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Ricercatore straniero? Favorisca i documenti

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Da molto tempo si parla in Italia del problema della fuga di cervelli. Tuttavia, la questione è mal posta, poiché il vero problema è se si possa pervenire a una sorta di equilibrio fra i cervelli che lasciano il nostro paese e quelli che vi fanno ingresso, non solo (o non tanto) a livello di quantità ma anche e soprattutto di qualità. Sorge quindi spontanea la domanda: ma il “sistema Italia” è lontanamente appetibile per un ricercatore che voglia trasferirvisi da uno stato estero, e quanto è difficile accedervi? Tralasciamo la questione degli italiani di ritorno, complessa e legata anche a questioni personali o di attaccamento al proprio paese, e focalizziamoci invece sulla prospettiva di un ricercatore straniero, a un qualsivoglia stadio della propria carriera, che prenda in considerazione l’Italia come luogo in cui continuare la propria carriera di ricerca. La mia analisi vuole affrontare soprattutto degli aspetti pratici, quindi non prenderà in considerazione la scarsa attrattività del nostro sistema ricerca a livello di stipendi, i quali sono poco confrontabili con la media europea, se non quando le offerte di lavoro sono chiaramente legate a particolari schemi di finanziamento (per esempio le borse Marie Skłodowska-Curie). Sorvolerò inoltre sul fatto che, in Italia, tranne che in rarissime realtà di ricerca, un’offerta di lavoro a uno stadio medio-avanzato della carriera (parliamo quindi di docente/ricercatore) significa di fatto solo l’offerta di uno stipendio (fra l’altro quasi mai negoziabile) e non include nel “pacchetto” un accordo sugli spazi di laboratorio (nel caso di ricerca sperimentale), né è lontanamente prevista una dotazione di fondi di base che possa garantire un minimo di sussistenza. Sorvolerò anche sul fatto che i meccanismi di finanziamento della ricerca in Italia sono quasi sempre intermittenti e con tempistiche (regolarità nelle emissioni dei bandi, erogazione effettiva dei finanziamenti, e così via) mai certe, il che rende le prospettive a medio-lungo termine sempre poco chiare e quindi fornisce un quadro poco appetibile.

Ritornando quindi alla nostra domanda di partenza, ci chiediamo innanzitutto se l’Italia sia generalmente in grado di formulare e pubblicizzare un'offerta di lavoro nel settore della ricerca in maniera tale da raggiungere agevolmente un ricercatore straniero. In particolare, quest’ultimo è posto nelle condizioni di poter comprendere facilmente i contenuti di un bando, e di poter prestare domanda senza dover ricorrere ad aiuti particolari? Qui sorgono numerosi dubbi. Sappiamo chiaramente che, a livello di bandi per un assegno di ricerca, o per un posto da ricercatore o da docente universitario, questi sono quasi sempre pochissimo pubblicizzati, raramente li si trova in inglese sul sito istituzionale che ha aperto il bando, né tantomeno su siti di ricerca di lavoro. Gli enti sono costretti a farlo solo se, nuovamente, legati a meccanismi di finanziamento transnazionale che impongono certe regole (per esempio la pubblicazione quantomeno sul sito Euraxess per le offerte di lavoro da finanziamenti europei). Conosciamo molto bene i bandi emessi dalla Gazzetta Ufficiale: questi bandi sono scritti in una maniera così intricata (con un preambolo di pagine e pagine di leggi e decreti), da risultare davvero indigesti. Con l’avvento dei social (fra tutti Linkedin e Twitter), i vari gruppi di ricerca possono facilmente diffondere la notizia di disponibilità di posti, ma questo è sempre il frutto di iniziative personali, spesso dei gruppi più attivi e con maggiore interesse a reclutare persone di valore. Presentare domanda poi è un’altra impresa. Prediamo l’esempio di una domanda di ammissione al concorso per il dottorato di ricerca. Su questo punto invito le varie università a controllare i propri siti e a verificare come questi il più delle volte siano di difficile fruizione per uno straniero. Spesso la versione inglese, se c’è, è scritta in maniera maccheronica, con una traduzione diretta dal tecnichese e burocratichese italiano, con il risultato di essere assolutamente incomprensibile. I siti sono inoltre macchinosi e molto spesso un click vi porterà a una pagina in italiano che magari nulla ha a che fare con il processo di presentazione della domanda. Un test sicuramente da condurre è quello di immedesimarsi in un giovane laureato che non conosce la lingua italiana e le nostre terminologie, e provare da soli, senza aiuto di sorta, a completare la domanda: buona fortuna!

Mettiamoci ora nella posizione di una persona che ha finalmente ricevuto un'offerta di lavoro, facendo il caso di una offerta di postdoc. Le considerazioni che farò si applicano in toto a ricercatori extracomunitari, ma molte interessano anche i ricercatori comunitari.  Per quanto riguarda il percorso di ingaggio presso un ente di ricerca, le peripezie iniziano con il primo scoglio della dichiarazione di valore del titolo (laurea, dottorato) conseguito presso lo stato estero, necessaria per la verifica di conformità del titolo di studio conseguito e per l’accesso a eventuali agevolazioni fiscali, che deve essere rilasciata da una ambasciata o da un consolato italiano nel paese in cui il ricercatore ha conseguito il titolo (e non è detto che lo stesso sia più residente lì). Il rilascio di questa certificazione richiede di solito dei mesi (sì, dei mesi!), e raramente vengono fornite indicazioni sulle tempistiche a chi ne fa domanda ed è poi in trepidante attesa. Quando la dichiarazione è finalmente ottenuta, l’ente italiano che ha intenzione di assumere il ricercatore può iniziare le procedure per la richiesta del visto. C’è da dire che per le università la procedura di rilascio visto può essere un po’ diversa a seconda della tipologia di visto richiesta. Per esempio, per un visto di studio, le procedure sono di certo più snelle. Tuttavia, un ente di ricerca (come può essere il CNR, tanto per fare un esempio) deve necessariamente utilizzare la procedura descritta nel Testo Unico sull’Immigrazione che prevede purtroppo la richiesta della dichiarazione di valore come primo passo.

Il primo step per la richiesta del visto consiste nell’accedere allo sportello unico per l’immigrazione presso il sito del Ministero dell’Interno. Peccato che, come è successo tra fine aprile e metà maggio di quest’anno, il servizio è stato inaccessibile per diverse settimane, per cui, durante quel lasso di tempo, tutte le richieste di visto in Italia si sono fermate. A ogni modo, la procedura di rilascio del visto porta via altri mesi ed è anche questa imprevedibile. In sede di procedura le ambasciate possono richiedere documentazione aggiuntiva e soprattutto non prevedono la possibilità di avviare contestualmente una richiesta di ricongiungimento familiare, che tecnicamente va iniziata dopo l’arrivo del ricercatore in Italia. Questo punto verrà ripreso in seguito.

Dopo tante peripezie, si arriva in Italia e si può iniziare a fare ricerca. Sarebbe naturale immaginarsi che agli stranieri, al loro arrivo, vengano fornite delle informazioni chiare e tempestive su questioni inerenti famiglia, figli, diritti e doveri, scadenze, assistenza sanitaria, benefici fiscali, e così via. In realtà questo non avviene sempre. Spesso le informazioni fornite dalle autorità e dagli uffici preposti sono frammentarie, centellinate, e alcune volte contraddittorie, anche perché da noi le leggi cambiano spesso e gli uffici non sempre comunicano fra loro. A parte questo, l’iter burocratico di rilascio o rinnovo di documenti di importanza vitale è lungo, complesso e tortuoso. Facciamo alcuni esempi. Il rilascio della tessera sanitaria, da parte della ASL, per sé e per i propri famigliari, è possibile solo dopo avere ottenuto la residenza da parte del Comune di competenza (un processo che purtroppo può prendere anche un anno e che solitamente può essere iniziato solo dopo aver ottenuto il permesso di soggiorno, per cui la procedura è di nuovo piuttosto lunga e l’attesa può durare anche diversi mesi, e di cui parlerò dopo). Spesso c’è un balletto fra vari uffici per richieste di documenti aggiuntivi e rimpalli di responsabilità. Senza tessera sanitaria non si può avere l’assegnazione di un medico curante ufficiale, e quello individuato privatamente può rifiutare di stabilire un appuntamento, e può essere negata una visita prenotata privatamente presso una struttura privata o ospedaliera non in regime di emergenza sanitaria. Un ricercatore che in Italia arriva con un contratto di lavoro ha pienamente diritto alla tessera sanitaria in quanto titolare di reddito. Invece, chi viene con una borsa studio esentasse (come lo è un dottorando), per avere la copertura ASL deve pagare un importo tramite bollettino oppure sottoscrivere una copertura assicurativa privata. Ovviamente, come a volte accade, gli uffici fanno confusione e possono arrivare a chiedere il pagamento del bollettino anche a un ricercatore straniero titolare di contratto.

Un altro grosso problema è quello del rilascio o del rinnovo del permesso di soggiorno, una procedura sempre tediosa e piena di incognite. Le prefetture possono richiedere dei documenti aggiuntivi, come il famigerato documento di “idoneità abitativa”. Per prassi, l’idoneità abitativa non è richiesta per le conversioni del permesso da studio a ricerca, ma in maniera del tutto casuale questa richiesta spunta fuori anche per questo tipo di conversioni, magari in extremis, e così i tempi si allungano di un altro mese o più. Le tempistiche di rilascio del permesso di soggiorno dipendono dalle autorità e possono essere davvero lunghi, ovvero fino a 9-12 mesi. Alcune volte, quando il permesso di soggiorno viene rilasciato, è già scaduto! Il punto fondamentale del permesso di soggiorno è che serve appunto per la permanenza in Italia, ma non è un permesso di soggiorno transnazionale e consente solo brevi spostamenti in Europa. Tuttavia, date le tempistiche di rinnovo, è quindi molto probabile che un ricercatore straniero in Italia possa trovarsi in possesso di un permesso di soggiorno scaduto, in caso di viaggio all’estero rischia di avere problemi al rientro. Cosa succede in questo caso? Il ricercatore potrebbe viaggiare solo con la ricevuta che gli viene data all’atto della richiesta di rinnovo, ma ovviamente la sola ricevuta potrebbe non essere riconosciuta negli altri paesi UE, non essendo un documento d’identità valido per espatrio. Tutti gli stranieri in possesso delle ricevute di rinnovo del permesso italiano possono viaggiare liberamente all’interno dell’Italia e verso il proprio Paese d’origine, per poi rientrare verso l’Italia, ma solo con un volo diretto. È possibile che le ricevute italiane siano riconosciute da un altro stato europeo e che il ricercatore straniero possa partecipare a una conferenza, soggiornare brevemente e poi fare rientro in Italia con un volo diretto. Tuttavia è chiaro come tutto questo guazzabuglio comporti non pochi grattacapo a chi, come ricercatore, ha necessità di viaggiare, anche spesso, e non solo per partecipare a conferenze o a meeting di progetti, ma anche per condurre esperimenti in altre strutture di ricerca, e non necessariamente in paesi UE. 

Un altro incubo è la richiesta di ricongiungimento familiare, che può portare via tanti mesi. Ve lo immaginate un ricercatore che è arrivato qui in Italia separandosi dalla famiglia e deve attendere mesi per poter ottenere il ricongiungimento del proprio partner e dei figli? Provate a immedesimarvi nella sua situazione e provate a immaginare il senso di privazione, di allontanamento e di sgomento. Chi, come il sottoscritto, si è dovuto recare negli Stati Uniti con un visto, sa benissimo che può fare contestualmente domanda di visto per i propri familiari a carico e quindi evitare dolorosi distacchi. Per chi arriva in Italia questo non è possibile.

In molti paesi esteri sono presenti degli uffici all’interno delle strutture di ricerca che fungono da liaison con le varie strutture governative. Negli USA, per esempio, questi sono chiamati offices for international students and scholars. Tali uffici assistono e prendono direttamente in carico tutte le pratiche, velocizzando il tutto e permettendo ai ricercatori di interfacciarsi con del personale che conosce molto bene le loro esigenze e problematiche. Nella mia esperienza diretta di diversi anni negli USA, sia come titolare di un visto J1 (visiting scholar) che come lavoratore (H1B), non mi sono mai dovuto recare presso alcun altro ufficio una volta arrivato negli USA. In Italia, gli studenti e i ricercatori stranieri, soprattutto se extracomunitari, fanno la spola fra mille uffici diversi dovendo per legge gestire le proprie richieste e pratiche in prima persona. In alcuni Paesi, esistono uffici governativi direttamente all’interno dei campus universitari. E in Italia? In Italia questo non è possibile. Tutte queste pratiche possono essere gestite soltanto dagli enti preposti e competenti presso le loro sedi.

Alcune prassi devono rispettare dei protocolli molto rigidi. Dopo il suo arrivo, lo straniero deve comparire presso la Prefettura di competenza, spesso accompagnato da un delegato del datore di lavoro per risolvere le difficoltà legate alla lingua, per ottenere il modulo necessario alla richiesta di permesso di soggiorno, e poi richiedere il rilascio del permesso presso l’Ufficio Postale. Per il rinnovo del permesso in scadenza, basta presentare domanda presso l’Ufficio Postale. In entrambi i casi, l’Ufficio Postale provvede a fissare un appuntamento presso la Questura. Lo straniero deve presentarsi all’appuntamento per i rilievi dattiloscopici (ovvero, la raccolta delle impronte digitali). Attenzione: la mancata presentazione al giorno e ora indicati costituiscono omessa sottoposizione al fotosegnalamento e possono essere sanzionati fino al rigetto del permesso di soggiorno o, nei casi più gravi, all’espulsione dello straniero. Non proprio rassicurante! Molti ricercatori stranieri riferiscono che questa esperienza è spesso stressante e umiliante per, usando un eufemismo, lo scarso riguardo con cui vengono trattati, a cui si aggiunge il fatto che nella maggioranza dei casi essi sono ricevuti da personale che parla solo in italiano. Ma non sembrerebbe ovvio a chiunque che una persona che sta facendo richiesta di un permesso di soggiorno è ovviamente uno straniero e probabilmente non si senta a proprio agio con la lingua italiana? 

Il nocciolo della questione è forse un altro. Data la scarsa considerazione che si ha della ricerca in Italia, e data anche la confusione normativa, i vari uffici fanno difficoltà a capire cosa sia il lavoro del ricercatore e cosa lo differenzi per esempio da un borsista, da uno studente o da un tirocinante, e quindi quali siano le documentazioni da richiedere e gli adempimenti specifici. Al fine di semplificare e velocizzare le procedure, evitare errori e magari permettere a uno straniero una esperienza meno stressante, bisognerebbe quindi adoperarsi affinché gli enti abbiano un contatto diretto, auspicabilmente direttamente nel campus se si tratta di una università, con uffici quali questura, prefettura, ASL. Non so se questo sarà mai possibile in Italia, ma so per certo che se non avviene ancora non è per una mancanza di buona volontà da parte degli enti di ricerca, i quali sono bene al corrente del problema. L’ufficio di risorse umane dell’istituto presso il quale attualmente lavoro cerca di instaurare e mantenere costantemente una collaborazione costruttiva e propositiva con i diversi enti preposti sull’intero territorio nazionale, per esempio l’agenzia delle entrate, il Comune, le aziende sanitarie locali, e altri uffici, interagendo e facendo da tramite e cercando di garantire al personale straniero il massimo supporto possibile, anche se non sempre le porte sono aperte e la normativa permette soluzioni facilitate.

Le varie comunità di studenti, in particolare extracomunitari (indiani, pakistani, iraniani, cinesi e così via), si sono negli anni organizzate per scambiarsi informazioni e consigli, e per dare in autonomia un supporto ai nuovi arrivati, ma hanno inevitabilmente agito da cassa di risonanza del crescente malcontento per lo scarso riguardo con cui gli stranieri sono trattati nel nostro paese. Il risultato è una pessima pubblicità nei confronti del “sistema Italia”, che scoraggia le nuove leve a considerare l’Italia come futura meta. Inutile dire che, terminata la propria esperienza di lavoro, la stragrande maggioranza di queste persone lascia il nostro paese con un ricordo non sempre positivo. Il brain drain continua, anzi peggiora. Il nostro non è un paese per ricercatori stranieri. 
 


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Crediti immagine: Kelly Lambert/The Conversation. Licenza: CC BY-ND 4.0

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