio ha anche provato a separare le infezioni con la variante Delta da quelle dovute ad altre varianti, per capire se la diminuzione osservata potesse essere spiegata da una parziale capacità di Delta di eludere la risposta immunitaria sollecitata dai vaccini. Dopo 4 mesi, l’efficacia verso tutti i tipi di infezione è passata da 93% a 53% per Delta e da 97% a 67% per le altre varianti, ma con ampi margini di incertezza che non permettono di concludere se esista una differenza significativa tra i due gruppi.

Sempre all’inizio di ottobre, i ricercatori della Weill Cornell Medicine in Qatar hanno pubblicato su The New England Journal of Medicine uno studio relativo alle oltre 900000 persone vaccinate con Pfizer-BioNTech nel paese. Hanno osservato una diminuzione dell’efficacia nell’evitare tutti i tipi di infezione da 78% a 20% tra uno e sei mesi dalla seconda dose, ma una sostanziale stabilità della protezione verso la malattia grave e la morte, che si è attestata intorno al 96%.

Il 6 ottobre sono poi arrivati i primi dati italiani, pubblicati nel quarto rapporto sull’efficacia dei vaccini dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), che ha rilevato una diminuzione dell'efficacia solo nelle popolazioni vulnerabili e, leggermente, tra gli over 80. L’analisi dell'Istituto è basata su 29 milioni di persone vaccinate tra il 27 dicembre 2020 e metà agosto 2021. Nella popolazione generale non si osserva, a sei mesi dalla somministrazione della seconda dose, una riduzione significativa dell’efficacia dei vaccini nell’evitare l’infezione (89%) il ricovero in reparto ordinario o in terapia intensiva (96%) e la morte (99%). Una flessione nella protezione conferita dai vaccini si osserva solo nei gruppi con sistema immunitario debole (passa dal 75% al 52% a 4-7 mesi dalla seconda dose) e nelle persone sopra gli 80 anni e i residenti delle RSA (resta comunque superiore all’80% a 7 mesi dalla seconda dose).

L’analisi ha anche confrontato l’efficacia dei vaccini nella fase epidemica dominata dalla variante Alfa con quella dominata dalla variante Delta. I vaccini sembrano perdere forza contro la Delta rispetto alla Alfa: l’efficacia nell’evitare l’infezione passa dall’84% al 67%. Tuttavia, la protezione verso la malattia grave resta molto elevata in entrambi i periodi, 92% nella fase dominata da Alfa e 89% nella fase dominata da Delta. Difficile dire, sottolineano i ricercatori dell’Istituto, se la perdita di efficacia sia dovuta a un declino dell’immunità nel tempo, soprattutto nella popolazione vaccinata all’inizio della campagna, oppure a una maggiore abilità biologica della variante Delta nell’evadere la risposta immunitaria suscitata dai vaccini che sono stati formulati sulla base del ceppo virale circolante a Wuhan all’inizio della pandemia.

«I dati dell’Istituto sono confortanti», commenta Stefania Salmaso, epidemiologa delle malattie infettive che ha diretto fino al 2015 il Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute dell’ISS. «La situazione epidemiologica in Europa e nel mondo è molto disomogenea in questo periodo. Le differenze tra i dati israeliani e quelli raccolti da Regno Unito, Stati Uniti, Italia e Qatar, soprattutto riguardo alle forme gravi, potrebbero essere spiegate da una varietà di fattori. Israele ha avviato con grande velocità la sua campagna di vaccinazione, ma la copertura a un certo punto si è fermata al 70%. In più, proprio sulla scorta del successo della campagna, prima dell’estate sono state rilassate le misure di distanziamento sociale e sugli spostamenti, anche internazionali». Riguardo alla necessità di somministrare a tutta la popolazione un richiamo «per adesso non correrei. Non dimentichiamo che l’obiettivo delle campagne di vaccinazione era quello di abbassare la pressione sugli ospedali, non azzerare la trasmissione del virus. Per anziani e immunocompromessi è invece fondamentale per evitare la malattia severa.»

Una risposta combinata e coordinata

Ma cosa hanno trovato nel frattempo gli immunologi studiando il sangue dei guariti e dei vaccinati? Una conclusione comune sostanzialmente a tutti gli studi è che nei mesi successivi alla seconda dose la quantità di anticorpi circolanti nel sangue e capaci di legarsi alla proteina spike del virus diminuisce, sia per il vaccino di AstraZeneca che per quelli a mRNA di Pfizer-BioNTech e Moderna.

Lo studio sul vaccino di Pfizer-BioNTech ha coinvolto il numero maggiore di soggetti, oltre 4000 operatori sanitari in Israele, e ha permesso di osservare anche gli anticorpi neutralizzanti: dopo un’iniziale discesa il loro livello si stabilizza, a differenza di quello che sembra accadere per gli anticorpi anti-spike. Questo suggerirebbe che gli anticorpi diminuiscono in termini di quantità ma diventano sempre più efficaci nel riconoscere l’antigene del virus e legarvisi bloccando il suo ingresso nelle cellule dell’ospite. A dirigere questa attività di raffinazione della risposta immunitaria sono le cellule B prodotte anch’esse come conseguenza della vaccinazione.

Una ricerca, coordinata dall’immunologo Ali Ellebedy della Washington University School of Medicine, ha analizzato il liquido linfonodale di 14 persone che avevano ricevuto due dosi del vaccino Pfizer-BioNTech. Nei linfonodi si svolgono infatti una sorta di campi di addestramento delle cellule B che maturano per produrre anticorpi dotati di maggiore affinità con la proteina spike del virus. Ellebedy e i suoi collaboratori hanno visto che fino a 20 settimane dalla seconda dose questi campi di addestramento sono attivi e continuano a produrre cellule B sempre più specializzate.

Oltre agli anticorpi e alle cellule B, la risposta immunitaria contro a SARS-CoV-2 può fare affidamento anche sulle cellule T, che hanno un ruolo sia nel polarizzare l’attività dei linfociti B verso il virus nel momento di un nuovo incontro, inducendole a produrre gli anticorpi specifici, che nell’eliminare le cellule già infettate ed evitare che il virus si replichi ancora. I ricercatori se ne sono accorti studiando il sangue delle persone guarite dall’infezione «nei casi clinici più lievi abbiamo osservato una risposta coordinata e tempestiva di anticorpi e cellule T» spiega Alba Grifoni, ricercatrice presso il La Jolla Institute for Immunology (LJI) in California e autrice di uno dei primi studi sul ruolo delle cellule T nell’infezione con SARS-CoV-2, pubblicato sulla rivista Cell a giugno del 2020. Il gruppo di ricerca all’LJI ha poi esteso questo studio a pazienti con decorsi clinici gravi «in questi casi una delle componenti è mancata». In un altra ricerca, Grifoni e colleghi hanno osservato come evolveva la risposta immunitaria negli 8 mesi successivi alla guarigione da Covid in circa 200 persone, constatando che seppure i livelli di anticorpi diretti alla proteina spike diminuivano, così come le cellule B circolanti nel sangue, la maggioranza aveva ancora una quantità rilevabile di cellule T. «Ora stiamo ripetendo lo stesso tipo di indagine per le persone che hanno ricevuto diversi vaccini tenendo anche conto delle varianti del virus. Altri gruppi stanno analizzando invece la risposta immunitaria nei rarissimi casi in cui una persona che ha completato il ciclo vaccinale va incontro a un decorso clinico grave della malattia».

Tempo di incubazione

Nonostante la diminuzione del livello di anticorpi circolanti nel sangue, il sistema immunitario sembra sviluppare una risposta durevole e sempre più specializzata verso il virus. Eppure, gli studi di efficacia dei vaccini sul campo mostrano una flessione.

«Una variabile importante da prendere in considerazione per ragionare su questa apparente contraddizione è il tempo di incubazione dell’infezione, ovvero il tempo che intercorre dal momento dell’incontro col virus a quando questo diventa rilevabile da un test diagnostico», commenta Salmaso. Al momento dell’incontro col virus il sistema immunitario di una persona vaccinata deve chiamare a raccolta tutti i suoi agenti e indurre la produzione di anticorpi neutralizzanti oltre a sguinzagliare i linfociti T capaci di eliminare le cellule già infettate dal virus. Questo reclutamento richiede tempo e se nel mentre il virus si replica molto velocemente può battere sul tempo il sistema immunitario e causare l'insorgenza di sintomi, anche se nella stragrande maggioranza dei casi non gravi. Purtroppo, per Covid-19 non sappiamo ancora se questa soglia esista e in caso affermativo quale sia il suo valore, quindi per ora non sappiamo quanto spesso dovremo ricevere i richiami e per quali fasce della popolazione saranno consigliate.

La variante Delta ha peggiorato la situazione, perché è molto più veloce a replicarsi rispetto al ceppo originale, come ha suggerito una ricerca, pubblicata a luglio da un gruppo di ricercatori del Center for Diseases Control and Prevention della provincia cinese del Guandong. Gli scienziati hanno osservato che il virus comincia a essere rilevabile nelle persone infettate con variante Delta quattro giorni dopo l'esposizione, rispetto a una media di sei giorni tra le persone infettate con il ceppo originale, suggerendo che Delta replichi molto più velocemente. Oltre a questo, hanno visto che il carico virale è 1000 volte superiore a quello delle infezioni con ceppo originale e questo rende la trasmissione ad altri più facile.

Non è facile dire se questo implichi che il declino di efficacia dei vaccini sia dovuto anche alla variante Delta. Uno studio pubblicato la scorsa settimana su Nature e coordinato dall’immunologa di Yale Akiko Iwasaki, ha esposto i campioni di sangue di 40 sanitari del Yale New Haven Health System a 16 diverse varianti del SARS-CoV-2 inclusa la Delta osservando una risposta immunitaria robusta, soprattutto da parte delle cellule T. «È improbabile che i casi di infezione post-vaccinale siano dovuti a un fallimento dei vaccini, piuttosto è probabile che derivino dalla natura estremamente infettiva della variante Delta, che può superare la difesa immunitaria» ha dichiarato Iwasaki.

Troppe uova nel paniere dei vaccini

Dunque, non sappiamo ancora quale sia il correlato immunologico della protezione clinica, ma guardando ai dati epidemiologici la decisione di diversi paesi di somministrare un richiamo ai più anziani e agli immunocompromessi sembra ragionevole. Non bisogna però dimenticare che nel frattempo, dei quasi 7 miliardi di dosi di vaccino somministrate nel mondo (4 miliardi di prime dosi e 3 miliardi di seconde dosi) la stragrande maggioranza è andata ad abitanti dei paesi ricchi. Ampie regioni restano ancora scoperte e potrebbero andare incontro a nuove ondate di contagio. Per questo motivo è imprudente pensare di mettere tutte le uova nel paniere dei vaccini. Al contrario, è fondamentale adottare altre misure, come mascherine, diagnosi precoce e isolamento, ventilazione e distanziamento, per rallentare la diffusione del virus mentre vacciniamo più persone possibili. «Una campagna di vaccinazione globale che tenga conto delle diverse popolazioni umane è importante per minimizzare la probabilità che emergano varianti del virus più pericolose» commenta Grifoni, ma allo stesso tempo occorre proteggere le persone con sistemi immunitari deboli e gli anziani. Una risposta parziale potrebbe portare a infezioni persistenti durante le quali il virus potrebbe avere occasione di evolvere in varianti resistenti ai vaccini.»

In questo senso il caso del Regno Unito deve servire da ammonimento. Nonostante l’elevata copertura vaccinale, nella settimana dal 13 al 20 ottobre sono stati diagnosticati circa 470 casi ogni 100 000 abitanti e quasi 1000 nuovi decessi (in Italia l’incidenza del contagio in quella settimana è stata di 30 casi ogni 100 000 abitanti e sono stati registrati in tutto 267 decessi). Ma il Regno Unito, e l’Inghilterra in particolare, ha una serie di vulnerabilità che i vaccini non sembrano essere in grado di compensare.

Le misure di distanziamento a scuola sono sostanzialmente assenti, e di conseguenza il virus circola intensamente tra bambini e ragazzi, per cui la vaccinazione è iniziata più tardi rispetto ad altri paesi europei. Gli ultimi dati dell’Office for National Statistics indicano che l’8% degli studenti tra 10 e 16 anni sono risultati positivi al Covid-19 nella settimana tra il 2 e il 9 ottobre. L’elevata circolazione in questa fascia di età potrebbe portare il virus alle persone più anziane, tra le prime a essere state vaccinate e per cui la protezione potrebbe essere già diminuita troppo. In più, nel Regno Unito è stato fatto un uso massiccio del vaccino AstraZeneca, soprattutto nelle prime fasi della campagna vaccinale e quindi tra i più anziani. Come abbiamo visto, l’analisi dell’Agenzia di salute pubblica inglese di metà settembre ha mostrato che la protezione offerta da questo vaccino da malattia grave e morte nelle persone sopra I 65 anni diminuisce più rapidamente di quella dei vaccini a mRNA. Per questa categoria è dunque molto importante ricevere il richiamo, ma la campagna per la sua somministrazione per ora procede a rilento. Infine, non ci sono luoghi o situazioni in cui sia richiesto un passaporto vaccinale, una misura che verrà introdotta in qualche forma solo qualora il governo britannico dovesse decidere di passare al cosiddetto “plan B” per l’inverno, che prevede anche la reintroduzione dell’obbligo di mascherina in luoghi chiusi affollati e raccomanda di lavorare da casa. I vertici del National Health Service lo chiedono a gran voce, insieme all’Associazione britannica dei medici. Il sistema sanitario è infatti già sotto stress con circa il 17% dei letti di terapia intensiva in Inghilterra occupati da pazienti Covid-19 e il timore che presto a questi si sommino quelli dovuti all’influenza stagionale. Tuttavia, per ora il governo ha dichiarato di non voler introdurre nuove restrizioni.

Per ricevere questo contenuto in anteprima ogni settimana insieme a sei consigli di lettura iscriviti alla newsletter di Scienza in rete curata da Chiara Sabelli (ecco il link per l'iscrizione). Trovi qui il testo completo di questa settimana. Buona lettura, e buon fine settimana!


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Il nemico nel piatto: cosa sapere dei cibi ultraprocessati

Il termine "cibi ultraprocessati" (UPF) nasce nella metà degli anni '90: noti per essere associati a obesità e malattie metaboliche, negli ultimi anni si sono anche posti al centro di un dibattito sulla loro possibile capacità di causare dipendenza, in modo simile a quanto avviene per le sostanze d'abuso.

Gli anni dal 2016 al 2025 sono stati designati dall'ONU come Decennio della Nutrizione, contro le minacce multiple a sistemi, forniture e sicurezza alimentari e, quindi, alla salute umana e alla biosfera; può rientrare nell'iniziativa cercare di capire quali alimenti contribuiscano alla salute e al benessere e quali siano malsani. Fin dalla preistoria, gli esseri umani hanno elaborato il cibo per renderlo sicuro, gradevole al palato e conservabile a lungo; questa propensione ha toccato il culmine, nel mezzo secolo trascorso, con l'avvento dei cibi ultraprocessati (UPF).